L’abbaglio del realismo magico

Si è mai notato come i primi tre racconti di Mondo piccolo. Don Camillo (1948) di Giovannino Guareschi, intitolati rispettivamente Prima storia, Seconda storia, Terza storia, ricordino la tematica del realismo magico? In questi racconti abbiamo la minaccia blasfema che spaventa Dio, la tomba del cane morto che difende la terra, la fidanzata morta che attende il suo fidanzato puntualmente per anni nello stesso luogo. Questi racconti, dice Guareschi, hanno la funzione di presentare l’ambiente dove agiscono don Camillo e Peppone, ma non appena essi arrivano l’incanto si smorza. Il caso di Guareschi è appena un soffio, ma ce n’è abbastanza per riconoscere nel realismo magico “ufficiale” – quello applicato al colonialismo – un gioco truccato. La letteratura postcoloniale è creata dai critici – e da quei critici propinata ai lettori come letteratura caratterizzata da quello stile particolare, ma in realtà non è così. Perché Guareschi non ha continuato quella sua vena narrativa? I racconti di don Camillo e Peppone sono bozzetti simpatici, ma di gran lunga inferiori. Tuttavia il libro finisce con un’altra sorpresa. Gli ultimi tre racconti (La paura, La paura continua, Giallo e rosa) sono legati dalla trama comune. Una persona viene uccisa. Chi ha commesso l’omicidio? All’omicidio ha assistito un bambino, il figlio dell’ucciso. Che ha visto in faccia l’omicida e lo ha riconosciuto. Che ha rivelato in confessione il nome dell’omicida a don Camillo, il quale però è tenuto al segreto della confessione e quindi non lo rivelerà mai. Così due persone sono in pericolo: il bambino; don Camillo. Peppone sa che don Camillo sa chi è l’omicida, ma sa che don Camillo non lo rivelerà mai, come infatti don Camillo gli conferma a voce. Un racconto giallo si interrompe così con la violazione del principio basilare del genere: l’assassino non viene svelato, le persone messe in pericolo dal non svelamento del nome dell’assassino rimangono in pericolo. E l’azione resta sospesa.
Non sarebbe male partire da Guareschi per liquidare il realismo magico. Il Dio semita impaurito dalle minacce di un padre il cui figlio di due anni sta morendo, la tomba di un cane che diventa il protettore della terra su cui è sepolto, il fantasma di una ragazza che attende ogni sera il passaggio del suo fidanzato appoggiata a un palo del telegrafo, sono immagini che vanno ben oltre l’abbozzo di uno sfondo come era visto dagli occhi di un bambino. La tecnica usata qui è la stessa di quella del realismo magico: una terra maledetta, appena sfiorata dalla civiltà; un ambiente dove i morti si uniscono ai vivi, gli dei possono essere raggiunti da pochi personaggi eccezionali – e, se è il caso, messi in pericolo, e alcuni animali diventano spiriti protettori della terra. La Bassa cova l’uovo di Macondo. Il realismo magico è un’aggiunta arbitraria alla letteratura postcoloniale; o, se si vuole, il tema del colonialismo è un’aggiunta arbitraria alla rappresentazione di una terra che possiede certe caratteristiche di base (scetticismo nei confronti del progresso, attaccamento alle origini, diffidenza verso ciò che è straniero). Questa aggiunta arbitraria è una truffa che ha lo scopo di creare un genere letterario autonomo e lanciare un’accusa all’Occidente. Ma meno che mai c’è l’ombra del complotto; chi lo fa, agisce per sé.
Dumézil parlava di due tipi di magia: una alta, tipica delle due funzioni superiori, e una bassa, tipica della terza funzione. Una magia di alto livello, sacerdotale e guerriera e una magia plebea, per lo più contadina. Il realismo magico è un modo di vedere la terra dal basso, nei suoi legami con la gente bassa. Non c’è niente della catena aristocratica che passa per la terra per sorpassarla alla fine che è all’inizio. C’è la casualità di essere in un ambiente tanto magico quanto primitivo.

