Alice Guerra, “Dieci cose che ho imparato da Jessica Fletcher”

La frase è ciò che chi è chiamato a scrivere compone per indicare come le cose del mondo siano chiamate, in quel dato momento in cui si scrive, a determinare come le cose del mondo stiano insieme: «Voi lo sapete che esiste una teoria secondo la quale alla fine dei conti l’assassina di tutti gli omicidi che Jessica [Fletcher] si trova a risolvere in realtà è proprio lei? Effettivamente, dove va lei muore sempre qualcuno: o è un uccellaccio del malaugurio, oppure forse è proprio lei che uccide tutti e poi imbastisce delle storie per incastrare dei poveri malcapitati.» (p. 153); come a dire: le due possibilità hanno pondo stesso lungo storia (-la) – se penso (io) a ciò che riguarda “imbastire delle storie”, oppure essere “un uccellaccio del malaugurio”, perché questo è ciò che chiama tanto chi scrive quanto chi legge alla collina della legge, se mai qui può esserci cosa come quella là, – ma questo non ci deve allontanare dalla questione, che è ciò che tocca la fine della narrazione, che è appunto quello che incastra i tanti malcapitati giunti da prima, cioè chi ha avuto il compito di narrare, quanto ai tanti cui è capitato il compito di leggere, cioè chi si è infiltrato dopo, avendo avuto solo compito di ascoltare – infatti, ciò che il libro deve incastrare non è altro che chi legge, dico “chi legge” quale ingarbugliato punto che può essere precipitato solo come spunto, appunto perché l’arte di scrivere chiama l’arte di leggere – cosa che non ha nulla a che vedere con quanto da Brecht (Bertoldo, tutte ormai olive acide sue) borbottato appena a tempo di quello che su gambette storte sue reggevasi appena, ma ci troviamo in epoca in cui solo non l’Autore, ma anche il Lettore è stato bello rinvenuto stecchito sbiancato morto come in episodio di JBF (la Serie = La Signora in Giallo), e qualcosa come l’entità Jessica Fletcher, come nel romanzetto che vede Jory folle alto sprillare da fumetto di un appena cazzettin bello bello Jory lo Qualunque, Costa Ovest, sembra avere fatto fuori tutti, appunto per incastrare chi già era stato segnalato come bello stecchito nel suo mondo piano pianino per lui preparato – questo perché il libro non ha niente a che fare con chi è chiamato a leggere, sono appunto due cose del tutto (per quanto l’arte di leggere chiama l’arte di scrivere). Nei fatti ciò che si mette a nudo è il meticciato, che nelle città d’Europa equivale all’Islām tratto via a culo nudo di forza. Gli scrittori sono sempre riducibili ad una forma, Simenon ha inventato un modo tutto ovattato di scrivere, che è ciò che comporta l’atmosfera tanto ricordata da Sciascia come metodo di indagine del commissario Maigret, che però è ciò che, nelle città d’Occidente, pone l’Islām a sfacciato culo nudo in faccia – che per Simenon è il mondo ovattato della nebbia come atmosfera. Questo quando, appunto, punto dopo punto per assai comodo vicolo di ricircolazione porta ci porta spalla a sporta fine di teoria de la narrazione, ancora riproposta di recente da Byung-chul Han via Benjamin (Walter) – che sembra giungere a noi a lo istesso paradosso riguardo a quanto guarda il detto di un istretto narratore di Benjamin suddetto, cazzi tutti belli bardi suoi hai qui tanto caro a stecca: chi narra fa sempre violenza a ciò che narra, come dimostra Emmanuel Carrère nel saggio suo, sostengo, dall’omicida testo di titolo ristretto costretto a testa: Ucronia. Ogni racconto che salta giallo grillo gallo grullo su collo di chissà chi deve fare in modo di scrivere il giallo grillo gallo grullo in cui l’assassino è chi legge di tutto punto di suo mai noto – cioè del tutto ignaro di quello che si è posto appena a leggere, di ciò che sta facendo (partiam da qui, se ti va) – ma perché, ad un certo punto, tanto vorrei sapere, a quel bastardo di italiano è sprizzata tutta l’autodistruttiva voglia di leggere, a scapito suo, che porta al gioco del mondo? Infatti: che ci fa, questo bastardo di italiano, in Europa? È quello l’assassino pampano (rayuela d’opra manca), cioè ciò di cui il testo parla, ma non mette in inciampo suo alcunché di alcuno. Cazzo, lo avete tutto ciullo lì, no, ove lo sentite? Ma ciò che si oppone alla narrazione è ciò che comprende le serie televisive ed il cinema, che pure tanto pesantemente derivano da quel del teatro, dico male? Il problema di tutte le cose del mondo da descrivere è quello che ha dato origine al romanzo, men che mai ginger giallo, titolo: Infinite Jest, dipendente dalla narrativa postmoderna fin che vuoi in un picciol mio di generino bello in pelle: ogni enciclopedia parte sempre da un principio suo democratico, vale a dire dal giuoco dell’oca (orca porca); sì, però scrittore non è colui che usa le parole, ma che dalle parole compie il salto alla lingua di suo – di cima in cima in clima –, che fa allora, del tesoro, il tesoro della razza, che è ciò che lo scrittore porta di volta in volta a trafugar cosa picciola qualunque come la piccola coppa coppetta ciospa cignosa cosa di cui tratta il Beowulf. Cosa vuole, quel bastardo di italiano, in Europa? Tanto vale vedere la barcaccia tutta in un boccone da svendicchiare e poi (fine) far fagotto – presto adesso. Ti dico: erano cose che meritavano di fare quella là di fine – se identifichiamo un testo come cosa che, catturata, movesi dentro appena a sacco stretto, che strada si fa – allora la questione che il romanzo tutta deve sciogliere è: “a chi spetta il diritto di vivere?”, questa è la questione che riguarda ciò che il romanzo deve affrontare, da Lely a Chapoutot, passion passant selon Sade (mai ci crederai: vedo sempre più vicino quel bastardo di italiano, io), la poesia sulle rovine del castello, perché le rovine sono ciò che devono chiamare a la nova sora bat-ta-glia. Che è la battaglia della razza bianca contro il