Antonio Iovane, Il carnefice, Mondadori

Fatto a noi forse solo torna ora dire che Erich Priebke falso fu tutto simbolo uno, tombolo che, a modo di vampiro, attirato, ha, dico io, Erich Priebke, noi non sappiamo cosa sia il meticcio italiano – il meticcio italiano? il meticcio italiano porco e tanto sporco: noi che men che meno Nemo sappiamo cosa sia il meticcio italiano; “meticcio italiano” è sintagma che ci può osservare o anche no – da parte una e altra –, fautori e nemici, a falsa insegna, appunto, “falso simbolo”, cioè tutto quanto senso che falsità di “Erich Priebke quale falso simbolo”, è descrizione che vien su creata da epoca a cui non viene delegato privilegio di detenere più che mai il simbolo, ma che vuole creare stracci & stralci, simboli, stretti da parte una et altra, in quanto simbolo che le conviene creare, dico stracci & strappi & stralci su tralicci – e in questo caso il simbolo di nazismo, come simbolo di ciò che le conviene, punto creare, per cui Priebke era allora simbolo passibile & in tutto perfetto portatile, per quanto mai palesemente posticcio, perché inventato? l’incontro con il nazismo è quello che non avviene tramite la caccia al nazista Erich Priebke perché l’imprigionamento di Erich Priebke porta, come giustamente AI stesso richiama, all’intervista con il vampiro alla fine, battaglia perduta, intervista non concessa, a differenza dell’intervista concessa dal vampiro, ma questo per gli italiani è tutt’altro che ostacolo, simbolo del nazismo, non essendo mai possibile collegamento tra la grigia personcina di Erico Priebke a Bariloche beccato braccato e imbracciato verso su maledetta Italia il nazismo in quanto ideologia di foco e sangue, ma solo collegamento uno con epoca di vuoto & voto, che la maledetta Italia e gli italiani di merda, sua carogna infilata in quel posticiattolo perfettamente incarnata con tutti suoi ebrei capitanati, in cotanta sporca per caso porca occasione di un viaggio allucinante, dal ringhieggiante Riccardo de li Pacifici, porco italiano pastasciuttaro, orangutan pallido meticcio italiano che ringhia & scotesi, italo scatenato, come forchettata de li umani da Pierre de Boulle narrati & schiaffati in ristretta gabbia gabbietta a schiattare, non c’era niuna battaglia, a reclamare verità sovra falso straccio & simbolo, questo perché l’epoca che non ha simbolo è l’epoca del vuoto (ma l’italiano di merda è ciò che vince sempre nel vuoto) – per cui il libro di Antonio Iovane sona allora sì simbolo di come si possa legittimamente compilare romanzo sovra cotanta spirale di vuoto voto vacuo fatto sfatto sfratto sfruttato pure, in occupazione di tempo, giacché solo l’epoca de lo vuoto ha clamato, infatti, libro compilato, puntualmente, (cioè a partire da punto 1, spunto voto vuoto fatto or or di placca tanto nova) allora dall’autore Antonio Iovane, perché l’epoca del vuoto è l’epoca che non possiede più simbolo, perché se simbolo è ciò che non è mai ciò che viene dominato, ma ciò che domina li umani esseri tutti quanti in batteria, ma appunto proprio questo è ciò che deve essere riconosciuto, sembra caso di asserire, nonostante Jung & Lévi Claude di Strauss, stesi a nova definizione di loco tanto passivo di soggetto quanto uno, nel mondo momento in cui viene riconosciuto dominio tale e tale, instaurando così pericolo di dominio di simbolo mille e mille, che è ciò che vediamo essere stato presente nel nazismo, mentre ciò che vediamo nel romanzo Il carnefice di Antonio Iovane è ciò che sembra avere autorizzato a definire Erich Priebke attraverso il solo sintagma “il carnefice” da parte di AI, in quanto autore in tutta estensione di romanzo suo più che men che prolisso, (per ben sei volte nei titoli di capitoli porchi suoi, leggiamo: “Il carnefice a Roma / Il carnefice spara / Il carnefice in Argentina / Il carnefice in Italia / Il carnefice a processo / Il carnefice muore”) posso dire, senza mai presentare giustificazione per tal trito & triste sintagma in piazza tengo tango a dire, puro sintagma intensivo, per quanto tale triste & abusato epiteto non sia mai comparso nella definizione del personaggio in quel là dato romanzo – infatti Antonio Iovane non presenta mai Erich Priebke quale personaggio di romanzo, cosa che comunque sarebbe stata inopportuna, proprio perché AI è ciò con cui non vuole avere a che fare, in quanto presentare Erich Priebke come protagonista di romanzo avrebbe voluto dire smascherare il vuoto su cui ’sto personaggio del picchio reggesi in pacchia di avversari appena (“io lavaplatos”, ma bisogna pure salvare il sogno delle parole dal romanzo?), che è lo vuoto che regge tutti gli scribacchini/becchini che picchi picchiano a la maledetta & stramaledetta