Ominidi

Meriterebbe, penso io, più che Quadri della Russia pagana, Le sacre du printemps del meticcio russo Igor’ Stravinskij, come sottotitolo, quello di Ominidi della Russia pagana. Perché questa sottigliezza, direte voi? Perché è di una specie appena appena umana che, in quello sputo di opera, dico io, musicalmente si porta a trattare, nel senso che, musicalmente, è quella specie appena appena umana che vediamo, con ferocia e ignominia, lì essere rappresentata. Ma la questione è: “Che cosa dice, questo balletto, pur senza chiamare in causa la voce umana?”, anche se la questione sembra posarsi sull’ominide. Con radicalità spregiudicata la musica per balletto di Stravinskij ne ascolta il battito del piccolo cuore fisso, ne riporta gridi, gesti, strampalate posture preistoriche. Cuore di cane, cuore di slavo, direte voi; tutto questo, potreste obiettare, è tipico del meticciato. Così come degli animali, alcuni di voi potrebbero aggiungere con mia più che assoluta approvazione. La musica del meticcio italiano Rossini (Gioacchino) risponde agli stessi – primitivi – principi di latente supremazia. Perché non parlarci chiaro?: la questione è il meticciato. L’atteggiamento spregiudicato del meticcio russo Igor’ Stravinskij (Fëdorovič), nel Sacre, si collega a un apparente scavo psicologico, che può ricordare quello che il meticcio russo Dostoevskij aveva già compiuto nella letteratura, a proposito dei suoi ingombranti personaggi. Ma cosa divide, allora, scavo compiuto da meticcio a meticcio, che è ciò con cui noi, mediocri meticci italiani, ci troviamo adesso ad avere a che fare? Il meticcio russo Dostoevskij, con i suoi romanzi, ha imposto un tipo di personaggio in Europa (terra della razza bianca d’Europa), tale che, in Europa, si è potuto parlare di “romanzo slavo”, come d’Annunzio ha puntualmente fatto. E poi ne è stato seguito, senza più ricorrere all’infelice espressione, il magistrale esempio. L’opera di scavo del meticcio è arte faticosa, mettetevelo in testa, compagni. Lo scavo del personaggio compiuto dal meticcio russo Dostoevskij è diverso dalla finezza psicologica che si trova nei romanzi di Stendhal, finezza tanto apprezzata da Nietzsche (vi sovviene?) – è qui che s’incontra la differenza di razza –, che si avvaleva del rapporto con l’Altro, quindi in base ad un andamento, almeno apparente, che procedeva in orizzontale, ma che tale non era per niente. Quindi inutile richiamare la camminata lungo la strada portando con sé lo specchio. Dostoevskij indica un movimento di caduta nel profondo, tutt’altro che orizzontale, mentre, paradossalmente, Stendhal abbozza un allontanamento epico quale nucleo di una suprema arte narrativa. I meticci si ritrovano uguali in tutto il mondo, vale a dire in tutto ciò che determina la sporcizia che inquina il mondo. Anche il meticcio italiano Dante se la suonava malamente, rachitico, sporco, poeta mediocre, difilato, su è giù per tante scale, in un mondo meschino. La musica non può presentare le gesta di una razza secondo uno schema orizzontale, come vediamo poter fare la compagna letteratura, ma deve calarsi in verticale, verificare ciò che giace in profondità, viaggiare allucinatamente all’interno di un corpo che è comunque il corpo di una razza virtuale; cioè, in questo caso, calarsi all’interno del corpo nefasto, virtuale dei disgustosi ominidi della preistoria, che però aprono agli esoscheletri degli eroi dei videogiochi – come avrete ormai capito. (Se non lo avete capito, dimostra che siete lettori imbecilli, e quindi è meglio, per voi, interrompere qui la lettura.) Parlare della musica a programma, a questo punto, non cambierebbe proprio niente (nell’ipotesi di avere a che fare con lettori imbecilli). Questo è il modello imposto dal rilevamento della