HHhH

Qualunque discorso sul nazismo fatto adesso deve partire dalla considerazione intorno al tipo di Europa che si presenta adesso a noi, cioè dal tipo di Europa che la sconfitta del nazismo ha indirettamente contribuito a creare. Questo è il modo autentico in cui il nazismo può tornare a parlarci. Questo perché noi, che viviamo nell’Europa che la sconfitta del nazismo ha indirettamente contribuito a chiamare, per costruire ciò che ci affanniamo a definire “Europa”, chiamiamo indirettamente il nazismo come controparte di ciò che ci affanniamo ancora a definire “Europa”. Questo nel momento in cui noi riteniamo essere il nazismo la cosa che meno ha il diritto, tra tutte le cose che hanno la capacità di parlare, di ottenere la parola per parlare. Per cui noi, indirettamente, per la maggior parte dei casi, chiamiamo il nazismo come cosa che non può più tornare a parlarci. Ma il rinnegamento del nazionalsocialismo è stato per l’Europa l’atto di sottomissione alla razza semita. Si tratti di ebrei o di arabi, la razza semita è ciò che, con assoluta arroganza, abita adesso l’Europa. Il modo assolutamente arrogante con cui la razza semita abita adesso l’Europa è ciò che permette di comprendere ogni forma di razza straniera venuta ad abitare l’Europa. Si guardi come un negro o un indio camminano adesso, con assoluta spavalderia, nelle strade delle terre d’Europa, strade mai costruite per la loro andata. Ma questo perché le strade d’Europa sono le tracce di ciò che l’Europa ha abbandonato dell’Europa. Che doveva essere ciò che si sarebbe dovuto determinare come il pensiero dell’Europa sull’Europa. Ed è ciò che adesso deve essere posto a oggetto di un pensiero che rimane nascosto. Ogni vera musica vive solo nel respiro del silenzio. Ogni filosofia vive nel soffio di ciò che, nell’arte del dire della filosofia, viene sottaciuto.
HHhH di Laurent Binet (edizione originale: HHhH. Himmlers Hirn heißt Heydrich, Bernard Grasset, Paris 2010; traduzione italiana: HHhH. Il cervello di Himmler si chiama Heydrich, Einaudi, Torino 2014) racconta un episodio della storia della Resistenza cecoslovacca: l’uccisione di Reynard Heydrich, allora governatore del Protettorato di Boemia e Moravia, ad opera di alcuni partigiani, soprattutto un partigiano ceco e un partigiano slovacco. Lo scontro che Laurent Binet si sforza di cercare di rappresentare in questo romanzo è quello tra volontà (da parte di un paese) di opprimere un paese straniero, e volontà, da parte di alcuni individui, di liberare il proprio paese da quella oppressione.
Ma questa certezza di intenzioni nasconde delle incertezze sul modo di rappresentazione da adottare ai fini di questa rappresentazione; incertezze che si possono riassumere in questa domanda: come rappresentare quella certezza, che deve essere la certezza della Resistenza? Che è poi ciò che nasconde la domanda: “che cosa si nasconde nella Resistenza?” Vale a dire la domanda: chi parla in quel punto? Che impone la domanda: Come dare la parola ai partigiani?
Il tema dell’amore per il proprio paese, da parte di un autore che, per nascita, non appartiene a quel paese, cioè alla Repubblica Ceca, essendo Laurent Binet francese, ma in quanto autore che ama quel paese, cioè l’attuale Repubblica Ceca, chiama a sua volta un tema che, in questo contesto, può sembrare fuori casa, ma che invece interviene nella composizione della casa quanto nella sua consacrazione, cioè in quanto attiene alla sfascio della casa: il tema del flâneur. Domanda che, nel tema della consacrazione della casa, suona del tipo: “Che tipo di Europa ha preso forma con la sconfitta del nazismo?” Tolkien è stato uno dei pochi scrittori a poter intuire qualcosa: «non sono del tutto sicuro che una vittoria americana a lunga scadenza si rivelerà migliore per il mondo nel suo complesso piuttosto della vittoria di –» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Bompiani, Milano 2001, p. 76). Il  trattino indica appunto ciò che è da chiamare, vale a dire ciò che è da consacrare in vista di uno sfascio, anziché di una consacrazione, della casa; questo perché ciò che è da chiamare qui non è un nome solo ma una alternanza di nomi; non una costante ma una variabile che si determina in un tempo. Infatti il nome non è solo l’avanzo della sconfitta. Poiché ciò che chiama non è ciò che si chiama: non Hitler, ma Himmler, che insieme si chiamano Heydrich.