Italia di merda porta a porta (= Dante di merda = Boccaccio di merda = d’Annunzio di merda, cazzo, li avrete sentiti nominare, no?, questi bastardi di italiani?), tale da essere gratificato da questo epiteto, quanto meno all’interno di un genere di romanzo, ma tale tratto a carro tramoggia tra tanti strutti stratti termini è ciò che tenta compilatore AI, che si move nell’epoca senza simboli, bove asinino, a presentare tristo traino trito stretto suo protagonista di malora cotanta triste figuranza che è porca sua (Dio stramaledica l’Italia!), che pon carro tramoggia innanzi a tanti bovi miti tutti quanti che li rimangono (Dio stramaledica l’Italia!), mentre nel romanzo non devono essere personaggi a parlare, ma la lingua a creare i personaggi lungo il procedere de lo romanzo tutto allora intenso (Dio stramaledica l’Italia!); ma come organizza, AI, il suo romanzo-inchiesta?, eludendo zum pa pa possibilità di “antiromanzo” (niente antiromanzo, per l’italiano di merda, semmai romanzo, per lui, en la forma di romanzo di Murakami Haruki), pure utilizzata da Laurent Binet in HHhH, suo romanzo, che vuole dire giustamente tramite polifonia interna a genere di “romanzo”, che porta romanzo quello a farsi falsa polifonia tutta di autentico richiamo paulausterianamente steso a coinvolgere propria sua figura & pure propria famiglia in sporca impresa di maledetta Italia (così AI richiama i suoi nonni durante svolgimento di romanzo tutto suo stracciato), il quarto volume del Romanzo Einaudi contiene saggi due, uno a nome di Richard Maxwell, titolo: “Manoscritti ritrovati, strane storie, metaromanzi”; uno di Alessandro Baricco, dicolo titolo: “Dracula”, che permettono di collegare figura di Erich Priebke, come vista da AI in tratto di suo romanzo-inchiesta, a figura di Dracula conte presente minaccioso nel romanzo Dracula di Bram Stoker e dei Protocolli dei Savi anziani di Sion; perché, secondo Richard Maxwell, il manoscritto non è tanto ritrovato quanto “costruito” a scotto pezzotto dopo pezzotto: Dracula potrebbe dominare la intera razza umana gente, a meno che non si intervenga per eliminarlo, per cui la ricerca scientifica (qui volta a la messa in luce del vampiro sì quale personaggio) diventa strumento privilegiato di igiene sociale; invece Alessandro Baricco collega la figura di Dracula Conte a quella di don Giovanni, per cui Dracula come romanzo è caratterizzato da una strana difformità: Dracula, a cui è intitolato il romanzo, non è il vero protagonista del romanzo, infatti egli è molto poco in scena, e dopo la prima parte, quella relativa a Jonathan Harker, sparisce e fa solo fugaci apparizioni, mentre gli altri personaggi, sono letteralmente ossessionati da lui – un altro testo ha una struttura simile, egli fa presente: Don Giovanni di Mozart e Lorenzo Da Ponte – ma la questione è che è stato visto in Dracula il nemico di razza, che è quello che non può più essere considerato, poi, come dimostrano i casi di questi due tardi e tosti romanzi: Io sono leggenda (1954) di Richard Matheson e Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle (1963), cioè la questione, antecedente a tutti romanzi del mondo moderno, di dare forma al mondo, eliminando ciò che non ha diritto di stare nel mondo e ciò che invece deve essere eliminato dal mondo (eppure qui non si pensava, coscientemente a “dare forma al mondo”, tutt’altro); Dracula e don Giovanni possono essere accostati in base a comune una caratteristica: perché essi occupano un pertugio pesto, quello del desiderio scatenato, che rischia di travolgere tutti coloro che hanno a che fare con loro; una società è così minacciata da una forza terribile (don Giovanni, Dracula); per sconfiggere il nemico, che è il nemico di razza, la società non può usare le sue solite armi, ma deve allearsi con il sovrannaturale; così don Giovanni sarà ucciso da uno spettro, i nemici di Dracula dovranno accettare l’esistenza dei vampiri e usare le armi sovrannaturali per annientarli: la scena si presenta anche più che ambigua: le vittime sono travolte dalla forza oscura, l’accettano, non se ne ritraggono, almeno di primo acchito, è tutto un baratro che si apre e che rischia di travolgere la società razionalmente costituita, perché si ha lo sprofondamento nel dionisiaco, e in Dracula è soprattutto presente l’aspetto della repressione del sesso, tipica dell’epoca vittoriana, le donne rischiano di sprofondare nel buco dal quale colui che occupa lo spazio del buco le chiama, e di trascinare con loro i rispettivi mariti, Dracula è quindi la personificazione dello scatenamento di queste forze, sopprimere Dracula vuole dire impedire la trasformazione delle donne in creature selvagge e primitive, folli per il