meticciato, che è ciò che riguarda l’abitare la terra, cioè la razza che ha diritto, alla fine, di abitare la terra. O il romanzo affronta la questione fondamentale della lingua, o favoletta che allora permane in ciò che riguarda parole e procedere solo tramite GPS in un ambiente di cui dea menoma idea alcuna esso ha – dico quindi bene alfine? Questo è ciò che porta la fine del romanzo, che non è ciò che comporta la scomparsa del romanzo a tutti effetti e cazzi duri pure tutti quanti suoi. Abbiamo infatti a che fare con marea di nuovo materiale: la marea del nuovo materiale di ciò che si oppone alla narrazione è la figura di ciò che traccia narrazione (la nuova). Chi è chiamato ad abitare la terra come razza che – allora – è la razza che abita la terra. La forma di narrazione di Dieci cose che ho imparato da Jessica Fletcher di Alice Guerra, che da tante cose pesca & intriga pur con punta di dialettale sprescia di matrioska anzichenò, fuorché dalla letteratura, mostra che c’è qualcosa di meglio della narrativa di Rachel Cusk, ed era ora di uscire da ’sta palude! salta ’sto romanzo due pietre d’inciampo, Rachel Cusk & Valerio Evangelisti (che peggiore è tra tutti). Gli elementi del romanzo ci sono tutti, ma, per fortuna, quello che si legge non è un romanzo. La serie televisiva La Signora in Giallo è una serie di racconti, a tutti effetti (gli), mentre Dieci cose è romanzo meno che mai, ma indica il modo fino ad allora fraudolentemente utilizzato da quella degenerazione del racconto che è il modo di procedere delle serie televisive o anche dei singoli bestseller. Il problema non sta nel personaggio della Signora in Giallo, ma nelle serie televisive, di cui anche quel personaggio parte fa sua bella quanto sonora clangolante tanto piccola propria parte; quindi non trame, ma configurazioni, che è ciò che costituisce la lingua italiana come “la lingua italiana” che è la cosa di cui qui si sta parlando, cioè l’alingua italiana. Se l’arte della narrazione è finita, bisogna pensare allora il nuovo modo di muoversi in ciò che ha costituito la fine de la narrazione. Ti rispondo: “Il meticcio italiano è la matassa Odradek che nessuno vuole trovarsi tra i piedi.” Che è ciò che ancora l’arte del bestseller dimostra di non avere chiaro ancora claro tutto quanto chiaro scracco di scarco gusto suo modo ora. Gli elementi del romanzo ci sono tutti, ma, per fortuna, quello che si legge non è un romanzo. Nella serie La Signora in Giallo tutto converge verso il personaggio di Jessica Fletcher, che deve risolvere il mistero. Richiamando, all’interno di un romanzo, quella stessa serie, due sono le possibilità: o ricostruire novella cosa che richiama ciò che non ha fatto altro che richiamare serie quella (dico -la “là”), oppure ricostruire novella cosa che non richiama più ciò che la serie imporrebbe di suo di richiamare allora (porre a richiamo), a livello di romanzo ma che indica novella cosa giusto come novella lingua. Il problema è l’arte della finzione. Rimane la funzione della chiacchiera, che darebbe vita ad un leggero “romanzo chiacchiera”, qui fortunosamente evitato – che può essere come piacere di una costruzione, o come punto in una serie in quanto costellazione di puri punti spunti spersi sparsi tutti quanti. Nel primo caso si arriva ad una parodia del romanzo, nel secondo dei casi ad una evocazione, anche ad un “giallo (più o meno)”, che sottintende *(quasi) romanzo, che poi può essere giallo oppure anche no, o anche (più o meno) altrimenti giallo, cioè, come indica il sottotitolo, (più o meno) romanzo. Il discorso sulle serie televisive merita un tipo diverso di romanzo, che può essere indicato come “romanzo”, indicato nel sottotitolo; così come il discorso sul romanzo che prende in esame le serie televisive merita un discorso diverso. Compito della letteratura è passare dalla parola alla lingua: come scherzo altro è che solo scherzo, così un bastardo di italiano è solo un bastardo di italiano, cioè nient’altro che scherzo uno nel mondo bruto, in cui c’è ancora quel bastardo italiano, lì – quella macchia che ti indico lì – in ciò che è la terra della razza, perché costituisce lo scherzo su cui si basa la macchia romanzo, la macchia che la forma, che ancora non conosciamo, deve cancellare; il rispetto delle parole porta alla lingua della maldicenza, che è ciò che porta a lo scherzo infinite di DFW, che è ciò che viene da lontano, così come a questa terra della sera giunta è da lontano ciò che richiama la forma, a noi, “teatro”, che è ciò che inquina il romanzo che ha condotto a le pedanti serie televisive che poi hanno inquinato il romanzo – ma questa, appunto, è tutta altra severa storia men che mai una; già, almeno finché il romanzo non prenderà la parola come genere in grado di dare parola (-la) a ciò che può dare la parola a ciò che si pone come ciò che può dare forma al mondo, quindi in quanto forma in grado di parlare de la razza, perché – sia chiaro – non ho niente contro gli italiani, però ciò che è italiano è ciò che che mi ha da sempre illuminato di schifo immenso, a partire da Dante (il primo islamista della storia), che sarà allora ciò che aprirà la porta alla lingua della razza, infatti leggere è ciò che porta, chi legge, dalle parole che conosce alla lingua che meno che mai conosce, – ma il meticciato è ciò che deve essere soppresso, proprio in quanto solo terra dove andare, cioè vita indegna di vivere, che è ciò che, per la modernità, è ciò che non vuole più vedere, per questo si stenta ad avere un romanzo della piena modernità – in cui questi bastardi di italiani devono prendersi il loro Dante di merda e il loro Boccaccio di merda e tornarsene in Africa, quando l’Africa è ciò che deve essere restituita a ciò che sta sotto l’acqua e mai parlarne più, come a sigla di tipo: “Chi mai era, quel bastardo di italiano?”.