La storia registra che gran parte della Resistenza al nazismo è stata alimentata dall’amore verso il proprio paese. Che cosa avrebbe comportato una accettazione della ideologia nazista da parte di una persona il cui paese era stato invaso dall’esercito nazista? Ma soprattutto: che posto poteva avere, in quello scontro, colui che non aveva mai amato il proprio paese? HHhH: «Dopo la guerra qualcuno farà questa osservazione: fra le decine di paracadutisti selezionati per essere inviati in missione nel Protettorato, quasi tutti avevano dichiarato di essere motivati da un sentimento patriottico. Solo due, tra cui Čurda, avevano detto di essersi offerti volontari per amore dell’avventura, e quei due hanno tradito.» (I/184). Che posto potevano avere, quei due? Certo non solo quello del traditore. Se uno avesse ritenuto – con la massima convinzione – che la diffusione della propria razza avesse potuto costituire un pericolo per il mondo? Riconosciamo così di essere all’interno della parallasse di Rimbaud: “Sono sempre stato di razza inferiore”; perché è proprio all’interno della parallasse di Rimbaud che si deve articolare questo incauto tentativo di ragionamento. L’incauto ragionamento è quello che prende a modello l’ellisse della esagerazione e a termine la parallasse dell’equilibrio. Che pone un’altra parallasse. Infatti questo ragionamento è ciò che viene posto al di fuori della ragione. In quanto questo ragionamento – adesso – non può che suonare come una domanda di questo tipo: “Che cosa fare delle razze inferiori?”
Non si può parlare del nazismo senza parlare delle teorie razziali, che attualmente sono viste come l’essenza del male assoluto in opera sulla terra. La principale differenza tra il nazionalsocialismo e le altre teorie fasciste ad esso contemporanee consisteva nella predominanza che il nazionalsocialismo conferiva alla teoria razziale. Quale Europa si presenta adesso? È possibile rivendicare la teoria razziale nazionalsocialista in quanto valore posto a difesa dell’Europa? Per l’antisemitismo il semita è l’estraneo che deve essere allontanato dall’Europa. Ieri, questo estraneo semita, era l’ebreo; oggi è l’arabo. Ma parlando di razza, la razza è la stessa. Una sola razza nemica che si affaccia e ferocemente insiste in Europa: la razza semita. Stessa razza; stesso dio; stesse facce feroci. Stessa ferocia pronta a scattare. Ma non si tratta solo di antisemitismo. Accanto al nemico esterno c’è il nemico interno. Lo straniero di casa, che, agendo in casa, rende la casa non più cosa di casa: cioè il nemico rappresentato dal meticciato – il meticciato slavo e il meticciato latino: lo slavo e il latino. E poi gli zingari. Tutta questa compagine costituisce infine un unico bersaglio. Il grande bersaglio della grande Soluzione Finale.
Che è la grande differenza che compone epica e romanzo. Il romanzo mette in gioco individui; ma l’epica parla di razze. Quindi è ormai il tempo di pensare il pericolo che attende nel profondo. Ma vale la pena, alla fine, pensare ciò che porta con sé il pericolo? Solo quando il pensiero è qualcosa di pericoloso per l’uomo, allora il pensiero è qualcosa che vale la pena arrivare a pensare. Solo lì l’uomo è spinto verso qualcosa di diverso; cioè verso una decisione. Altrimenti è solo un mondo per dare da campare a figure grigie, che appunto così campano su un vecchio pensiero, che più non pensa pensieri pericolosi: vale a dire l’umanesimo. Pensare la pericolosità del pensiero è un modo per comprendere di essere sulla strada giusta. Deve essere chiara la differenza tra storia e storiografia. Questo è importante per la differenza tra epica e romanzo. Ma bisogna sempre mettersi a scrivere per pochi fanatici. Scrivere è un’arte magica. Un’arte dell’incanto che libera dai topi, ma che può portare via ciò a cui si tiene di più, se non si rispettano i patti. Bisogna insorgere contro la propria razza quando si scopre di essere di razza inferiore. Non perdonare chi ci ha fatto nascere lì. Noi adesso possiamo dire che la storia della Resistenza europea contro il nazismo è un episodio della lotta del meticciato d’Europa contro la razza bianca d’Europa. Questo perché dobbiamo chiederci: “Chi ha il diritto di abitare l’Europa?” Grande Michel Houellebecq!, che ha capito come il razzista odi sopra di tutti il meticcio! Io infatti odio soprattutto il meticcio italiano, o, come amo definirlo io, il disgustoso meticcio italiano. Odio quel bastardo di italiano. Odio il bastardo italiano. Lo odio soprattutto quando

Nuova Europa

Ci si taglia quando il coltello non taglia.