creatura-mondo gnostica (avete presente Moby-Dick? intendo la discesa nella carcassa della balena quasi del tutto svuotata, quando la balena stessa era il mondo visto in chiave gnostica). Discesa fino laggiù in fondo dove, gioia incontaminata, il dolore dell’ultimo uomo fa fagotto, come si legge nel Doctor Faustus, se vostra memoria or non vi falla. Gli ominidi non si muovono mai in un mondo, perché non possono mai godere di mondo alcuno (il meticcio russo Dostoevskij ha espresso già questa situazione nel suo romanzo giovanile dal brutto titolo Le notti bianche), e quindi le loro azioni non possono essere presentate in nessuna opera epica che si avvalga del collegamento di razza e mondo in un insieme di tanta assoluta perfezione, ma devono essere suonate in un ambiente che è il loro mondo gnostico di assoluto abisso. (Arte degenerata, che chiama in giudizio ciò che è razza degenerata.) L’ominide è ciò che, senza sapere, aspetta il colpo dall’alto, oppure il colpo dal basso, per potersi sgranchire sue mille gambette storte (che è quello che, noi spettatori, vediamo servito all’inizio di questo balletto infausto) fino al punto in cui esso non sarà fatto secco. E infatti l’ominide, qui, è la forma preistorica che, senza sapere nulla del fuoco, può alzarsi e dire: “Siamo fritti!” Questa è la cifra della musica di Stravinskij. Pensateci! Su queste gambette storte questa musica inizia, da sola, la sua sgangherata rivoluzione su un palco decretato quale tempio della musica moderna. Come animali, gli ominidi hanno solo ambiente, perché non possono avere mondo. Dostoevskij e Stravinskij lo hanno compreso. In quanto meticci. Domanderete: può, un meticcio, comprendere? Per questo c’è voluto il pensiero rammemorante di Heidegger. Che è pensiero nato nella razza bianca, che, rammemorante di ciò che si trovava all’inizio della razza bianca, poteva poi presentarsi come pensiero che si rivolgeva alla razza bianca nel momento del massimo pericolo. Analogo lavoro di presentazione del corpo di un essere vivente insieme all’ambiente di cui esso è parte è stato intrapreso invece da Olivier Messiaen per le musiche composte a partire dai canti degli uccelli. Ricordare infatti che Messiaen, oltre che grandissimo compositore (di gran lunga superiore, penso io, al mediocre musichiere, e meticcio russo, Igor’ Stravinskij), era ornitologo. L’operazione messa insieme da Stravinskij col Sacre, potrebbe, nella forma, apparire simile a quella pensata da Messiaen. Ma con risultati opposti: quello che Messiaen prende in forma musicale è il canto di alcuni animali; quello che Stravinskij sagoma come musica è l’antigesto dell’ominide – che di tutto un po’ si fa portatore, fuorché di musica. Vediamo con disgusto che questo ominide è anche il fondamento della razza del compositore (razza che non è razza, bensì antirazza; così come il ritmo non è tema ritmico, ma grezzo tamburellamento che mette in moto il corpo-marionetta di una razza che è sempre e solo razza degenerata, comunque la si tratti, cioè antirazza). L’antirazza è ciò che adesso deve essere affrontato. Così l’antirazza chiama l’antigesto, che, a sua volta, chiama l’antitesto, che è quello che qui adesso si legge. Che è il tratto con cui la razza degenerata chiama l’arte degenerata, che è la sua vera creazione, che merita appena il trattino della sopravvivenza. Come parlare di quella brutta cosa che è il Sacre? Sappiamo, noi, che cosa, questa brutta cosa che è il Sacre, abbia comportato nel campo della musica occidentale, da quando questa brutta cosa, sembra esserci stata lasciata come dono da parte del meticciato russo? L’entusiasmo per l’automatismo è qualcosa che giunge da un lontano tempo di cavalli ammassati di Troia. Anche Heidegger considerava con entusiasmo l’attività