Alice Guerra, Dieci cose che ho imparato da Jessica Fletcher. Un giallo (più o meno). Un mistero. Due indagini. Tre musi da can, Rizzoli, Milano 2024

Larry McMurtry, quadrilogia western

1. Discorso funebre sulla carcassa del nativo americano

Il nativo americano non abita la terra; piuttosto esso è la cosa che sfrutta il vuoto della terra per nascondervisi: «La terra di fronte a loro [dei ranger], che sembrava vuota, non lo era. Lì c’era un popolo che conosceva il vuoto meglio di lui [Augustus McCall]; lo conosceva anche meglio di Bigfoot e Shadrach [gli scout della compagnia]. Lo conosceva e lo rivendicava come suo. Era il popolo del vuoto.» (ICDM, p. 71). Queste cose viventi non sapevano di doversi nascondere fino all’arrivo dei coloni di razza bianca – cioè fino al momento in cui hanno dovuto affrontare esseri viventi, e non più cose viventi, come fino a quel momento avevano avuto a che fare –, quando nascondersi nel terriccio è diventato qualcosa di diverso dal nascondersi davanti a qualcosa che non conosce l’arte di nascondersi in quel terriccio, perché sono forme diverse di vita. Le battaglie in terra d’America avevano sempre riguardato battaglie di cose viventi contro altre cose viventi, nativi americani contro nativi americani, ma adesso le battaglie riguardano cose viventi, nativi americani contro esseri viventi, cioè razza bianca. Alla fine della sua vita, Buffalo Hump va a crepare nel vuoto della “terra”, consegnando la sua carcassa al terriccio che è sempre stato il suo ambiente naturale – terriccio, non terra. In quanto cosa vivente, una cosa vivente come un nativo americano non può chiedere niente più che un ambiente dove crescere e posare infine le ossa che avevano costituito la propria carcassa. Il meticcio Buffalo Hump consegna al vuoto del terriccio, che ha sempre occupato e mai abitato, quel vuoto che esso, in quanto cosa vivente, che era sempre stato in quanto cosa vivente, era sempre stato. In quel vuoto viene raggiunto dal figlio Blue Duck, cupa cosa cava scavata dal crocchio del croccante niente, lì giunta per ucciderlo e che infatti lo uccide, con un colpo gobbo scagliato sghembo di spalle di scatto: come crepa cosa vivente, come quella cosa che è il nativo americano? può cosa vivente crepare? crepa squallidamente, se per mano di un altro nativo americano, come vediamo crepare il meticcio indiano Buffalo Hump in questa occasione; può un meticcio, si può tornare a domandare, la cosa che non è mai nata, morire? vediamo come è crepato il meticcio Bufalo Gobbo, vediamo l’occasione di gloria negata per chi, di razza bianca, priva della vita un ammasso di cose viventi, come nel caso del “massacro di Wounded Knee”, perché togliere la vita ad un ammasso di meticci è sempre atto eroico – possiamo dire che l’arte di Larry McMurtry sfiora il tradimento della razza bianca? Qui è l’arte del racconto.

Solo la razza bianca pone la questione dell’abitare la terra, che è allora la questione dell’abitare la terra e avvia la riflessione che costituisce la riflessione filosofica circa l’abitare la terra, perché un negro, un meticcio, un nativo americano non abita la terra, ma occupa la terra, oppure scorre la terra, in qualità di migrante – questo è ciò che sarà dato a pensare quando gli umani riprenderanno a pensare diversamente dal tempo che impone loro di non pensare, che è questo tempo.

I nativi americani scompaiono, cessano di essere cose, classificate come cose viventi – semplicemente come il Proletario al centro del racconto Cuore di cane, ma può un nativo americano morire, indipendentemente dal modo in cui, nei film western, vediamo morire tanti perfetti nativi americani, pronti per essere abbattuti nella pronta inquadratura, inquadrati quando cadono scompostamente di colpo per terra non appena colpiti di un colpo da pallottole esplose con attenta noncuranza da qualcuno solo abbigliato diversamente, vale a dire: può mai morire, quella cosa che è solo cosa vivente, e non essere vivente? – quella cosa che è, ormai lo avrete capito, vita indegna di vivere?

Si può avanzare l’ipotesi della prosa pensante, che Heidegger ha sempre negato? Heidegger ha senz’altro sbagliato nel parlare della possibilità della poesia pensante, non concedendo attenzione alla prosa e ai saggi critici di Hölderlin. L’arte di Larry McMurtry è arte in grado di spacciare per arte qualsiasi cosa, anche la morte di un ladro laido nativo americano, deforme, violentatore, assassino, pluriomicida, giustamente ucciso con un colpo alle spalle di scatto dal proprio figlio, nato dallo stupro compiuto da quella cosa che era il meticcio indiano Buffalo Hump nei confronti di un messicano qualunque rapito e abusato (il meticcio messicano femmina di nome Rosa). È un’arte che non pone molti interrogativi, che, personalmente, mi ricorda l’arte mancante di Murakami Haruki e di J.K. Rowling.

La carcassa del grande capo South Dakota Bigfoot, che si può vedere scintillare distesa pallida appena entro la morsa stretta di neve e Internet, rivestita di opachi stracci e straccetti, sembra quella di uno zingaro qualunque, rivestito di stracci luridi, crepato dal freddo, appunto la carcassa di un migrante lungo la rotta balcanica, ma la voce di Johnny Cash, che ricorda quella carcassa, non ha nulla a che vedere con l’approssimazione ad una ballata qualunque come è quella cosa mal sonante, cosa piccola fatta fugacemente, da parte del meticcio italiano Fabrizio De Andrè, cosa fatta fugacemente, dico la canzoncina sua Fiume Sand Creek. Niente più che scarafaggi africani sono infatti gli italiani, o zingari africani – credo che il meticcio italiano Fabrizio De Andrè fosse ligure, o comunque di quelle luride parti d’Italia tanto altisonanti quanto assassine, non so bene (porco dio/me); ma il dio della razza bianca stramaledica sempre l’Italia tutta, fonte di tante parti varie e assassine tutte quante, zingari africani in fronte a zingari mongoli, solo vita indegna di vivere!

Ma il vero modo in cui possiamo conoscere i nativi d’America è quando miriamo la carcassa di un nativo americano. L’indiano, che non ha mai abitato la terra, e che in essa scompariva come vuoto da vuoto avvinto, appare adesso nella forma rattrappita di una cosa che non è più che cosa morta dopo essere stata cosa vivente, ma solo carcassa di un nativo americano. Questo è quello che si vede quando i quattro ranger e lo scout indiano Famous Shoes sono davanti alla carcassa della cosa che era stato Buffalo Hump, cioè il laido capo deforme Comanche – cosa violenta, subdola, spaccona, stupratrice, assassina, infida – adesso solo cosa inchiodata per sempre al terriccio di una lancia maneggiata con destrezza dal figlio meticcio, messo al mondo costringendo a violenza sessuale un messicano qualunque da poco prima rapito, Rosa di nome. Questo l’arte narrativa di Larry McMurtry lo dice – posto sempre che l’arte di scrivere chiami l’arte di leggere – cosa di cui dubito sempre di più. Comunque questi romanzi in quadrilogia di Larry McMurtry sono mille volte meglio dei film di Hollywood da ascrivere come Sottomissione. L’indiano è quella cosa vivente che sporca la terra, e la sua carcassa è quella cosa, non più vivente perché mai è stata tutt’altra cosa che cosa vivente, che continua a sporcare la terra. L’indiano è quella cosa che non ha mai abitato la terra, semmai è quella cosa che ha fatto parte della configurazione di un terriccio, come una pietra ha fatto parte della configurazione di un terreno. Per questo è giusto consegnare la carcassa del nativo americano Buffalo Hump al vuoto.