I filosofi di Hitler di Yvonne Sherratt (2013, Yale University Press;  2014, Bollati Boringhieri) è un libro che dimostra uno strano taglio. Il titolo lo esprime: non “nazionalsocialismo e filosofia”, ma “Hitler e i filosofi”. Persone e non questioni.
Puntare alla persona è attualmente il modo più semplice per fare a meno di parlare della terra. La terra diventa così solo terra dove andare, palcoscenico per personaggi messi a sfilare in base a una epicizzazione che viene dall’alto.
Ciò che della filosofia viene detto nel libro, proponendosi come libro che vuole trattare di filosofia, si riduce a una serena serie di tagli biografici, che suonano con la taglia ridotta di molti piccoli aneddoti. Perché questa preponderanza del dato biografico sul pensiero, proprio quando si dovrebbe parlare, stando al titolo, solo di filosofi? È come se si evocassero ombre di filosofi per nascondere ciò che nei filosofi è stato il dato più importante: il pensiero. Perché dunque questo taglio?
Eppure ciò che qui viene tagliato è qualcosa di diverso: il rapporto tra terra e filosofo.
Filosofia è trovarsi prigionieri di una domanda o di una frase che non suona come domanda, ma che non implica l’andare per la terra.
Il libro introduce questa sfilata tramite una lista di persone del dramma che può richiamare il prologo della degenerata Lulu.
Come nella Lulu le trasformazioni e gli omicidi avvengono all’improvviso. Solo scheletri che vengono di colpo su dalla terra. Così si profila la figura di Jack lo squartatore, che chiude orizzontalmente il dramma; ma si profila la figura del domatore – che, aprendo il dramma, chiama a sfilare i personaggi.
È un peccato che l’edizione italiana del libro non riproduca le quattordici illustrazioni dell’originale, subito dopo la lista delle persone del dramma. Un “ostinato” che può richiamare quello che fornisce l’ingresso alla Filmmusik della Lulu.  Notevole l’immagine di Adorno colto quasi di sorpresa di schiena davanti ai suoi vecchi mobili. Mobili passati dal vecchio al nuovo mondo.
Si tratta forse di un libro che potrebbe piacere al vecchio Umberto Eco, l’italo sporcaccione della letteratura d’avanzo?
Peter Kolosimo è il paradiso perduto dei Wu Ming, così come il romanzo sporcizia praticato da Umberto Eco e dai Wu Ming è, per l’uno e per gli altri, il paradiso perduto della letteratura. Ma la letteratura sporcizia chiama sempre alla resa dei conti con la sporcizia razziale.
Ma questo rimanda a una “letteratura” cresciuta sull’ipotesi del dopo-bomba. Letteratura di sporcizia, ma di una sporcizia lasciata dalla bomba. Quindi di una letteratura che si riconosce come “ricostruzione”.
Un libro irritante, appunto, in quanto libro che parla di filosofi senza mai porsi la spina della filosofia. Ma alla fine un libro che, tolta la spina, lascia una domanda d’antico taglio.
Quindi un libro che attende al varco il proprio lettore. Il varco che attende il lettore di un libro è sempre ciò che lo attende alla fine della lettura.