sesso; ma, tornando al romanzo di AI, che conosce tanto Don Giovanni di Mozart/Da Ponte, quanto Dracula di Bram Stoker, il paradosso è questo: che Erich Priebke non soni mai come simbolo di nazismo, perché il nazismo ha rappresentato il pericolo che Jung ha ricordato nell’archetipo collettivo, mentre gli italiani sono a tutti gli effetti simbolo del meticciato, la cosa più schifosa che esista al mondo, che è che ciò che mai e poi mai è chiamato a stornare, perché (noi siamo ciò che siamo chiamati ad avere a che fare con la strategia di ragno di meticcio italiano, come direbbe Van Helsing – “Dio stramaledica l’Italia!”, dico, chiamando, qui, non il dio höldeliniano, indicato là giustamente come il dio del nemico, ma il dio della razza bianca) dubbio a voi viene che questo romanzo sballo di gruppo gestito è da Simon Wiesenthal Center pure? (Dio stramaledica l’Italia!) – “Se fai come Simone, non puoi certo sbagliar” – tempi sono ormai così messi che, o trionfa la giustizia proletaria o trionfa giustizia come solo Klossowski ha saputo indovinare definendo Sade colui che ha visto nell’ateismo realizzato la fine dell’epoca dell’umanesimo, che è quello che il finocchietto italiano e comunista Pasolini mai ha potuto comprendere di Sade in lettura sua di giornate 120 su pellicola – ma è un peccato che il finocchietto italiano e comunista Pasolini non abbia stiracchiato fuori un romanzetto da propria sua versione su pellicola di Salò stertoroso, così come ha tirato fuori un romanzetto da sua pellicola stertorosa Teorema, perché sarebbe venuto fuori un romanzetto forse importante, così come io penso che Teorema sia un romanzetto importante nel panorama della letteratura del disgustoso meticcio italiano, ma con ben altri finocchietti, il finocchietto Pasolini ha avuto a che fare – quando, leggendo un testo del finocchietto italiano e comunista Pasolini, si viene irretiti in quella strana considerazione sull’agire del proletariato, cui il finocchietto italiano e comunista Pasolini subdolamente voleva condurre a sesso duro, a cui non avevamo mai ancora pensato, per cui i concupiti uccelli proletari, che la giustizia proletaria avrebbe dovuto fare fucilare come proprietà privata oppure stabilire in quanto bene collettivo, da quel finocchietto italiano e comunista fatti fotografare in impeccabile targa steampunk vaporante, bisogna sempre allora sempre chiedersi: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano, in Europa?”, per poi subito rispondere: vuole italianizzare, vuole meticizzare l’Europa, così AI è il folle per trovare la giustificazione per eliminare di brutto vecchio Erich Priebke, per cui non è possibile carpire il romanzo inchiesta Il carnefice di AI se non si ha presente il romanzo Dracula di Bram Stoker, e così Resistenza è il vuoto che marca voto che tanto lega il disgustoso meticcio italiano (= monstruo, cazzo, lurido schifoso bastardo meticcio cretino italiano di merda che in tutto sona lurida bava d’Italia, che balla e sballa, che mai deve avere terra, perché mai ha avuto zolla, terra e sangue), che non ha ragione manco una, dico appena una, di esistere, con sue teorie di scimmie boulleane, mai booleane – questo per niente; per cui questa può essere pure versione breve di recensione lunga di istesso ben uno romanzo, quello appunto di AI, che potrebbe ugualmente tanto essere stesa in intensa forma quanto estesa in distesa forma, ma che dovrebbe allora comprendere pur ben 335 frasi (Dio stramaledica l’Italia!), separate da punto uno, una per ogni carcassa di maledetta carcassa di meticcio italiano bastardo separata appunto da sparo uno paro paro (pum!, via un italiano; pum!, via un altro italiano; pum!, via un altro italiano cacciato sopra quell’altro), Dio stramaledica l’Italia!, e pure versione mediana di 335 frasi tutti uguali, una per ogni bastardo di italiano in quelle Fosse cave, ma devo dire, questo perché gli italiani non mi sono mai piaciuti per niente (cazzo! – Dio stramaledica l’Italia!), anzi, a dirla tutta, devo dire che, tutti gli italiani, mi hanno sempre fatto schifo, tanto assai e sono ben contento di questa lontana & pur remota occasione da me nel tempo che ha permesso, in tutta legalità, di farne fuori ben trecentotrentacinque – dico e godo 335 italiani di merda, sempre troppo pochi, trecentotrentacinque italiani di merda ma sempre meglio di niente (in fondo e frodo, che è, che definiamo romanzo, se noi siamo ciò che rimane, 11 picciol cose da dire e poi ridire?) – così questo post è scritto e detto in segno di aspro disprezzo verso disgustoso meticcio italiano di merda, quanto mi fanno schifo gli italiani, e le italiane pure, col loro Dante di merda, così gli antifascisti in Scarpetta