Vediamo quasi i ranger disposti a omaggiare la carcassa di quella turpe cosa che tempo tosto stata era cosa vivente, riconoscendo, in quella carcassa piccola e schifosa, morta schifosamente, l’ombra svanita di un grande capo una volta temuto, a causa della sua ferocia assassina. Bisogna preservare l’arte narrativa di Larry McMurtry dalla malafede degli storici che parlano di “genocidio” a proposito della colonizzazione da parte della razza bianca dell’America, Australia, Nuova Zelanda. La carcassa di un nativo americano è sempre la carcassa di una cosa vivente, perché una cosa vivente non muore mai, a meno che non venga inserita in un progetto di eliminazione di tutte le forme di cose viventi in quanto vita indegna di vivere. Paradossalmente, gli indiani che lo deridono in quanto vecchio e debole, non vedendo in lui più nessun segno della grandezza che quella cosa comunque mai ha posseduto, sono più nel giusto in confronto al modo di pensare dei ranger, che si ostinano a vedere in quella carcassa il corpo di un capo e non la carcassa di una cosa vivente, cioè di ciò che mai era stata veramente viva. I nativi americani vedono nel loro vecchio capo, ormai rimbambito dall’età, la carcassa che essi stessi, al di fuori dell’età, sono la cosa che, con ostinazione, occupa la terra senza mai abitare la terra. Questo perché è la terra a chiamare il suo abitante, e non viceversa; una cosa vivente che si installa su una terra sporca solo la terra, imprimendole vibrazioni negative, come hanno dimostrato Lovecraft e Miguel Serrano.

Ma perché la carcassa di un nativo americano (in quanto carcassa di ciò che era stata una cosa vivente) chiama al rispetto che dovrebbe avere un corpo umano non più in vita? In Tolkien le carcasse degli orchi non meritano alcun rispetto da parte dei nemici, che al termine delle battaglie li riuniscono in una catasta a cui poi appiccano il fuoco. Perché questo non succede anche alle carcasse dei nativi americani, per quanto si tratti della stessa cosa, vale a dire: vita indegna di vivere? Vari governi degli Stati Uniti hanno più volte ammesso di avere compiuto massacri nei confronti dei nativi americani, quando si è accertata l’uccisione di nativi americani nella forma di donne, vecchi, bambini e giovani indifesi – ma togliere la vita a un nativo americano è comunque sempre compiere quell’atto eroico che è atto eroico, qualunque cosa poi ci venga a dire il meticcio italiano Fabrizio De Andrè. Quello che si riconosce nella definizione di “massacro” di Wounded Knee è il trionfo dell’ideologia ugualitaria.

Solo l’arte del grande disprezzo potrebbe prendere la parola in un momento in cui la carcassa di un indiano diventa palpabile a occhi e mani diverse.

Lo sguardo si determina come sguardo aggrappato alla cultura diversa (come si evince dai diversi libri di George Catlin, e del quarto volume della Mitologica di Lévi-Strauss, del volume di Franz Boas sull’arte primitiva degli indiani della costa del Nordovest), siamo messi male, ma anche come sguardo che mira a cancellare la diversità che esiste, per chiudere la testimonianza in un museo.

Lo sguardo sull’altro non è lo sguardo dell’Incontro. Lo sguardo dell’Incontro e lo sguardo che determina l’altro nell’insieme delle sue possibilità.

Bisogna pensare le razze presenti in America secondo Larry McMurtry e secondo Lovecraft. Lovecraft vede la complessità degli europei, come gruppi di razza bianca (tedeschi, scandinavi, olandesi, celti), e meticci che devono essere scacciati (sacche di meticciato quali slavi, spagnoli, italiani), mentre Larry McMurtry non fa cenno a queste differenze. Lo sguardo del narratore di Larry McMurtry non ha nulla a che vedere con lo sguardo del pensatore marxista Walter Benjamin, che ha quella lontananza rassicurante che si capovolge di colpo in pericolo. È tipico di quei lontani pensatori marxisti distrarre l’attenzione, per fare in modo di scoprire la guardia dell’avversario, per portare dentro casa il pericolo appena esso sul crinale si è manifestato.

2. Adagio del sangue impuro

L’equilibrio imposto al sangue impuro pone la questione del sangue impuro, che non deve essere limitato al genere, ma alla razza, che è ciò di cui allora non si sapeva parlare, come adesso è ciò di cui non si può parlare. Parlare del genere e non della razza è ciò che porta alla violenza catatonica dei nativi americani, pure così bene spiattellata dall’arte narrativa di Larry McMurtry. In LC II/73 il meticcio indiano Red Hand è stato contaminato dal sangue mestruale di una delle sue mogli ed è terrorizzato, temendo esso vicina la propria fine. Il sangue mestruale è sangue impuro espulso in modo naturale. I nativi americani costituiscono un sangue impuro che sta per essere espulso in modo non naturale. Red Hand informa Buffalo Hump delle ultime novità riguardo la fine di Buffalo Horse e la cattura del capitano dei Texas Ranger di nome Inish Scull. La conoscenza della periodicità che rende le donne indisposte per i maschi hanno la controparte nella violenza catatonica dei nativi americani allo scorrere del sangue dei nemici. Contrariamente alla Hollywood degli anni Settanta e a Tex Willer dei meticci italiani, con svagata abilità narratologica sdoganata da Alessandro Baricco, la quadrilogia western di Larry McMurtry propone l’immagine diversa dei nativi americani, più simile a quella che compare delineata da Jack London – per chi ancora se lo ricorda, quando l’arte di scrivere chiamava l’arte di leggere.

Posso invece ricordare, come Intermezzo, la differenza che c’è tra la musica del compositore di razza bianca Anton Bruckner e la musica del compositore semita Gustav Mahler, che è pura arte di limpida gradevole decorazione. Forse Jansons ha il merito di uscire dalla scuola tedesca; lettone di nascita, abituato alle scoregge di Šostakovič, può far suonare il suono originario, lo son d’origine, di natura germanica imprigionato nelle sinfonie di Anton Bruckner. Non è impossibile che Jansons abbia visto la natura composita della musica di Bruckner, che nel rifiuto della musica di scena ha la sua piena e spiegata ragione infine d’essere. Non è il caso di parlare della musica del meticcio italiano Rossini, ma scegliendo di non parlare di ciò che riguarda la musica del meticcio italiano Gioacchino Rossini, io parlo sempre del meticcio italiano.

È importante: il di~segno di questa quadrilogia, che si configura in una presenza del nativo americano, cioè della vita indegna di vivere, nella vita piena di vita minacciosa, vita in declino, vita pericolosa se mai ce n’è una. Questo perché gli indiani non sono stati interamente eliminati in base a un progetto di genocidio. Chi parla di genocidio nel caso dei nativi americani, è in malafede. Ci sono state delle battaglie contro gli indiani. Ma in quella parte del mondo, chi legge questa quadrilogia, può dire che non c’è mai stato l’impulso di dare forma al mondo, decidendo a chi spetti il diritto di abitare la terra e chi debba invece essere eliminato in quanto vita indegna di vivere. La questione dei libri che parlano di “genocidio”, in perfetta malafede, è dove passa la differænza.