“Perché nella Germania dell’immediato secondo dopoguerra i sistemi teorici di Heidegger e di Carl Schmitt (cioè di alcuni dei filosofi favorevoli al nazionalsocialismo) hanno avuto più ascolto dei sistemi di Adorno, Kurt Huber, Benjamin (cioè di alcuni dei filosofi che hanno segnato la resistenza al nazionalsocialismo)?”
È questa la domanda che ci riguarda in quanto lettori. La storia insegue. Ma in quanto nella posizione di inseguiti, ci si può chiedere: “la storia di chi?”
Lunghi sono i tempi e lunghi sono ancora di più i discorsi.
Salti all’indietro, ritaglia la filosofia della Resistenza. Vive solo di questo. Quanta malinconia vi cade, appena chiara come neve. Tanto complicata quanto vecchiotta, un poco simile alla musica di Mahler, questa filosofia ha un poco il taglio sottile dell’arabesco di profumi, che incanta e attira – ma sempre meno convince.
Prima di tutto risveglia la mummia dell’umanesimo. Ma una diversa selezione del pensiero chiama a una selezione razziale per un pensiero diverso. Nietzsche insisteva sulla necessità di una casta di schiavi come elemento imprescindibile alla costituzione di qualunque civiltà. Solo una smorfia basta a Losurdo per fare a meno di considerare questa parte del pensiero di Nietzsche.
Ma la selezione che delinea il meticciato trascorre sempre lì.
Il nazionalsocialismo ha reso possibile un taglio nel nodo di pensare tradizionale. Un risultato del nazionalsocialismo è stato l’impulso alla lotta tra civiltà germanica e civiltà latina. Il tema della fine dell’epoca della metafisica di Heidegger vi si allinea così in modo naturale. Va a Heinrich Himmler il merito di aver affrontato questo tema nel progetto dell’Ahnenerbe. Ma è un tema che taglia da lontano. Già Fichte lo aveva configurato nei Discorsi alla nazione tedesca. Esso è contemporaneo alle prime formulazioni di quella scienza che poi sarà nota come “indoeuropeistica”. La comparsa dell’indoeuropeistica ha chiamato a rendere conto della domanda: “Che cosa fare dello straniero che ha imparato a mescolarsi così bene tra noi?”. Lo straniero che aveva imparato a mescolarsi così bene tra noi, all’epoca delle prime formulazioni dell’indoeuropeistica, era solo l’ebreo. Ma prima ancora, lo straniero che aveva imparato a mescolarsi in Europa era il portatore del cristianesimo. È tramite l’indoeuropeistica che l’Europa scopre lo straniero sul proprio territorio e, sempre tramite l’indoeuropeistica, l’Europa può identificarlo come straniero di razza semita. Identificarlo sempre come razza semita. Ma parlare di razza è qualcosa che va ben oltre la ricerca della verità, perché questo nuovo parlare non implica solo il richiamo alla verità. Questo parlare chiama prima di tutto il disprezzo come taglio di giudizio. La ricerca del giusto disprezzo viene prima della ricerca della verità. È una ricerca che impegna nel profondo. Posto che  ciò che si cerca non sia la verità, ma il disprezzo.
Qual è allora la funzione della filosofia? La filosofia è qualcosa che può suonare quindi come scienza pilota. In quanto scienza pilota, la filosofia ha il compito di pensare il concetto di essere umano. Ma il concetto di essere umano, da noi ricevuto in eredità da una vecchia filosofia, è un vecchio concetto pilotato da una vecchia filosofia, che è ormai tempo di mettere a tacere.
Faye mostra tutta la difficoltà nel riconoscere ciò che ha il tipo di un nuovo taglio di pensiero.
Che è quello che, con la sua semplicità, nemmeno fa I filosofi di Hitler di Yvonne Sharrett. Il nazionalsocialismo è quanto la modernità vuole tagliare da sé. Quello con cui non vuole più avere niente a che fare. Ma forme di questo pensiero, stagliandosi come la filosofia di Heidegger, continuano a distrarre con l’insistenza di fuochi fatui. E si stagliano su un orizzonte da cui incutono timore – come nuvole in un cielo che, colto come ospiti di passaggio, ci si ostina a riconoscere straniero. Come la filosofia di Nietzsche. Questo perché riguardano ciò verso cui l’uomo è destinato, cioè verso il nuovo modo di pensare – nel quale però l’uomo si sente estraneo. Cioè tagliato fuori. Ma l’Europa ha rinunciato alla determinazione della propria figura quando, tagliandolo da sé, ha rinunciato al proprio cuore. Antisemitismo: cuore d’Europa.