La battaglia di Arminio

La battaglia di Arminio di Heinrich von Kleist contiene alcuni confronti, certamente non intesi in questa forma dall’autore, ma presenti nel testo, con la civiltà germanica, sui quali vale la pena dirigere una riflessione. Questo perché, quando lo scontro è uno scontro tra civiltà, un testo che richiama l’antica battaglia delle razze non può che richiamare l’insieme di ciò che oppone razza superiore e razze inferiori, qualunque siano le intenzioni dell’autore.
1. Arminio: «Credo che i Tedeschi siano più dotati di talento, ma che gli Italici, sebbene meno dotati, l’abbiano sviluppato meglio nell’epoca presente». Arminio afferma che un’armata germanica in marcia o in sosta suscita il riso in confronto a una di Roma (atto I, scena III). Notare il richiamo a ciò che il testo chiama “l’epoca presente”, identificata come un’epoca di decadenza, nella quale, proprio per questa caratteristica, la civiltà latina può ottenere il massimo del successo. Questo è proprio ciò che chiama il teatro, il fattore dello spettatore invisibile, ugualmente richiamato dalla pubblicità, cioè l’arte di sfottere, tipica della civiltà latino-semita. Ma c’è un altro fattore che il testo suggerisce: l’arte della guerra, il tipo di guerra che in quel momento si combatte. Armata romana e armata germanica richiamano infatti due tipi diversi di guerra.
2. Teutoburgo. Accampamento di Arminio. Arminio e alcuni Anziani osservano le fiamme che si alzano dai villaggi attraversati dalle armate di Roma. Così avanza nel mondo la civiltà di Roma. (Atto III, scena I). Roma è barbarie.
3. Ventidio ha insegnato a Tusnelda l’arte di abbigliarsi e acconciarsi i capelli con lo sfarzo di una Romana. Arminio le rivela che i Romani hanno l’abitudine di tagliare i capelli biondi delle donne tedesche per farne parrucche per le loro donne: «Neri sono [i capelli delle Romane], neri e grassi, come quelli delle streghe. Non belli, asciutti, d’oro, come i tuoi.» (Atto III, scena III). Bellissimo episodio che richiama lo scontro in corso alla sua vera natura, cioè allo scontro razziale: la razza nordica autenticamente indoeuropea e il meticciato romano, che niente ha di europeo (meno che mai di indoeuropeo).
4. Sfila l’esercito di Roma. Varo chiede a Ventidio assicurazioni su Arminio. Egli sa che, non appena marcerà contro Marbod, la sua posizione sarà molto delicata: poiché avrà di fronte l’esercito di Marbod e alle spalle quello di Arminio. Ventidio lo rassicura, ma ogni sua frase è ambigua. Questo dialogo è un capolavoro: c’è tutta la falsità dei Latini, il loro amore per gli intrighi, la loro assoluta diffidenza, il loro essere biforcuto nel mondo. Ventidio ha la lingua biforcuta perché la lingua del suo popolo è una lingua biforcuta. Ventidio prende per spirito profetico quello che è malevolenza degli uni verso gli altri. Caratteristica tipica della sua gente: la razza latina. Tusnelda chiede a Settimio spiegazioni sulle insegne che vede portate dall’esercito romano. Viene così a sapere che l’Aquila ha il compito di riunire i soldati in battaglia. Tusnelda: «Da noi usa il canto corale dei bardi» (p. 629): storia come vedere, storia come dire. (Atto III, scena VI.)
5. Entra una mandragora [così la traduzione]. Varo la interroga: da dove vengo? Risposta: dal nulla. Dove mi dirigo? Risposta: verso il nulla. Dove sono? Risposta: a due passi dalla tomba. Poi scompare. Parlando della mandragora, Varo accosta la Sibilla romana alla maga di Endor. (Atto V, scena IV.) Questo personaggio è riconducibile alla völva dell’Edda, che qui racconta il futuro della civiltà semito-latina visto nella sua opposizione alla civiltà germanica. Così ci sarà infine una battaglia di Arminio dopo la quale la civiltà latina verrà consegnata al nulla.
6. Varo parla di due corvi: uno che pareva annunciargli la vittoria, l’altro la tomba. I due corvi possono essere accostati ai due di Óðinn, ma senza una reale funzione. Un popolo di bastardi è un popolo raccoglitore di mitologie, leggende e racconti; tutto un materiale del quale non sa che fare. (Atto V, scena VII.)
7. Varo: «Arminio, Arminio, è dunque possibile che uno abbia capelli biondi ed occhi azzurri e che sia falso come un cartaginese?» (atto V, scena IX). Varo espone apertamente quella ideologia che egli, prima di tutti, dovrebbe non accettare.
8. I Capi temono che Arminio marci contro Marbod. Arminio: «per il tonante bronzeo carro di Wodan»: di tonante c’è qui, prima di tutto, l’errore. Non era Óðinn il dio con il carro, ma Þórr. (Atto V, scena XI.)
9. Arminio: «E poi muoveremo audacemente… verso Roma. Noi, fratelli, noi o i nostri nipoti! Sono infatti fermamente convinto che l’intero mondo non potrà ottenere pace da questa genía di assassini fin quando non sarà totalmente distrutto il loro nido di predatori e una bandiera nera non sventolerà sopra un desolato cumulo di macerie.» (atto V, scena ultima). È qui anticipata la fine della civiltà semito-latina, riassunta nella battaglia finale contro la grande città. Si ripresenta lo scontro dapprima negato: l’odio verso la grande città e lo smascheramento della civiltà latino-semita.