La quadrilogia ha la forma insinuante del serpente che striscia – Fafnir che striscia lungo la sua fine per bere: Il cammino del morto, storia come storiografia; Luna comanche, epica; Lonesome Dove, epica; Le strade di Laredo, storia come storiografia – per quanto scritti in periodi diversi, per cui l’ordine sarebbe 3-4-1-2, la quadrilogia vede l’epica all’interno dei quattro movimenti – e che colpito dalla fossa irrora del suo sangue impuro che rende immortale, anziché contaminare, colui che lo fatto sgorgare.

I nativi americani non dovevano essere sconfitti attraverso un programma di guerre, ma cancellati attraverso un capillare e assoluto progetto di genocidio, che solo avrebbe reso la terra “terra alleviata”, ma progetto che in quel periodo non poteva essere né pensato né tantomeno applicato, e che adesso può solo essere rimpianto, e la razza bianca la forma in grado di abitare la terra e i nativi americani la forma che non ha forma, mentre alla terra sarebbe stato restituito il suo diritto in quanto terra, cioè di chiamare il proprio abitante, mentre noi adesso pensiamo la terra solo come terra dove andare.

La razza bianca dovrebbe chiedere scusa per non avere pensato il genocidio, per non avere pensato e praticato la cancellazione delle forme di vita indegna di vivere. Con gli indiani è sempre da tenere presente l’enigmatica formula di Conrad: «Exterminate all the brutes!». Il progetto di sterminio dei selvaggi non nasce con la rotondità della logica, ma come punto lasciato enigmatico. La quadrilogia di Larry McMurtry permette di porre la differænza tra essere umano e cosa vivente – che non riguarda più la logica in quanto logica fondata sul sillogismo. Più si entra nel regno delle forme metamorfiche, più ogni singola forma suscita disgusto e si dimostra come una aberrazione che non ha diritto di vivere – ciò che è solo vita indegna di vivere: Gobba di bufalo gobbo, Anitra Blu, Ahumado. Ahumado e la sua banda viene dall’epoca dei Maya, e costituisce la controparte dei nativi del Nordamerica, che la razza bianca non ha cancellato e di cui dovrebbe scusarsi di non averlo fatto. È probabile che questa tetralogia affronti il problema delle razze da eliminare, perché ormai il momento è bello pronto.

3. Scherzo attorno la possibilità del western metafisico

Non si è scrittori se non si ha a che fare con tutte le parole del mondo, ma quando opera è ciò che chiama caos, in rapporto alle parole lasciate, anziché armonia, da qui è ciò che passa ciò che determina il tipo di scrittore comunque, cioè ciò che pone l’incontro nell’andare lungo la terra, che è l’incontro con l’altro. Due tipi di incontro, nel senso di “sbattere contro”, sono fulmineamente possibili nell’incontro che porta l’allaccio lungo la terra, che è allora l’andare nella Terra del Sacro in sovrapposizione quantistica con ciò che è Terra del Sacro: l’incontro con l’Altro, che determina l’Incontro; l’incontro con l’altro, che determina il western metafisico di Alessandro Baricco e Cormac McCarthy; l’incontro con il piccolo altro, che determina il romanzo storico di Larry McMurtry, con la conseguente eliminazione dei nativi americani in quanto vita indegna di vivere, per quanto in quei testi mai espressamente mi pare trovare attuato.

È in questa accezione di sospensione dalla terra che il western metafisico vira verso il fantasy, come dimostra Abel, e soprattutto il capitolo “Braccata da una fregata francese”, che cala nel mondo il narrato delle acque di sogno di Kadath.

Ma ciò che è l’andare nella terra chiede il pensiero relativo a ciò che è andare nella terra che è il ritorno dell’andare nella terra come terra che era stata la Terra del Sacro, che è ciò che deve allora ritornare a suonare, mentre la fine che si vede fare, da parte del piccolo altro, è sempre la brutta piccola e spicciola fine davvero in terra che attende ciò che è piccolo. Il western non metafisico esalta la sacralità della terra, che deve essere alleviata dalla presenza del nativo americano, in modo da dare il via alla Storia come sguardo, che è sguardo della razza bianca, mentre per andarsene dal punto di vista del western metafisico si chiede il botto del silenzio: Abel è un romanzo fantasy western, come dimostra il capitolo “Braccata da una fregata francese”, ma notare che McCarthy se n’è andato con il botto alla grande; la storia è infatti ciò che si definisce a patire da lo sguardo de la razza bianca, che pone il botto suo alla fine.

4. Presto & finale azzoppato ne la terra alleviata

La quadrilogia presenta il tema dell’andare per il mondo in gioventù e del conseguente incontro con l’altro, ne le sue più diverse forme. I nativi americani vengono presentati come forme di altro, perché quel tipo di incontro non pone giammai l’incontro con l’Altro, che solo è ciò che costituisce l’Incontro, che è dato in tutto alla razza bianca nel suo andare per il mondo, che solo può situare l’Incontro solo come incontro con lo stesso se pure in tempi suoi tanto diversi per tempi.

Casa è dove si può dire: “Esco di casa e incontro Svevo in via di quel porco dio di Rossini musichiere di tanti meticci italiani bastardi del cazzo”. Infatti il tema della sottomissione nel romanzo di Houellebecq (dal titolo Sottomissione) è il tema che sconsideratamente disconosce la questione razziale, che ormai invece è la questione principe che deve essere pensata: infatti, se non si ha un programma antivirus di soppressione dell’altro in quanto degenerazione, si ha la sottomissione all’altro. Tutto sommato, il western metafisico aveva già capito l’andazzo del cazzo ormai giusto, per cui, lestamente, Abel comincia con la frase: «Sento una vibrazione, allora sparo.», mentre dovrebbe, proprio ciò, in quanto competenza, dico, essere de lo Stato la questione di avvertire la vibrazione cazzo in atto. Il western metafisico si impiccia della cosa quando non c’è più terra sotto pochi spiccioli di terra appesa appena da sonare. Creando, Alessandro Baricco, il western metafisico, ha dato sgambetto a Cormac McCarthy a la grande, che mai si era impicciato di metafisica, salvo sonare col botto due ultimi grandi romanzi suoi, che passeggero e stella di mare fondono in un unico sono di differimento, da mare e prima ancora sotto mare, mentre Baricco aveva compreso ciò che solo spettava in quanto “western metafisico”.