conclamati, che han sì difeso Priebke Erico (Erich), in sui ultimi giorni, partivano dal principio che “il nazismo è ormai più che men che niente”, contrariamente invece a quello che invece deve essere considerato, cioè lasciato cadere il “pericolo” che è sempre presente nel richiamo al nazismo, che è quello che invece ha indicato Jung, nonostante il giudizio negativo di Miguel Serrano, che è ciò che deve ritornare – poi l’intervista col nazista, che chiama la bolsa falsa intervista con nosferatu da parte di Dame Anne Rice, vanhelsingianamente stiracchiata in parte, contro il quale è giusto ciò che allora stato è compilato in rapida fretta tutta, affinché mai si dimentichi il disprezzo, ciò che ha smesso insieme meticci italiani + qualche ebreo di fretta pure piatta con patta fatta mano morta matta, cioè la lista lesta – ma il guaio è che le carcasse degli italiani possono sempre chiamate esser posson come “zombie” a comparire, a Lestat empire voto e i meticci italiani de le Fosse Ardeatine sono sempre solo italiani di merda & trecentotrentacinque italiani di merda, zingari africani, scarafaggi africani, italiani di merda sono semper pronti a balzare freschi & frischi da fiaschi Klein chianti frizzanti da Fosse Lambrusco Ardeatine sì quale patatine fish & chips fritte da bottiglie Klein di un manico dispiegato, malpagate, ad anfora su da Fosse Ardeatine di merda per partecipare a gran ballo di gruppo di negro bianco sbiancato Michael Jackson sonato da gran lovecraftiano falso magro John Landis di sogno in filmato suo di negro tutto blek all horror macigno balocco in chiave haka, sempre in lutto, uno a volta che a italiano di merda surge in la mente su di porca sua di italiano (cazzo di italiano di merda, mille volte, ti dico io di qui quo qua, italiano di merda, al lazzo, cazzo t’allaccio: 335 italiani di merda) di dire che stata è compilata completa & completata, cosa mai mai? – cosa cosa mai mai, mi domandi?, di allora: te lo vomito dritto addosso su quella tua brutta testa di italiano di merda, italiano di merda, nient’altro che nova lista

 

 

Antonio Iovane, Il carnefice. Storia di Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, Mondadori, Milano 2024

Egils saga Skallagrímssonar, Íslenzk fornrit 2, Reykjavík 1933

L’ultimo dio

Ragnarök di A.S. Byatt e Il richiamo del corno di Sarban possono essere accostati in base al tema del ritorno del mito, rappresentato, in tutti e due i testi, dal richiamo al tema folklorico della Caccia Selvaggia. In entrambi i testi il protagonista, o il personaggio a lui più vicino, vivono una esperienza che li porta a essere sfiorati dalla Caccia Selvaggia, e a rischiare di essere, secondo modi diversi, inglobati nel corteo della Caccia Selvaggia (nel Richiamo l’inglobamento viene evidenziato dalle diverse nazionalità presenti nella foresta dove scorre la Caccia; in Ragnarök l’inglobamento viene evidenziato dalla comunanza di sorte con colui che è stato portato a combattere nell’aria). Essere sfiorati dal mito è sempre una esperienza avvertita come pericolo. Quando il mito è finito – in entrambi i testi la fine del mito è segnata dalla sconfitta della Germania nazista –, la nuova vita viene avvertita come stato di profonda depressione. Cioè come depressione indotta dalla scomparsa del mito dal mondo, per cui la vita compare come un grande vuoto che accerchia tutto intorno chi si è trovato nello stato di colui che si identifica come colui che è soltanto sopravvissuto. Tolkien ha suggerito come la sconfitta del nazismo avrebbe potuto significare il rutto della brutta Europa che stava emergendo da tutte le parti contro tutti gli europei rimasti. Tolkien partiva dal mito, e aveva accusato la Germania nazista di proporre una lettura inglobante del mito germanico ad essa favorevole. Ora possiamo dire che quel balbettio, allora appena consegnato in quella lettera di Tolkien, ha realmente segnalato la brutta Europa che si stava preparando, che è ciò che gli Europei si trovano adesso intorno da tutte le loro parti. Che è ciò che, intorno a loro, gli Europei sono chiamati a dovere chiamare Europa, ma che è solo una cosa estranea che gli Europei stentano a scacciare via – in quanto cosa del tutto estranea agli Europei e che, per gli Europei, suona solo come accerchiamento. Questo perché l’Europa non è più la terra degli Europei. Dire adesso “Europa” equivale a segnalare dove si trova il massimo pericolo. Infatti l’Europa rischia di non essere più la terra della razza bianca d’Europa. Che è ciò che rappresenta il massimo pericolo per la razza bianca. La razza bianca d’Europa è ciò che ha determinato l’Europa, per cui è tanto più giusto dire adesso: l’Europa alla razza bianca d’Europa!