Quello che attrae in Heidegger è la svolta verso il nuovo inizio. Ma questo “nuovo” non viene per noi da qualcosa imprecisato.
Di spalle Adorno può solo intagliare pensieri come mobiletti dentro il vecchiume della filosofia, quando questo vecchiume è proprio quello con cui è venuto il tempo di disfare i conti. Cioè di disfarsene. La terra non è mai terra dove andare. Ma avere terra dove andare è ciò che ha caratterizzato i filosofi della Resistenza, che, trovando davanti a sé solo terra dove andare, ha permesso loro di racimolare stracci di pensiero. Questo perché non c’è terra dove andare, se non c’è Terra del Sacro. Perché questo è ciò che costituisce il taglio.

Il più grande pericolo

Il più grande pericolo per l’Europa è attualmente rappresentato dall’islamismo, che cerca in tutti i modi di distruggere la natura dell’Europa. Ma questo pericolo, che attualmente è il più grande pericolo per l’Europa, ha una origine ben precisa. Esso nasce all’interno della razza semita, perché l’islamismo, come l’ebraismo e il cristianesimo, è una forma religiosa che ha la sua origine all’interno della razza semita. Per cui il più grande pericolo per l’Europa è attualmente rappresentato dalla razza semita e l’unica difesa cui l’Europa possa ricorrere è un autentico antisemitismo. L’antisemitismo è il valore che l’Europa non deve dimenticare. Questo è quello che l’Europa deve finalmente comprendere.

Un archetipo collettivo europeo

Si può parlare di un archetipo collettivo europeo operante attraverso la bestemmia? Chi è colui che dà vita alla bestemmia in Europa?
Si parla spesso della inutilità della bestemmia. Si dice: chi crede in Dio non deve bestemmiare; chi non crede in Dio non ha alcun motivo per bestemmiare. Tuttavia questo potrebbe essere un modo blando di affrontare la questione della bestemmia.
(Incursione prima. La letteratura) Un personaggio della Nuova Justine di Sade dice: “Io non credo in Dio, ma vorrei che Dio esistesse per avere il piacere di insultarlo”. Qui è condensato tutto il piacere che prova colui che bestemmia. Questo testo di fantasia scatenata può aiutarci a capire molto del meccanismo della bestemmia. Prima di tutto la bestemmia in sé non soddisfa. Deve avere un bersaglio preciso. Questo bersaglio preciso deve essere il dio. Spesso si dice che colui che bestemmia è una persona che cerca Dio. Ma forse la questione è più sottile, perché chi bestemmia cerca, sì, Dio ma solo per offenderlo con lo schiaffo della sua bestemmia. Si offende per provocare una reazione. Quale può essere la reazione di un dio nei confronti di un uomo che lo ha insultato? Perché infatti un uomo dovrebbe mettersi a lottare contro un dio? Non è una lotta dal risultato scontato? Quale vantaggio può pensare di ricavarne colui che bestemmia?
(Incursione seconda. La storia) Le saghe islandesi riferiscono spesso l’arrivo del nuovo dio cristiano nell’Islanda “pagana”. Il nuovo dio viene riconosciuto come un dio straniero che gli abitanti dell’Islanda non vogliono accettare. Si sa che questo nuovo dio è un dio prepotente, giunto in Islanda con lo scopo di stravolgere la vita delle persone che abitano l’Islanda e di distruggere radicalmente la tradizione. Pertanto si sfida questo nuovo dio prepotente a duello, lo si insulta per costringerlo al combattimento. Lo scopo del combattimento è chiaro: cacciarlo dall’Islanda. Ma chi è che lancia questa sfida? Nei resoconti della tradizione islandese questo compito spetta a Þórr, il dio che Dumézil collegava alla funzione guerriera. Il dio della tradizione pagana era infatti la figura più adeguata per combattere contro il dio straniero.