Ma la guerra, che non abbiamo visto alternativamente, concretamente svolgersi lungo tutta quadrilogia questa, perché guerra nascosta, è la guerra tra razza bianca e meticciato mongolo in tutte sue le diverse forme, che sarà la nuova guerra che attende la razza bianca, quando si tornerà a parlare di nuovo di razza d’un colpo: e Occidente contro Oriente, razza bianca contro mongoli, perché tutto è cosa che qui giunge strisciando verso noi da lontano. Non permettere ai mongoli di vivere – laddove la terra è la terra della razza bianca. Non può esserci una sinfonia bruckneriana, al massimo sinfonia che arranca azzoppata alla fine.

Larry McMurtry, quadrilogia western:

ICDM – Il cammino del morto (1995), traduzione di Margherita Emo, Einaudi 2024

LC – Luna Comanche (1997), traduzione di Gaspare Bona, Einaudi 2025

LD – Lonesome Dove (1985), traduzione di Margherita Emo, Einaudi 2017

LSDL – Le strade di Laredo (1993), traduzione di Margherita Emo e Cristiana Mennella, Einaudi 2018

Tolkien, Sulle fiabe

Gnosticismo In Tolkien è fondamentale il concetto di subcreazione – cioè la sottocreazione che, in origine, viene fraudolentemente compiuta da un demiurgo, che, nel Silmarillion, segna l’origine della polifonia, perché il demiurgo si intromette nell’opera della creazione, si nasconde così come poi l’artista, secondo la teoria di Tolkien, crea un altro mondo – che comporta, secondo le regole della grammatica, chiamare *un’altro mondo, che è l’azione di chiamare la lingua in quanto presenza di ciò che è *l’alingua, che è ciò si pone in quanto Ecclesia di tutto un popolo che non c’è: l’apostrofo è allora ciò che si pone come differenza in tutti e due i casi, vale a dire ciò che fa la differenza, essendo, in entrambi i casi, pura differænza di ciò che non c’è, che mostra come il fantasy nasca da tale ambiguità d’ombra resa ombrosa nel tratto d’apostrofo. Chiamare la lingua in quanto ciò che è l’alingua comporta chiamare l’imbastardimento, cioè il meticciato, anche solo in quanto tratto grammaticale ricomposto attraverso lo spazio di un piccolo apostrofo. L’apostrofo è ciò che pone ciò che parla come ciò che non ha diritto alla parola in quanto essere umano, bensì in quanto cosa vivente, che è ciò che gli orchi esprimono nel loro dissonante clangore di suoni, che, comunque, secondo Tolkien è ciò che comporta la possibilità di una trasmissione di ordini, per quanto mai di una storiografia. È una parata di imbecilli.

Il piccolo fascino del male – In duale forma, sì frapposta, ravvisasi, penso, pure puer per paro-paro collegamento fra meticcio e delinquente, che Lombroso Cesare aveva di suo già prima posto tutto a suo comprendimento; posto che meticcio e delinquente siano, attualmente, forme le più interessanti tra tutte le – da qui la sfioritura ampia & fioritura di romanzi magri visti giallo su gialli (dico romanzi gialli, come pure romanzi neri, secondo quanto informa Sciascia su copertine, paro paro), visto che, se di delinquenza si può liberamente parlare e straparlare, di razza non si deve più ciarlar giammai in modo alcuno.

Il pericolo – Ma canto d’altro & punto di vista altro tutto apposto, l’incontro con il punto del mito è ciò che costituisce il pericolo, così come l’omicidio, come uccisione di uno o molti ancora più individui, in quanto trasgressione di uno individuo, è ciò che si oppone al genocidio, come impegno di ciò che lo Stato ha lasciato cadere, omicidio di una fascia intera di cose, perché l’umano è ciò che è chiamato ad incontrare, di suo da sempre, il pericolo – Grazie al dio della razza bianca, non al Dio del nemico, a cui meno che mai rispondiamo.

Le tre forme viventi – Tolkien considera tre tipologie di forme viventi, nella propria sua picciola sì tanto dispersa opera, che ricordano tre le forme possibili di esseri viventi secondo teoria nomata “gnosticismo”: forme passibili di spirituali, forme di psichici, forme di ilici: che in Tolkien comporta successione de le forme via via nomate come: forma di elfi, forma di umani, forma di orchi. Siamo allora sicuri di conoscere quello che Tolkien ha scritto e che poi ci è stato presentato?

Il cristianesimo dimenticato – Alessandro Dal Lago (Eroi e mostri. Il fantasy come macchina mitologica, Laterza 2017) richiama l’attenzione su di un punto del Beowulf in cui Grendel è l’essere della stirpe di Caino che non è stato accolto, ma che invece è stato rifiutato dalla comunità degli umani, quando Grendel era solo la deforme forma che solo chiedeva accoglienza, pari pari ne lo istesso modo in cui accoglienza chiedeva la creatura di Frankenstein – o qualunque migrante adesso in Europa.

Annientamento – Nel romanzetto di fantascienza di Charles Stross Annientamento (2015), una cosa parvi certa: quando ampiamente dal mito siamo passati al romanzo – vi siamo passati *ampliamente. Ma ciò che questo romanzetto di fantascienza esprime è l’inclusione verso tutte le forme che mito e romanzo avevano presentato come ciò che deve essere escluso: cioè il mostro. Nel romanzetto di Charles Stross queste forme di mostri (si tratti di vampiri o di sirene) sono solo le rappresentanti forme di minoranze che devono essere accolte all’interno delle comunità di normodotati e non si parla mai di “vita indegna di vivere”, che è invece ciò che muoveva ancora la narrativa di Tolkien, rendendola pure così viva e affascinante.

Fiabesco – Considerare il carattere fiabesco presente in Tolkien vuole dire confrontarsi con l’antirealismo presente in quel suo tipo di letteratura. Il fiabesco è l’impossibilità del nuovo pensiero, cioè il cristianesimo che ha invaso ogni settore del pensiero. L’impossibilità ha la sua espressione nelle tre forme viventi indicate. Tolkien ricorre al fiabesco per dire quello che, una letteratura di stampo realista, non avrebbe più potuto dire: le razze umane non sono tutte uguali e alcune razze “umane” hanno meno che mai diritto di vivere, essendo nient’altro che vita indegna di vivere – perché le razze non sono tutte uguali. Dumézil e Lévi-Strauss hanno parlato del passaggio dal mito al romanzo, cioè del romanzo come di ciò che segna la fine del mito; Tolkien vuole invece rinnovare il mito tramite il romanzo – questo è quello che Eroi e mostri ha indicato come elemento originario del fantasy. Tolkien ha cercato di rivivificare il mito attraverso il romanzo, ricorrendo a diversi generi (poesie, narrazioni), ma non ha considerato quello che doveva essere la cosa principale: la storia del linguaggio come storia autentica che doveva subentrare alla storia fasulla dei personaggi, rintracciata nella psicologia, che è la carta falsa del personaggio in quanto ciò che fa la carta falsa della narrativa. Tolkien si è invece accontentato di un incontro di stile alto con uno stile basso all’interno della forma-romanzo. Rimane però sempre la domanda implicitamente posta da Eroi e mostri: perché proprio il tempo del Medioevo? Quando si parla di Medioevo, si intende sempre il Medioevo latino, mai quello germanico; Medioevo romano vuole dire impero Europa, ovvero cristianità – senza salto di lingua; medioevo germanico vuole dire nordisk hedendom con salto di lingua. Tolkien è rimasto fra i due mondi stretto, infatti pensava al romanzo Il Signore degli Anelli come una incursione degli hobbit nel mondo eroico.