Eliminare ciò che richiama il nuovo concetto di “essere umano”, è ciò che comporterà la nuova epoca. Il vecchio concetto di essere umano, di cui noi non possiamo fare a meno di parlare, è qualcosa che viene da una lontana filosofia. Pervenire a una nuova definizione di “essere umano”, non è solo ciò che porterà a un nuovo inizio della filosofia, ma anche ciò che deve condurre alla pratica degli “abbattimenti mirati”. Lovecraft ha segnato questa epoca come il peso dei sogni che alcuni si trovano a doversi portare addosso. Ma per questo ci vogliono sempre più filosofi scellerati (secondo la felice definizione da Klossowski utilizzata nei confronti di Sade).
Il testo di Borges dal titolo Ragnarök (incluso nella raccolta L’artefice), per quanto non sia un racconto, bensì il resoconto di un sogno, è ciò che permette di collegare i due testi: il primo per il titolo, il secondo per il richiamo al tema del sogno. Il testo di Borges potrebbe diventare il racconto che si è andato a pescare alla fine del mondo, in una delle tante spazzature del mondo. Infatti solo così il testo di Borges può essere richiamato: in Europa suona il richiamo del mito; alla fine del mondo, in una delle spazzatura d’Europa, si presenta il ritorno di una accozzaglia di dei, provenienti da Roma e dall’Egitto, che porta al loro – legittimo – “linciaggio”.
L’Europa non è ancora pronta per il politeismo – questo è ciò che il resoconto di Borges rende evidente attraverso il richiamo alla degenerazione degli dei prodotta dalla persecuzione condotta insieme dalle religioni della razza semita (“la Luna dell’Islam” e “la Croce di Roma” di cui parla il testo). Per meglio dire, a partire dal testo di Borges è evidente che l’Europa non è ancora pronta per il ritorno degli dei indoeuropei. Cioè degli dei della razza bianca. Questo perché l’Europa non è ancora pronta per la razza bianca d’Europa. Infatti nel testo di Borges tornano tutti gli dei, dei romani e dei egiziani. Indifferentemente dalla razza. Infatti il racconto di Borges non è ambientato in Europa: il ritorno di quella accozzaglia di dei è qualcosa che viene visto subito come qualcosa che puzza di malavita. Gli dei, nella terra alla fine del mondo, sono diventati perfetti malavitosi di quartieri di metropoli alla fine del mondo. Il loro andare per il mondo li ha soltanto impoveriti e stretti insieme nel cerchio della malavita alla fine del mondo.
Contro Faye, bisogna sempre pregare Dio affinché ci aiuti a portare a noi l’ultimo dio di Heidegger. Infatti dice Faye: «Quanto al contenuto di fondo, la mitologia nebulosa e più che torbida dei Beiträge non incita ad augurarsi che l’umanità conosca mai l’avvento di questo “ultimo dio”, tanto più che il titolo stesso della sezione, Die Zukünftigen, non può non ricordarci “Die Kommenden”, cioè il titolo della rivista del Bund degli Artamanen da cui è emerso Himmler, e alla quale Ernst Jünger fornì in particolare numerosi articoli» (p. 392), che è proprio l’insieme nebuloso che si chiede. L’incontro con il mito deve essere un pericolo. Se non c’è pericolo, non c’è incontro col mito. Perché non c’è pensiero – e pensiero è pericolo. Il testo di Borges rappresenta il falso ritorno degli dei, proprio perché non presenta l’insistenza di questo pericolo. È un pericolo che viene “fatto fuori” con il richiamo a una scena da film (le pistole estratte). C’è un regolamento di conti a livello di malavitosi, come è giusto che sia in uno stato spazzatura, dove la maggior parte di quelli che vivono lì sono italiani.

E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012

Nuova Europa

Ci si taglia quando il coltello non taglia.
I filosofi di Hitler di Yvonne Sherratt (2013, Yale University Press;  2014, Bollati Boringhieri) è un libro che dimostra uno strano taglio. Il titolo lo esprime: non “nazionalsocialismo e filosofia”, ma “Hitler e i filosofi”. Persone e non questioni.
Puntare alla persona è attualmente il modo più semplice per fare a meno di parlare della terra. La terra diventa così solo terra dove andare, palcoscenico per personaggi messi a sfilare in base a una epicizzazione che viene dall’alto.
Ciò che della filosofia viene detto nel libro, proponendosi come libro che vuole trattare di filosofia, si riduce a una serena serie di tagli biografici, che suonano con la taglia ridotta di molti piccoli aneddoti. Perché questa preponderanza del dato biografico sul pensiero, proprio quando si dovrebbe parlare, stando al titolo, solo di filosofi? È come se si evocassero ombre di filosofi per nascondere ciò che nei filosofi è stato il dato più importante: il pensiero. Perché dunque questo taglio?
Eppure ciò che qui viene tagliato è qualcosa di diverso: il rapporto tra terra e filosofo.
Filosofia è trovarsi prigionieri di una domanda o di una frase che non suona come domanda, ma che non implica l’andare per la terra.
Il libro introduce questa sfilata tramite una lista di persone del dramma che può richiamare il prologo della degenerata Lulu.