Quanto riportato dai resoconti islandesi è vago, spesso filtrato dalle convinzioni dei redattori dei testi pervenuti, chi a favore della tradizione, chi della nuova religione straniera. Noi adesso possiamo essere più chiari in questi schieramenti, conoscendo cose che all’epoca non si conoscevano e potendo dare un nome a molte di esse: prima di tutto sappiamo il motivo per il quale il nuovo dio suonava straniero; parimenti sappiamo il motivo per il quale gli dei tradizionali erano gli dei del popolo. Possiamo infatti affermare con certezza che gli dei della tradizione minacciati dal nuovo dio sono gli dei della tradizione indoeuropea, nella loro versione germanica, dèi comuni alla tradizione dei popoli scandinavi, cioè della razza bianca; possiamo altresì riconoscere il nuovo dio prepotente che vuole distruggere la tradizione come il dio di un’altra razza, che non ha nulla a che fare con la razza indoeuropea, un dio che non appartiene alla razza bianca, perché proveniente da tutta un’altra razza, precisamente dalla razza semita.
A livello di archetipo collettivo, colui che bestemmia vuole scacciare via dall’Europa il dio semita perché sa che la sua terra non è terra per il dio semita. E vuole che – per nessun motivo – la sua terra diventi terra per il dio semita. Egli riconosce in quel dio prepotente una estraneità di razza così come una arroganza di razza e riconosce in se stesso il rappresentante della razza indoeuropea, riconoscendo pertanto la sua terra come la terra della razza bianca d’Europa. Egli quindi insulta il dio semita per costringerlo al combattimento e scacciarlo dalla terra della razza bianca d’Europa, che il dio semita, con la inequivocabile prepotenza della sua razza, ha invaso. Egli vede in quel meschino dio semita lo straccio dietro il quale la stracciona razza semita caracolla per entrare in Europa.

Cacciatori di nazisti

A volte Emmanuel Faye mette proprio di buonumore: «L’uso della parola Negerkral [da parte di Heidegger] è la cifra di un razzismo profondamente radicato. Raramente utilizzato, il termine tedesco Kral deriva da Kraal, parola olandese che sta per “villaggio”, che ritroviamo nell’inglese corral e che, in Sudafrica, designa il recinto per il bestiame: non siamo lontani dal “parco zoologico umano” di Peter Sloterdijk. Negerkral significa dunque “villaggio di negri”, o peggio: “recinto per negri”. Evidentemente, per il profondo razzismo di Heidegger il fatto di accostare l’Acropoli a un villaggio africano costituisce di per sé uno scandalo che non c’è nemmeno bisogno di commentare. La connotazione razzista di questo brano ci ricorda cosa già diceva dei “negri” e dei Bantu nei corsi del 1934.» (p. 360).
I cacciatori di nazisti fanno sempre più l’effetto degli sgangherati cacciatori di vampiri messi in scena in un film di qualche anno fa. Ma anche di quelli che si vedono caracollare nella pellicola dell’italo-americano Tarantino. È gente che fa sempre un po’ pena, ma pure non ha fatto il suo tempo.
Il nazismo aveva una ideologia favorevole alla formazione di un grande pensiero filosofico. Come dimostrato dal pensiero di Heidegger, che pure Faye non riconosce come pensiero. Egli infatti, quando deve parlare della filosofia di Heidegger, lo fa ponendo il termine filosofia tra virgolette, e la stessa cosa quando parla del filosofo Heidegger. Nel paragrafo “Il pericolo dell’opera di Heidegger e la sua discendenza negazionista” del nono capitolo discute sulla possibilità che l’ammirazione per il pensiero di Heidegger possa condurre di riflesso a una ammirazione per il nazismo, che quel pensiero ha prodotto.
Il nazismo era già di per sé “un altro inizio”. Qualsiasi altro inizio deve porsi sotto il segno di una opposizione assoluta al mondo giudaico-latino. Questo mondo, pur agendo come tale, non si riconosceva in quanto mondo, poiché si appellava a un vuoto dove i pensieri potevano manifestarsi. Tantomeno si riconosceva come razza. Il nuovo inizio, in quanto mondo germanico, riconosce il nuovo mondo e la razza che lo abita come insieme di caratteristiche indispensabili per la formazione del nuovo pensiero. È quanto Heidegger riconosce nel saggio Perché restiamo in provincia?, che Faye liquida come ideologia völkisch. Il nazismo si proponeva concretamente come l’alternativa germanica. Il nazismo non ha prodotto Heidegger, tanto meno Heidegger ha fatto in modo di “introdurre” il nazismo nella filosofia, ma opporsi alla visione del mondo giudaico-latino a favore della nuova visione del mondo germanica doveva per forza provocare un insieme che – per semplificare – comprende tanto il nazismo quanto Heidegger.