Dare forma al mondo – Acquisita che è stata la polifonia come forma novella possibile di espressione, si accetta la possibilità di “dare forma al mondo”, che, una volta acquisito il numero delle razze del mondo, pone la questione di porre in primo piano la possibilità del Gioco del mondo – che però niente altro è se non il gioco de le perle di vetro, cioè il GPS che stabilisce nient’altro che la posizione in una misurazione che è misurazione quantistica, in quanto ciò che chiama la decoerenza, come dimostra ampio nel suo modo già il Silmarillion: «Ma giunti che furono nel Vuoto, così Ilùvatar parlò: “Guardate la vostra Musica!”. Ed egli mostrò loro una visione, conferendo agli Ainur vista là dove prima era solo udito; ed essi scorsero un nuovo Mondo reso visibile al loro cospetto, e il Mondo era sferico in mezzo al Vuoto, e in esso sospeso, ma non ne era parte.» (J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, traduzione di Francesco Saba Sardi, Rusconi 1985, p. 14).

Eroi e mostri di Alessandro Dal Lago – Tolkien ripete nella sua opera una cosa che la sua morale cristiana non gli avrebbe mai permesso di formulare compiutamente: le forme viventi non sono tutte uguali, meno che mai davanti al Signore, alcune non meritano considerazione alcuna, né da vivi né da morti, come gli orchi. Queste considerazioni si trovano esposte nel libro di Alessandro Dal Lago, Eroi e mostri. Il fantasy come macchina mitologica, il Mulino 2017). «Allora gli elfi lo legarono [Thorin] con delle cinghie, lo chiusero in una delle caverne più profonde dietro una massiccia porta di legno e lo lasciarono lì. Gli diedero da mangiare e da bere, tutte e due le cose in abbondanza, anche se non di qualità sopraffina; perché gli Elfi dei Boschi non sono goblin, e si comportano in modo civile anche con i loro peggiori nemici, quando li fanno prigionieri. I ragni giganti sono le uniche creature per cui non hanno alcuna pietà.» (J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, traduzione di Wu Ming 4, Giunti/Bompiani, Firenze-Milano 2024, p. 182). È importante il fatto che, per alcune creature viventi, in quel testo, non debba esserci pietà – cioè per le cose viventi, che non sono esseri viventi a pieno diritto; le cose per cui la vita è solo un peso che altri devono trascinare, cioè la vita indegna di vivere.

Mito e romanzo – La questione è che il romanzo svincola l’uomo delinquente, mentre il mito non svincolava mai il trickster in tutte le sue piccole varie forme in cui si è interrato. Il meticcio italiano Dante è stato il primo caso, in letteratura, di homo delinquente, essendo stato il primo caso di islamista lasciato libero di agire con i suoi turpi progetti criminali. Le parole usate dal meticcio italiano Dante non riguardavano né il mito né il romanzo. Il meticcio russo Dostoevskij è stato l’ultimo caso di homo delinquente, teorizzato in Delitto e castigo, la cui domanda, lasciata libera di agire, ha portato a la domanda pulsante da parte del filosofo di razza bianca Nietzsche. Alcune razze hanno inciso dalla nascita il marchio della propria eliminazione: guai a chi salva in sé il marchio del deserto.

La terra viva – Non c’è idea del Sacro senza disprezzo per il meticciato e senza disprezzo per il meticcio che la terra inquina con sua propria diretta presenza (cioè ciò che “quella terra”, vale a dire la Terra del Sacro, il meticcio porta alla fine). L’Idea della terra viva, Sacro, meticciato e terra sono tre cose saldamente collegate fra tutte loro, almeno per ora, e l’una deve richiamare sempre le due altre, tutte altre due.

La questione Tolkien – Tolkien ha cercato di portare a vita novella il mito attraverso il romanzo, destinando l’arte sua a tanti difformi generi diversi di poesie e narrazioni, ma non ha considerato quello che doveva essere la cosa che si poteva configurare nella narrazione come storia del linguaggio, adesso, al posto di ciò che costituiva la vecchia narrativa, relativa a intreccio & personaggi. Invece si è accontentato di un incontro di stili come incontro di stile alto e stile basso – di romanzo. Questo è appunto ciò che divide Tolkien e Joyce. Sempre rimane la domanda posta da Eroi e mostri: perché proprio e sempre il Medioevo? Si potrebbe avanzare questa ipotesi: quando si parla di Medioevo, si intende sempre il Medioevo romano, mai quello germanico; Medioevo romano vuole dire cristianesimo; medioevo germanico vuole dire nordisk hedendom. Tolkien è rimasto imperlagato fra li mondi due, infatti ha pensato il Signore come la incursione degli hobbit nel mondo degli eroi: ha creato il gioco delle perle di vetro sfuggendo ciò in cui si era trovato semplicemente ma prosaicamente impelagato.

Razza e disprezzo – La diversità de le razze, razze due (ciò che la lingua norvegese espone con la felice espressione “begge to”) chiama il disprezzo perché il modo in cui una razza parla di un’altra razza è la manifestazione di un disprezzo verso quel germoglio di diversità – il GPS è ciò che indica il posizionamento nel gioco del mondo, nel momento in cui il gioco del mondo è tutto il gioco de le perle di vetro cioè il GlasPerlenSpiel attuato di colpo in una volta come salto di vetta in vetta.

Anticristianesimo in Tolkien – Nella narrativa di Tolkien c’è una componente tanto autenticamente cristiana quanto fortemente anticristiana, che è ciò che può rendere Tolkien un grande scrittore, che si manifesta nella componente gnostica, che implica la creazione come ciò che è una cosa avvenuta in più fasi, comportante l’intervento di un Demiurgo; la presenza di varie forme viventi, fra cui una forma che è nient’altro è se non “cosa vivente”, cioè gli orchi, che devono comunque essere cancellati dall’opera della creazione. In Tolkien gli orchi sono solo il prodotto di un incrocio cristallizzatosi a malefici fini nascosti bene, per cui gli orchi sono sempre ciò che va cancellato in quanto forma la vivente, cioè in quanto quella anomalia che è la cosa vivente e ciò che deve essere annullato con il fuoco quando appunto se ne ha a che fare soltanto nella forma di un mucchio di carcasse accatastate al termine di una battaglia.