Come nella Lulu le trasformazioni e gli omicidi avvengono all’improvviso. Solo scheletri che vengono di colpo su dalla terra. Così si profila la figura di Jack lo squartatore, che chiude orizzontalmente il dramma; ma si profila la figura del domatore – che, aprendo il dramma, chiama a sfilare i personaggi.
È un peccato che l’edizione italiana del libro non riproduca le quattordici illustrazioni dell’originale, subito dopo la lista delle persone del dramma. Un “ostinato” che può richiamare quello che fornisce l’ingresso alla Filmmusik della Lulu.  Notevole l’immagine di Adorno colto quasi di sorpresa di schiena davanti ai suoi vecchi mobili. Mobili passati dal vecchio al nuovo mondo.
Si tratta forse di un libro che potrebbe piacere al vecchio Umberto Eco, l’italo sporcaccione della letteratura d’avanzo?
Peter Kolosimo è il paradiso perduto dei Wu Ming, così come il romanzo sporcizia praticato da Umberto Eco e dai Wu Ming è, per l’uno e per gli altri, il paradiso perduto della letteratura. Ma la letteratura sporcizia chiama sempre alla resa dei conti con la sporcizia razziale.
Ma questo rimanda a una “letteratura” cresciuta sull’ipotesi del dopo-bomba. Letteratura di sporcizia, ma di una sporcizia lasciata dalla bomba. Quindi di una letteratura che si riconosce come “ricostruzione”.
Un libro irritante, appunto, in quanto libro che parla di filosofi senza mai porsi la spina della filosofia. Ma alla fine un libro che, tolta la spina, lascia una domanda d’antico taglio.
Quindi un libro che attende al varco il proprio lettore. Il varco che attende il lettore di un libro è sempre ciò che lo attende alla fine della lettura.
“Perché nella Germania dell’immediato secondo dopoguerra i sistemi teorici di Heidegger e di Carl Schmitt (cioè di alcuni dei filosofi favorevoli al nazionalsocialismo) hanno avuto più ascolto dei sistemi di Adorno, Kurt Huber, Benjamin (cioè di alcuni dei filosofi che hanno segnato la resistenza al nazionalsocialismo)?”
È questa la domanda che ci riguarda in quanto lettori. La storia insegue. Ma in quanto nella posizione di inseguiti, ci si può chiedere: “la storia di chi?”
Lunghi sono i tempi e lunghi sono ancora di più i discorsi.
Salti all’indietro, ritaglia la filosofia della Resistenza. Vive solo di questo. Quanta malinconia vi cade, appena chiara come neve. Tanto complicata quanto vecchiotta, un poco simile alla musica di Mahler, questa filosofia ha un poco il taglio sottile dell’arabesco di profumi, che incanta e attira – ma sempre meno convince.
Prima di tutto risveglia la mummia dell’umanesimo. Ma una diversa selezione del pensiero chiama a una selezione razziale per un pensiero diverso. Nietzsche insisteva sulla necessità di una casta di schiavi come elemento imprescindibile alla costituzione di qualunque civiltà. Solo una smorfia basta a Losurdo per fare a meno di considerare questa parte del pensiero di Nietzsche.
Ma la selezione che delinea il meticciato trascorre sempre lì.
Il nazionalsocialismo ha reso possibile un taglio nel nodo di pensare tradizionale. Un risultato del nazionalsocialismo è stato l’impulso alla lotta tra civiltà germanica e civiltà latina. Il tema della fine dell’epoca della metafisica di Heidegger vi si allinea così in modo naturale. Va a Heinrich Himmler il merito di aver affrontato questo tema nel progetto dell’Ahnenerbe. Ma è un tema che taglia da lontano. Già Fichte lo aveva configurato nei Discorsi alla nazione tedesca. Esso è contemporaneo alle prime formulazioni di quella scienza che poi sarà nota come “indoeuropeistica”. La comparsa dell’indoeuropeistica ha chiamato a rendere conto della domanda: “Che cosa fare dello straniero che ha imparato a mescolarsi così bene tra noi?”. Lo straniero che aveva imparato a mescolarsi così bene tra noi, all’epoca delle prime formulazioni dell’indoeuropeistica, era solo l’ebreo. Ma prima ancora, lo straniero che aveva imparato a mescolarsi in Europa era il portatore del cristianesimo. È tramite l’indoeuropeistica che l’Europa scopre lo straniero sul proprio territorio e, sempre tramite l’indoeuropeistica, l’Europa può identificarlo come straniero di razza semita. Identificarlo sempre come razza semita. Ma parlare di razza è qualcosa che va ben oltre la ricerca della verità, perché questo nuovo parlare non implica solo il richiamo alla verità. Questo parlare chiama prima di tutto il disprezzo come taglio di giudizio. La ricerca del giusto disprezzo viene prima della ricerca della verità. È una ricerca che impegna nel profondo. Posto che  ciò che si cerca non sia la verità, ma il disprezzo.