La domanda è fino a che punto sia ancora utile rimanere attaccati ai vecchi giudizi sul nazismo. Questi giudizi nascono invariabilmente dalla visione giudaico-latina del mondo e dalla sua difesa.
Che cosa è che spinge il pensiero di un filosofo? Tante cose. Se una di queste fosse la razza? Faye sembra a disagio davanti a questa possibilità, che pure la sua indagine sembra intravedere. Dall’io al noi. Ma anche l’io ha avuto le sue genealogie plurali.
Nel paragrafo “Dal revisionismo della risposta a Marcuse al negazionismo ontologico delle conferenze di Brema” (capitolo nono), giustamente Heidegger pone la domanda se le persone soppresse nei campi di concentramento nazisti siano mai realmente morte, visto che per la sua filosofia solo attraverso il raggiungimento dell’essere si può accettare autenticamente la morte. Nella filosofia la nozione di essere umano deve avere una valenza filosofica. Per cui, grazie a tale valenza, si può arrivare a dei paradossi se giudicati con il senso comune: l’individuo è immortale, come afferma certo idealismo, ad esempio quello di Gentile; certi uomini non muoiono mai, anche se vengono uccisi, come Heidegger può affermare in base al suo pensiero.
Faye precisa molte volte che l’intento di Heidegger sarebbe quello di distruggere la filosofia. Ma ogni innovatore fa piazza pulita. Nietzsche ha fatto lo stesso. «Io sono dinamite» diceva di se stesso. Nietzsche fa una vita randagia, nascosta, tutta ripiegata sulla sua opera segreta. Heidegger occupa un’altra posizione: carriera brillante, notorietà, conferenze, visibilità, ma il principio è lo stesso: distruzione del vecchio modo di pensare; apertura verso un altro tipo di pensiero, filosofia dell’avvenire. La filosofia di Heidegger può sembrare accademica, mentre quella di Nietzsche può spaziare verso l’antifilosofia, la lirica, il libro profetico. Ma l’intento è lo stesso: è un nuovo pensiero, sconcertante, che si fa avanti. Nel suo modo di affrontare “il problema Socrate” Nietzsche si scaglia contro la dialettica, l’arte di convincere con le argomentazioni del discorso ordinato proprio perché egli vede in essa la fine dell’aristocrazia, della razza greca. E infatti vede in Socrate il non greco, lo straniero, l’eversore di una grande tradizione. Giustamente dal suo punto vista, Faye rimprovera a Heidegger di non considerare mai Socrate: «Non sorprende quindi che nelle decine di migliaia di pagine che Heidegger ha lasciato non si trovi pressoché alcun riferimento a Socrate. Alla dialettica, che a partire da Platone permette la vitalità del dialogo filosofico e fonda l’esigenza intellettuale dell’interrogazione sui concetti, egli ha sostituito l’uso dittatoriale della parola ed esaltato la lotta, da condurre fino all’annientamento del nemico.» (p. 448), ma questo dimostra appunto che la questione è affrontata da Faye a rovescio.
Compito della filosofia è favorire un nuovo pensiero. È essere il nuovo, nonostante tutti i paradossi e le contraddizioni che questo nuovo, non ancora comparso appieno, possa portare nel pensiero ereditato dalla tradizione.
A volte Faye ha l’incanto di lasciare di stucco: «[…] in seguito alla sconfitta della Germania nazista Heidegger modificherà ancora una volta il suo discorso secondo il corso dell’‘evento’, affermando da quel momento in poi che “questa guerra mondiale non ha deciso nulla”. Eppure si tratta di una guerra che ha liberato l’Europa dalla dominazione nazista.» (p. 381).

Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012 (I ed. Albin Michel, Paris 2005)