automatica dell’operaio di Jünger considerandolo autentica realizzazione del superuomo di Nietzsche trasposto nella nuova epoca. Eppure niente di automatico avrebbe dovuto essere stato in grado di farla franca – nella nuova epoca. Per questo, mi sembra giusto dire: niente meticciato in Europa, prima di parlare di Nuovo inizio! Il fatto è che l’ominide non ha il mondo presente davanti a sé in quanto presenza, perché è esso stesso parte di un ambiente che non riconosce come presenza, davanti al quale esso non può separarsi in modo alcuno. E quindi meno che mai può avere mondo. Il ritmo, sia esso ritmo stravinskiano o ritmo rossiniano, è il laccio che manifesta il “fare parte” di un ambiente, che però mette a parte proprio l’essere parte. Ciò che è europeo ha a che fare con il meticciato slavo e con il meticciato latino. Ma è l’Europa di razza bianca che ha a che fare con il meticciato. Il ritmo è la pulsazione avvertita nel gesto dell’ominide che si accompagna allo sbocciare della piccola gemma, ma che niente sa di questo sbocciare; al rinnovamento primaverile della natura, ma che niente sa di questo rinnovamento; all’avvicendarsi di giorno e notte, ma che niente sa di questo avvicendarsi; così come il canto degli uccelli si accompagna all’ambiente in cui quegli uccelli vivono – e di cui essi sono parte sempre distratta. Ma che mai viene presentata come musica che non sa niente dell’accadere della natura. Il compositore Olivier Messiaen si pone come compositore che si pone come colui che deve pensare la musica in presenza di un mondo, a partire, cioè, da ciò che non ha mondo, vale a dire gli animali (visto che, con Messiaen, non si parla degli ominidi), e non solo di ciò che fa parte di un ambiente in quanto pulsazione elementare di un ritmo primitivo, vale a dire gli ominidi. Infatti la musica di Messiaen dedicata ai canti degli uccelli non è mai musica tesa a riprodurre realisticamente i canti diversi degli uccelli. Per chiarire ricordiamo la musica del meticcio italiano Ottorino Respighi, quale estremo possibile, che, nella partitura de I pini di Roma, inserisce il canto dell’usignolo automaticamente registrato su disco da riprodurre in dialogo con il clarinetto. Il mondo non è presente all’ominide, come non è presente all’animale, perché quell’abbozzo di forma è solo parte di un ambiente. È questo “fare/essere parte” che la musica del meticcio russo Igor’ Stravinskij coglie nel Sacre, con giustezza, sotto l’aspetto di pulsante automatismo di ritmo. Ma tutto questo perché questo è ciò che riguarda il meticcio. Spesso automatismo ritmico, però, che si nota nella musica del meticcio italiano Gioacchino Rossini. Questo perché è quanto riguarda il meticcio. Automatismo, cioè brutalità da parte di un tamburellamento, è sempre ciò che deve regolare la vita dell’ominide. Se l’ominide è ciò che non può interpretare il mondo, ma che può vivere, però, festosamente, al ritmo dell’ambiente nel quale gli è capitato di essere stato lanciato come prezzo dell’ingranaggio – finché, un bel momento, quel pezzo non cessa di colpo di vivere, e diventa infausta carcassa nell’ambiente di una maledetta Italia –, l’automatismo è ciò che richiede, per essere rappresentato come tale, che ponga avanti a sé il mondo, di un compositore, come presenza – e non di un musichiere quale l’odioso meticcio russo Igor’ Stravinskij davanti ai nostri occhi è sempre stato –, per quanto esso possa identificarsi veramente in quelle pulsazioni – più che vere. La musica del meticcio russo Igor’ Stravinskij mi ha sempre fatto l’effetto di vera musica falsa. Cioè musica da non fare andare avanti (con le sue gambette storte). Ma che cosa si intende con l’espressione “musica falsa”? E come togliere la vita, ora, a ciò che è vita che non merita