Qual è allora la funzione della filosofia? La filosofia è qualcosa che può suonare quindi come scienza pilota. In quanto scienza pilota, la filosofia ha il compito di pensare il concetto di essere umano. Ma il concetto di essere umano, da noi ricevuto in eredità da una vecchia filosofia, è un vecchio concetto pilotato da una vecchia filosofia, che è ormai tempo di mettere a tacere.
Faye mostra tutta la difficoltà nel riconoscere ciò che ha il tipo di un nuovo taglio di pensiero.
Che è quello che, con la sua semplicità, nemmeno fa I filosofi di Hitler di Yvonne Sharrett. Il nazionalsocialismo è quanto la modernità vuole tagliare da sé. Quello con cui non vuole più avere niente a che fare. Ma forme di questo pensiero, stagliandosi come la filosofia di Heidegger, continuano a distrarre con l’insistenza di fuochi fatui. E si stagliano su un orizzonte da cui incutono timore – come nuvole in un cielo che, colto come ospiti di passaggio, ci si ostina a riconoscere straniero. Come la filosofia di Nietzsche. Questo perché riguardano ciò verso cui l’uomo è destinato, cioè verso il nuovo modo di pensare – nel quale però l’uomo si sente estraneo. Cioè tagliato fuori. Ma l’Europa ha rinunciato alla determinazione della propria figura quando, tagliandolo da sé, ha rinunciato al proprio cuore. Antisemitismo: cuore d’Europa.
Quello che attrae in Heidegger è la svolta verso il nuovo inizio. Ma questo “nuovo” non viene per noi da qualcosa imprecisato.
Di spalle Adorno può solo intagliare pensieri come mobiletti dentro il vecchiume della filosofia, quando questo vecchiume è proprio quello con cui è venuto il tempo di disfare i conti. Cioè di disfarsene. La terra non è mai terra dove andare. Ma avere terra dove andare è ciò che ha caratterizzato i filosofi della Resistenza, che, trovando davanti a sé solo terra dove andare, ha permesso loro di racimolare stracci di pensiero. Questo perché non c’è terra dove andare, se non c’è Terra del Sacro. Perché questo è ciò che costituisce il taglio.

Nuovo inizio

Emmanuel Faye e prima ancora Victor Farias citando Benedetto Croce, accusano Heidegger di avere “prostituito” la filosofia, riducendola, da una questione che riguardava tutti gli esseri umani, a una questione riguardante il solo popolo tedesco in un tempo storico ben delimitato, segnato dal nazismo.
Scrive Victor Farias: «[…] Benedetto Croce fa notare, senza mezzi termini, che, nel suo Discorso del rettorato, “il professor Heidegger non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco.” Egli scrive ancora: “Oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico vero attore, l’umanità (…) E così si appresta, o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia…” In una lettera a Vossler del 9 settembre 1933 Croce scrive: “Ho letto poi per intero la prolusione dello Heidegger, che è una cosa stupida e al tempo stesso servile. Non mi meraviglio del successo che avrà per qualche tempo il suo filosofare: il vuoto e generico ha sempre successo. Ma non genera nulla. Credo anch’io che in politica egli non possa avere alcuna efficacia: ma disonora la filosofia, e questo è un male anche per la politica, almeno futura.”» (Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 114).
La stessa accusa è ribadita da Emmanuel Faye: «Possiamo quindi dedurre da questi testi [i corsi di Heidegger dal 1933 agli anni quaranta] che la questione dell’essere è esplicitamente diventata, nell’insegnamento di Heidegger e a partire dal 1933, una questione völkisch: essa concerne esclusivamente l’essere del popolo tedesco e si pone solo per questo popolo.» (Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012, p. 139).
La questione è posta male e non viene affrontata, in tutte le sue conseguenze. Conseguenze che devono essere affrontate proprio dal punto di vista della filosofia. Ciò che non viene considerato è appunto il carattere di “nuovo inizio” che Heidegger riconosce in quell’evento storico – e di cui il suo pensiero si pone come la controparte filosofica. Quindi ciò che non viene considerato è la necessità di separare nettamente questo nuovo pensiero dal corso precedente che la filosofia da tempo percorreva. Bisogna infatti precisare che anche la filosofia precedente era una filosofia con una impronta razziale, soltanto che tale impronta razziale rimaneva nascosta, o almeno non apparente, in quanto non affermata pubblicamente. Questa impronta riguardava la componente greco-giudaico-latina. Se questa componente non si rivelava come tale, ma anzi lasciava il passo a un pensiero che sembrava avvolgere tutta l’umanità, era per una vocazione, per così dire, all’impero universale da sempre presente in quella filosofia, vale a dire da un disconoscimento. Un disconoscimento del pensiero che disconosceva il corpo in quanto manifesto di razza. Questa filosofia poteva sopravvivere solo tramite una concessione di cittadinanza a tutti gli individui dei territori, per così dire, occupati. Di fronte a questa espansione dell’impero del pensiero e di questa concessione indiscriminata del diritto di cittadinanza, il razzismo diventa il crimine ideologico più grave, da perseguire con ogni mezzo. Ogni essere umano doveva riconoscersi in quel pensiero e, se ne era in grado, poteva aggiungere qualcosa alla sua costituzione. È la versione culturale della globalizzazione. Una questione che l’impero romano conosceva bene in tutte le sue forme. Il nazismo, e soprattutto la filosofia di Heidegger, operano nella direzione opposta. Da una componente, celata – greco-giudaico-latina – si passa ad una componente germanica, tutt’altro che celata, anzi apertamente manifesta; questa nuova componente, nuova destinataria della filosofia, non concede cittadinanza a chi non ne fa parte per razza. Ma tende a praticare la separazione. Il pensiero nasce dalla razza. O dalla razza come degenerazione, che non può dire la propria provenienza, o da una razza in quanto risultato di una selezione di razza. Che per questo manifesta la propria origine di razza. È questo il rinnovamento; è il questo il modo di pensare diverso che provoca un diverso modo di intendere la filosofia.