Teutoburgo vi compare come una città con strade nelle quali si può camminare e un parco chiuso da un cancello, una specie di giardino all’inglese, dove la natura sembra seguire indisturbata il suo corso e dove Tusnelda fa rinchiudere Ventidio in modo da farlo sbranare dall’orsa che, poco prima, vi aveva fatto rinchiudere. Una delle caratteristiche fondamentali dello scontro tra civiltà romana e civiltà germanica, la grande città semito-latina e l’assenza di città nel mondo germanico, è del tutto ignorato.
La battaglia di Arminio di Heinrich von Kleist è uno strano testo. Tutto, in questo strano testo, viene messo in scena come se la battaglia di Arminio fosse già avvenuta. Quello che il testo presenta è infatti la nuova battaglia di Arminio, cioè quella battaglia che, dopo la battaglia di Arminio storica, bisogna combattere per scacciare l’influsso della civiltà latino-semita. La battaglia di Arminio “storica” ha segnato la vittoria dei popoli tedeschi sull’esercito di Roma e la fine dell’aggressione della civiltà romana nei confronti del nord, Ma il risultato è stato che la Germania, così come tutto il nord, ha finito per accettare, senza accorgersene, sempre più la civiltà latino-semita, arrivando a pensare, alla fine, come quella civiltà e organizzando il proprio modo di vivere e di abitare la terra secondo i principi di quella lontana civiltà.
Ma mai troppo lontana!
«I dag kjenner mange mennesker i Norden gresk og romersk mytologi bedre enn den norrøne» (G. Steinsland, Eros og død i norrøne myter, Universitesforlaget AS, Oslo 1997, p. 18).
Il fatto della battaglia personale, che chiunque deve combattere in nome della battaglia di Arminio, mette in evidenza un’altra questione.
Atto III, scena II: entrano in successione tre Capitani tedeschi. Riferiscono le atrocità commesse dai Romani lungo il loro percorso: distruzione delle residenze di Arminio, uccisione di una puerpera col suo bambino, distruzione della quercia sacra a Wodan. Sono i simboli delle tre funzioni indoeuropee secondo Dumézil, riportate nell’ordine: 2, 3, 1.
Arminio accoglie le notizie con gioia e le fa diffondere, in modo da aumentare l’odio verso i Romani. Infine, ordina a Eginardo che dei Tedeschi travestiti da Romani seguano di nascosto le truppe di Varo, saccheggiando e incendiando.
In Teoria del partigiano Carl Schmitt (Adelphi, Milano 2005) definisce La battaglia di Arminio di Kleist «il più grande poema partigiano di tutti i tempi» (p. 17).
Il partigiano, continua Schmitt, costringe il suo avversario a entrare in uno spazio diverso. Notare il richiamo al teatro nel testo di Schmitt: «Sbucando dalle quinte, il partigiano disturba il dramma convenzionale che si svolge, conforme alle regole, sul palcoscenico» (p. 98). Il partigiano è, a questo punto, una figura da melodramma, da operetta, da dramma di cappa e spada.
Ma il partigiano di ieri è il terrorista di oggi. Il partigiano non è più una figura difensiva e da operetta, ma diventa «uno strumento manipolato da un’aggressività che mira alla rivoluzione mondiale» (p. 104).