di vivere? Posso dire che la brutta musica del meticcio russo Igor’ Stravinskij sia una musica sbagliata? Di sbagliato c’è solo la razza alla quale il meticcio russo Igor’ Stravinskij, disgustosamente, è sempre appartenuto autenticamente. Vale a dire il balletto di quella vita indegna di vivere, che ora la vediamo (e di che altro stiamo parlando, signori miei?), quasi mai finora riconosciuta come tale. Si può pensare la musica del meticcio russo Igor’ Stravinskij al di fuori della musica di quell’ammasso di cose diverse impropriamente chiamato “popolo russo”? A rendere falsa la musica di Stravinskij – secondo me – è proprio l’uso delle melodie popolari russe sparse qua e là in quella “musica”. Ma il fatto di usare una melodia “popolare” in una musica che non ha nulla di popolare, ma proprio perché nessun popolo lì dentro esiste, dimostra la verità di questa falsa musica: la musica di Stravinskij, che non ha razza, dimostra proprio quanto questa musica non sia questione di musica o di musicologia, cioè questione di razza – ma questione di antirazza. Che è ciò di cui si deve parlare. La musica di Stravinskij è vera perché è falsa. Cosa sappiamo della antirazza? Il contrario non si può dire: infatti il Sacre non comunica niente del mistero di una qualche epoca scomparsa, vale a dire del paganesimo. Ne rende solo un preteso quadro distaccato attraverso sagome scoppiettanti di elementare vitalità. A proposito del Sacre, ci si potrebbe chiedere: la comunità di ominidi rappresentati in quell’opera infausta, possiede, o no, laccio di lingua? Dal balletto non si può decidere niente. È il balletto una forma di elisione della parola? Il vertice raggiunto, in quella falsa arte, dal meticciato russo, ne garantisce la sostanziale vera falsità profonda. Si potrebbe dire che il meticcio italiano Ottorino Respighi ha chiamato, attraverso la sua brutta musica di festa, la brutta musica seria del meticcio russo Igor’ Stravinskij (almeno nelle fugaci contraffazioni del Sacre e di Petruška) inserite ad arte nella trilogia di Roma, ma questa è un’altra storia, come ci potrebbe ricordare dall’Ungheria il compagno Lukács György (ormai solo mummia conservata chissà dove). L’uso dei temi popolari in Stravinskij richiama l’uso dei temi popolari in quella infausta trilogia di un meticcio italiano musichiere di second’ordine. Chiedo, compagni: conoscete qualcosa di più indegno di vivere di un meticcio russo e di un meticcio italiano? Quello che manca nei quadri del Sacre, dico io, è proprio il quadro vivente di una cultura con tutta la sua complessità anche raggiunta attraverso lo straccio qualsiasi di lingua. Non vi pare? Quello che viene celebrato è solo una forma avulsa da ogni cultura raggiunta soltanto da un corpo falsamente ritenuto umano. È infatti il concetto di “essere umano” che qui deve essere ripensato. Una prima apparizione del corpo senza organi, potreste dire voi. Insisto nel sostenere che, in quella composizione, si riconosce proprio l’atteggiamento ambiguo del suo autore: la spogliazione di ogni dato culturale del politeismo a favore dell’ossessiva brutalità del monoteismo. Ma a determinare il ritmo è la terra con le sue vibrazioni (vale a dire il ritmo con cui la terra chiama il suo abitante, segue il suo abitante). E non è, il vero fallimento di quest’opera innaturale, la rappresentazione di una preistoria tribale attraverso l’innaturale pulsare della moderna epoca delle macchine, come ciò che non poggia su alcuna terra, chiedo io? Il fatto è che, quando si parla di ciò che è slavo, bisogna partire dal principio “Vita indegna di vivere”, che è ciò che permette di mettere tutto a suo posto (forme culturali e forme biologiche), che è ciò che questa brutta musica pone a noi come interrogativo da risolvere.