Oggetti biologici

Nella conferenza di Heidegger intitolata Il pericolo il punto centrale è rappresentato dalla frase in cui si ricordano i morti nei campi di concentramento, e anche i morti nella lontana Cina. In entrambi i casi si tratta di morti che suonano in modo smorzato. Per cui si pone più volte la domanda: “muoiono?”. Prima di porre questa domanda, il testo aveva ricordato il pericolo rappresentato da un ordinamento di cose che nella modernità vengono sistemate come cose tutte uguali tra loro, secondo un ordinamento che avanza pretesa di oggettività. Quindi come cose tra le quali non si pone più nessuna distanza. Vale a dire che rinuncia a un ordinamento selettivo. Dopo questa domanda, cioè dopo la domanda relativa alla possibilità di morire, l’attenzione si sposta sulla tecnica.
Si può allora porre la domanda relativa a ciò che fa sì che l’attitudine di presentare le cose come un insieme senza spazio tra loro, di cose tutte uguali tra loro, possa condurre alla domanda riguardante i morti nei campi di concentramento, e poi alla domanda relativa alla questione della tecnica.
Ritorniamo alla frase sui morti nei campi di concentramento. Solo l’essere umano giunto alla costituzione filosofica di un principio di essere umano può morire – dice il testo. Eppure il concetto di “essere umano” è un concetto accettato universalmente. Dove si insinua la differenza? Adesso noi riceviamo la notizia della morte di persone lontane nella conta delle carcasse dei migranti che vengono pescate nei vari mari a sud dall’Europa. Per arrivare ad avere una fine bisogna avere avuto un inizio. Avere una fine richiede avere comunque un inizio. Ma dove? Carcasse di migranti e oggetti biologici è quanto propone la vicinanza offerta dalla modernità. Che è quanto la modernità propone quando propone la vicinanza tra informazione e filosofia. Ma appunto in questo c’è da porre la domanda centrale posta nel punto di mezzo della conferenza: sono morti? La domanda deve aggirare l’ostacolo della vicinanza, che pone sullo stesso piano il puro oggetto biologico e l’essere umano. Se la filosofia non riesce a determinare una definizione precisa di “essere umano”, allora la filosofia è inutile. Ma nel testo di Heidegger abbiamo a che fare con una filosofia che scavalca questa inutilità e che stabilmente pone la differenza.
Questo perché a porre il luogo della domanda è la terra dove la domanda ha il suo reale inizio, cioè l’Europa.
Ma che cosa comporta l’accettazione dell’era della tecnica, su cui la parte finale della conferenza, quella dopo il passaggio sui morti nei campi di concentramento, consiste, ma non insiste?
In una ipotetica terza parte, la tecnica dovrebbe imporsi come tecnica di allevamento e tecnica di selezione. Che è appunto quello che spaventa gli sparuti esegeti di Nietzsche e di Heidegger che si sono avventurati da quelle parti. Losurdo e Faye primi fra tutti.
Così la conferenza di Heidegger richiama su tre questioni: il pericolo riconosciuto attraverso la vicinanza di tutte le cose; la questione della morte, che separa un essere umano da un puro oggetto biologico; la questione della tecnica al servizio della creazione di una nuova casta di schiavi, e della soppressione di quanti, tra gli oggetti biologici, non sono più in grado di funzionare come schiavi.
Il tempo del nazismo è ciò con cui l’Occidente deve essere portato a confrontarsi. Perché in questa sfida è ciò verso cui l’Occidente è portato nel suo nuovo inizio. Questo è appunto ciò che il pensiero dell’Occidente ha rifiutato di fare, ma che appunto la filosofia di Nietzsche e di Heidegger richiama a fare.
Solo il fuoco accompagna il pensiero. Nel fuoco l’uomo è messo di fronte alla responsabilità dei pregiudizi che gli franano addosso.
Perché questo è ciò che è necessario per accettare la sfida fondamentale che l’attende, cioè l’antisemitismo: cuore d’Europa.