Rimane il punto di partenza: l’errore fondamentale di Kleist: aver rappresentato Teutoburgo come un città con strade dove i capi, in incognito, camminano di notte per studiare il comportamento della popolazione. Un tema che sembra richiamare la grande città di Baghdad dei racconti fioriti intorno al califfo Hārūn al-Rashīd nelle Mille e una notte.
È una sovrapposizione di scenografie che il testo teatrale ha imparato a rappresentare. I guerrieri germanici si muovono, nella loro Germania violata, attraverso una scenografia che rappresenta la Germania violata come una grande città semita. Ma essi combattono concretamente per liberare la Germania,
È appunto lo sdoppiamento tipico al quale il teatro moderno, in quanto messa in scena, non può più fare a meno. Soprattutto il teatro d’opera unirà una interpretazione musicale filologica a una messa in scena slegata da qualsiasi temporalità (scenografia costituita da blocchi in movimenti, costumi contemporanei, ecc.). Da qui è da rivedere il tentativo di Händel di creare oratori profani, in lingua inglese, in risposta all’invadente teatro italiano.

Un bel commento all’articolo “2000 år sedan slaget vid Teutoburgerskogen!” nel sito www.patriot.nu (30 settembre 2009), cominciava con questa semplice frase: «Det är bara en ny Hermann som behövs och lite till.» (http://patriot.nu/artikel.asp?artikelID=1330).

H. von Kleist, La battaglia di Arminio, in H. von Kleist, Opere, I, Guanda, Parma 1980 (trad. di Ervino Pocar).

La terra alleviata

«Il maggior numero possibile di ariani avrebbe dovuto [durante la Germania nazista] incarnare lo spirito iperboreo, facendo crescere il raggio del Cerchio (Lebensraum, Spazio Vitale), in modo da non lasciare nella terra ormai rigenerata – nuovamente terra spiritualizzata del Gral – spazio per l’antirazza giudaica, né per l’animale-uomo, il robot, lo schiavo dell’Atlantide. Questi sarebbero restati, o periti, con la terra materiale del Demiurgo.» (p. 811).
Qui abbiamo il principio della soppressione delle razze inferiori come imposto per natura dalla terra ormai rigenerata, indipendentemente da una volontà esterna.
Serrano ha sempre respinto le accuse di genocidio a carico del nazismo. Nella stessa opera segnalava, poco dopo, come, nei campi di concentramento nazisti, non ci fosse niente di sinistro, ma come servissero, anch’essi, a una trasformazione (p. 812).
Tuttavia, l’ipotesi della rigenerazione della terra conduce a una inabitabilità della terra da parte delle razze inferiori.
Dalla terra rigenerata di Miguel Serrano alla terra alleviata di Dumézil. Sullo sfondo c’è sempre la grande battaglia che rigenera, cambiando anche il modo di pensare.
Ma dalle pagine dei libri, mille parole innocenti sfiorano il mondo con occhi di giganti.

     M. Serrano, Adolf Hitler, l’ultimo Avatara, 2 voll., Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2010.

Roma meticcia

Una nuova teoria della conoscenza dovrà porsi come meta non la ricerca della verità, ma la ricerca del disprezzo. O meglio: dovrà porsi una volta per tutte, e finalmente, la ricerca del senso del vero disprezzo come arma di conoscenza.

Considerando il libro Razza cilena di Nicolás Palacios, Miguel Serrano, in Adolf Hitler, l’ultimo Avatara,1 insiste su un punto fondamentale: in Cile non si può parlare di razza: «parlare nel Cile di razza, lo sappiamo, significa menzionare la corda in casa dell’impiccato.»2. Qualche pagina dopo, insiste: «Io non penso, infatti, che si possa parlare di una “razza cilena”. Vero che esiste, o esistette un marcato “spirito nazionale” presso di noi, influenzato dal paesaggio di questa terra mistica; ma una razza cilena non esiste e non esiterà mai. […] Ciò che c’è qui, o ci fu, è un “meticciato regolare”.».3 Nei suoi pochi secoli di vita, dal punto di vista razziale, il Cile non ha mai avuto scampo: «[…] perché mai ci fu una razza cilena. Ci fu solo un meticciato in decomposizione. Il suo ciclo si è compiuto.».4 Questa considerazione verrà ripresa anche a proposito della situazione del Cile con Allende e con Pinochet: in Cile c’è solo un meticciato. Tutte le vicissitudini del paese nascono da questa situazione: dal meticciato inevitabile del Cile.
Perché in Italia non si è mai avuta una riflessione del genere? Vale a dire: perché non si è mai affrontata la questione della composizione etnica in Italia in un modo così disincantato come ha fatto il grande Miguel Serrano per il suo Cile dei giganti?
A ben guardare, che cosa sono gli Italiani? Meticci, bastardi, degenerati. Non è solo una questione di pelle più facile ad abbronzarsi che in altri gruppi europei (i germanici, i celti, i baltici), o di un colorito leggermente diverso della pelle (che lo separa dai gruppi germanici, celti, baltici), ma è tutta una costituzione del corpo e del volto che lo dice, escludendolo dal gruppo di razza bianca. A fianco delle caratteristiche fisiche del meticcio, gli Italiani hanno anche le caratteristiche “spirituali” del meticcio: sono astuti, intriganti, infidi, arroganti, truffatori, violenti, traditori, poco intelligenti, ignoranti, meschini, rozzi. Perché non lo si è mai notato?
Semplice, perché in Italia non c’è mai stata, e mai può esserci, una ideologia rivolta alla razza. Il razzismo è tendere a un ideale con la consapevolezza di dover andare oltre. Prima che ad ogni altra cosa, oltre se stesso. Applicando il tema del grande disprezzo. La teoria del Superuomo lo insegna.
Julius Evola, in disaccordo con le teorie di Rosenberg, ha creato la teoria della razza del corpo e della razza dello spirito. Voleva così evitare di guardare in faccia gli Italiani? O, semplicemente, lo evitava? A ben guardare, che cosa si vede guardando in faccia gli Italiani, se non meticci, bastardi, degenerati?
Qualcuno, comunque, qualcosa ha notato: “La faccia, le forme corporali dei Cherokee sembrano confondersi completamente con quelle di non poche popolazioni italiane, quali i Calabresi. La fisionomia accentuata degli abitanti dell’Alvernia, soprattutto delle donne, è ben più lontana dal carattere comune delle nazioni europee di quanto non lo sia quella di molte tribù indiane dell’America del Nord”.5
Chi non ricorda la “romanizzazione” perseguita durante l’era fascista in Italia? Ma non c’è qualcosa che dovrebbe fare pensare? Veramente Roma poteva rappresentare un modello? Ancora adesso nessuno pensa di fare i conti con Roma. Quello tra Roma e l’ideologia della destra italiana è uno scintillante idillio a senso unico che il ricordo della “battaglia di Arminio” dovrebbe interrompere una volta per tutte. A Roma si deve l’inquinamento dell’antica civiltà germanica.
Qualunque discussione su Roma deve cominciare da questo punto d’inizio: Roma è stata, e non poteva che essere, la grande nemica di tutto ciò che era germanico. Dall’altro punto di vista, ciò che è germanico non poteva avere un nemico più insidioso e determinato. Del mondo indoeuropeo, Roma rappresenta infatti la frangia a brandelli. Una cosa analoga capiterà con la Grecia, sintomo che nel sud dell’Europa c’è qualcosa che non va. Georges Dumézil dovrà arrendersi di fronte alle difficoltà di far rientrare la civiltà classica nella mitologia comparata indoeuropea. Al massimo, si poteva avere una corrispondenza a livello linguistico. Ma niente di più. È proprio da questo dato di fatto che avrebbe dovuto iniziare un nuovo modo di pensare. Soprattutto da parte dell’ideologia di destra.
Il classicismo eredita da Roma l’ostilità verso il mondo germanico: le due cose non possono convivere. Roma soffoca il mondo germanico. «I dag kjenner mange mennesker i Norden gresk og romersk mytologi bedre enn den norrøne»:6 questo succede per colpa di Roma. Il romanticismo tedesco è stato anche una rivolta contro la supremazia della Grecia e di Roma. Se Roma distrugge il mondo germanico, il mondo germanico deve rivoltarsi contro Roma. Perché in Italia non si appoggia questa rivolta contro Roma?
Ma c’è un momento in cui gli Italiani sembrano guardarsi con attenzione in faccia, e quindi stupirsi, per la prima volta, di quello che vedono: quando uno di loro ha compiuto un crimine particolarmente efferato, oppure una truffa di straordinarie proporzioni; allora, qualunque Italiano che ne abbia visto la fotografia, e conosciuto i casi, dice sempre, in modo stupito, a qualcun altro con cui parla: “Ma lo ha visto in faccia?”
Eppure è la stessa faccia di tutti gli Italiani di sempre. La stessa faccia che parla di una sola cosa: di un meticciato, di un bastardume, di una degenerazione che, da molto tempo, vengono da molto lontano. Quanti volti di politici italiani non sono altro che un naso d’ebreo in un ceffo da zingaro? Ma quale Verfremdungseffekt lo indicherà mai?
Una attenzione sugli Italiani da questo punto di vista la si trova nei Discorsi a tavola di Martin Lutero.7 Ma poi c’è stato silenzio. Per questo motivo quel grande libro di Lutero andrebbe infinitamente apprezzato.
Perché un discorso di questo tipo non è mai stato fatto in Italia?

Lontano è il grande Cile dei giganti dalla piccola e brutta Italia, dove saltella l’Italopiteco. Solo l’Europa dovrà rispondere nel tempo che ha davanti alla domanda che si insinua nell’Europa: “Che cosa fare delle razze inferiori?”

 

1 M. Serrano, Adolf Hitler, l’ultimo Avatara, 2 voll., Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2010.
2 Ivi, p. 574.
3 Ivi, p. 557.
4 Ivi, p. 604.
5 A. de Gobineau, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Rizzoli, Milano 1997, p. 168.
6 G. Steinsland, Eros og død i norrøne myter, Universitetsforlaget, Oslo 1997.
7 M. Lutero, Discorsi a tavola, Giulio Einaudi Editore, Torino 1999.

Oltre la Grecia

Un pensiero nuovo, in grado di abbandonare, finalmente, le odiate sponde del levantino sud d’Europa, è diverse volte sembrato vicino. È accaduto con Nietzsche, poi con Heidegger, e ancora con Dumézil. Ma non è mai stata affrontata la questione fino in fondo: e allora il pensiero, come un animale fin troppo domestico, è tornato a raggomitolarsi nel suo nido di parole del sud dell’Europa.
“Affrontare la questione fino in fondo” vuole qui dire andare oltre un pensiero che vede nella Grecia la sua giusta e inevitabile origine.
Heidegger è importante anche per le possibilità di pensiero che apre oltre la Grecia (come poi Dumézil); ma perché, nel suo pensiero, tutto si chiude sempre intorno alla Grecia (come anche avviene in Dumézil)?
Con l’espressione “possibilità di un pensiero oltre la Grecia” si intende una possibilità riservata al pensiero occidentale tale da poter esercitarsi al di fuori di ciò che è stato il pensiero greco. Ma al di fuori della Grecia, per come l’Europa è stata stabilita prima ancora che si potesse parlare di Europa, c’è la Germania. Intendendo con “Germania” quella parte dell’attuale Europa che Roma ha cercato di sottomettere e che solo con la “battaglia di Arminio” si è svincolata parzialmente da questo dominio. Vale a dire: la civiltà germanica.
Una prima considerazione può essere fatta a proposito della Allocuzione per la cerimonia del solstizio d’estate (24 giugno 1933) di Heidegger.
Che cosa dice Heidegger in questo discorso? «I giorni declinano», e lo ripete tre volte in un testo brevissimo. Dopo il solstizio d’estate le giornate si accorciano. Gli Indoeuropei celebravano i solstizi: quello gioioso d’inverno (gioioso perché, pur nel buio delle giornate, si riconosceva il ritorno della nuova luce), quello malinconico dell’estate (perché nella piena luce si riconosceva il punto massimo raggiunto, oltre il quale c’era solo discesa). Heidegger riconosce un fatto comune al gruppo indoeuropeo. Ma l’epoca del solstizio d’inverno è la notte senza dèi in cui avviene l’annuncio dei nuovi dèi. Che è quello che viene trovato nella poesia di Hölderlin.
Cristiano Grottanelli ha tracciato delle corrispondenze tra il Discorso di Rettorato di Heidegger e la teoria della tripartizione funzionale di Dumézil: «È facile riconoscere nei tre doveri del Rettore Heidegger le tre funzioni nell’ordine inverso: III, II, I, ma anche le due figure jüngeriane del Combattente e del Produttore, più una terza figura qui presentata come dovere-funzione del sapere, che è lo stesso Heidegger in quanto “sapiente” tedesco.»
In tutti e due i casi, Heidegger accetterebbe antiche strutture germaniche (se non indoeuropee), che l’epoca contemporanea aveva ormai diminuito di valore.
Se l’esperienza del Rettorato consistesse proprio in questo: nella messa in pratica, intravista da Heidegger, di poter andare oltre la Grecia? Questa possibilità può concretizzarsi solo attraverso una rinascita della germanicità. Doveva toccare alla germanicità agire nell’epoca contemporanea allo scopo di rinnovarla. La germanicità così stabilita poteva essere ripresentata dal movimento politico di Hitler. Heidegger aderisce alla germanicità (perché vede in essa un qualcosa di autenticamente profondo – oltre la Grecia). La germanicità era un legame tra i vari gruppi che componevano il popolo tedesco: era il passato di questo popolo e ne avrebbe costituito il futuro. Il futuro così determinato sarebbe stato il riconoscimento, da parte del popolo tedesco, del proprio passato inteso come germanicità – oltre la Grecia: in questo Heidegger poteva vedere il nuovo compito della Università tedesca. Da qui il riconoscimento da parte di Heidegger di alcuni elementi fondamentali: la tripartizione indoeuropea; la struttura Führer–Gefolgschaft; la celebrazione del solstizio d’estate.
La struttura Führung/Gefolgschaft indica l’antica struttura germanica del Capo e del suo Seguito. Se il Seguito riteneva il Capo indegno di essere seguito, gli si ribellava contro; la stessa cosa si aveva anche a proposito degli dèi.
Se Heidegger seguisse degli antichi usi germanici? Se il suo interesse per il nazismo fosse stato deciso proprio da questo possibile ritorno di antiche consuetudini? Considerare l’origine contadina di Heidegger. Evola vedeva nel corpo della SS il ritorno di un’antica struttura germanica (in realtà indoeuropea): la banda di guerrieri che si organizza spontaneamente intorno a un Capo.

     C. Grottanelli, Ideologie miti massacri, Sellerio editore, Palermo 1993. Il discorso riguardante Heidegger «erede inconscio del trifunzionalismo indoeuropeo» occupa le pp. 92-5. Il brano citato sopra è alle pp. 93-4.

     Allocuzione per la cerimonia del solstizio d’estate (24 giugno 1933) e Discorso per il Rettorato, in M. Heidegger, Scritti politici (1933-1966), Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 1998.

     L’interesse del giovane Nietzsche per la mitologia e la letteratura degli antichi popoli germanici è adesso contenuta in F. Nietzsche, Scritti giovanili 1856-1864 (Opere di Friedrich Nietzsche, vol. I, tomo I, Adelphi, Milano 1998).