La Terra del Sacro – Come ciò che, nel testo, deve rimanere in quanto ciò che deve rimanere in quanto vuoto – senza alla fine esserci punto

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Id., Albero e foglia, Rusconi, Milano 1984, pp. 7-100. Traduzione di Francesco Saba Sardi.

Ayatsuji Yukito, I delitti della Casa decagonale

Il romanzo poliziesco porta alle estreme conseguenze il concetto di narrazione, posto che si abbia intenzione di chiedersi che cosa si intenda, adesso, per “narrazione”, cioè posto che si voglia interrogare quella possibilità di collegare fra loro, strettamente, alcuni avvenimenti in modo da costituire una sola figura (forma, Gestalt) valida ai fini di ciò che è dato volgere, allora, come narrazione – così il romanzo giallo diventa un possibile meccanismo preciso, tanto da sostituire quel pacco di meccanismo al concetto di narrazione, e collegare il concetto di fine della narrazione prospettato da Byung-chul Han, per cui la questione riguarda la cosa che il romanzo giallo può chiamare in gioco, mentre la domanda riguarda ciò che esso può comportare, anche al di fuori del romanzo giallo; è bizzarro: se lo si guarda da un certo punto di vista, il romanzo giallo è quel genere di narrativa che ha a che fare con il concetto di vita indegna di vivere, ma il romanzo giallo è ciò che non nomina mai, esplicitamente, quella possibilità, cioè ciò che questa possibilità non piglia mai di petto, preferendo ricorrere al “gioco”, ma in quanto ciò che non si segna come ciò che è il gioco di dare forma al mondo, cioè il Grande Gioco; così il romanzo giallo, nonostante la sua propensione per il modo di pensare della maggioranza, deve essere indagato per la propensione strana che sembra volere indicare: trovare ciò che è solo vita indegna di vivere al fine di spiccare lì la vita, ma solo con l’aspetto di prendere parte a un gioco ben composto: il grande criminale impunito, il criminale che la legge deve lasciare libero, l’usuraio vecchio e inutile – tutto ciò che, nel mondo, costituisce e restituisce la comprensione di ciò che è la vita indegna di vivere; così un discorso critico sul giallo dovrebbe partire dal modo in cui – benignamente – si uccide, cioè dal modo in cui si stabilisce il modo in cui si trova del tutto giusto togliere la vita a quel tipo, o tipi, particolari di esseri viventi, che allora vengono identificati in quanto solo vita che è vita indegna di vivere. Per cui nel romanzo non c’è pensiero sulla eliminazione della vita indegna di vivere, ma costruzione di un congegno che porta all’abbattimento della vita indegna di vivere – vale a dire che il romanzo giallo è un gioco fatto per non pensare quello che invece è la cosa che dovrebbe tornare ad essere la cosa da pensare: cioè la vita indegna di vivere, la vita del pidocchio, la vita di ciò che non ha diritto di vivere.

Il giallo ha a che fare con la vita indegna di vivere, ma non lo ammette esplicitamente, essendo esso un genere di second’ordine, popolare, e un genere che nasconde questo suo modo di fare ricorrendo al gioco, che non è il gioco di dare forma al mondo, cioè il Grande Gioco del mondo, ma il gioco spicciolo del bambino del meticcio – così nel romanzo giallo, nonostante la sua propensione per il modo di pensare della più triste maggioranza silenziosa, deve essere indagato ciò che sembra indicare, quasi per gioco, ciò che non ha diritto ad essere fatto oggetto di indagine: la facilità del delitto, la facilità del meticcio, per cui togliere la vita a chi viene solo indicato come vita indegna di vivere, il grande criminale impunito, il criminale che la legge deve lasciare libero, l’usuraio vecchio e inutile – tutto ciò che, nel mondo, costituisce e restituisce alla comprensione di ciò che invece è vita indegna di vivere. Un discorso critico sul giallo dovrebbe partire dal modo in cui si uccide, cioè dal modo in cui si decide che valga la pena, ad ogni costo, di togliere la vita a quel tipo, o a quei tipi particolari di esseri viventi, che, via via, vengono identificati in quanto vita indegna di vivere.

Temo assai.

Tutto passa attraverso l’uomo criminale: solo pensando la soppressione dell’uomo criminale si potrà pensare, in un modo più libero, infine un mondo più libero. Se è vero che, nel romanzo giallo, agisce l’uomo criminale, che l’investigatore finisce per assicurare alla giustizia, è anche vero che, in quelle pieghe, prende posizione la possibilità di sopprimere l’uomo criminale – e infatti il giallo d’azione tende alla soppressione brutale del criminale, che è ciò che Leonardo Sciascia non tollerava nel “giallo d’azione”, soprattutto nella forma presa da Mickey Spillane, ma anche questo non va bene: pensare l’uomo criminale vuole dire pensare la razza la cui sola vita è un crimine, per cui fare i conti con l’uomo criminale vuole dire fare i conti con la razza che comporta la possibilità dell’uomo criminale, la cui sola vita è un crimine.

Leonardo Sciascia individuava nel romanzo giallo il genere che non richiede il pensiero da parte del lettore a sostegno di ciò che legge (egli infatti era solito leggere i romanzi gialli durante i viaggi in treno) – senza pensare che il romanzo giallo può portare a pensare ciò che, senza il richiamo al pensiero da parte del lettore, porta a pensare, chi, anche casualmente, legge un giallo.

Il gioco è appunto il punto bello di partenza, ma non illudetevi, perché di punti belli non ne avrete punto più: è il gioco che riguarda il rapporto tra autore e lettori, quando l’autore decide di riscrivere uno dei classici del genere romanzo giallo; e il gioco che riguarda il carnefice e le sue vittime, nel momento in cui il carnefice decide di mettere in opera il proprio gioco, cioè il Gioco del mondo, che è il punto in cui giace il GPS che alla fine lo incastra, posti certi parametri, se si accetta il gioco che è il gioco della letteratura, cioè il gioco della paraletteratura che ha comportato il gioco dei due romanzi di Agatha Christie, in quanto colpevole da non perseguire, in due modalità diverse, che è ciò che dimostra che il romanzo giallo nasconde qualcosa – perché altrimenti, dal gioco della paraletteratura, si sarebbe passati al gioco, ben più importante, della letteratura, che comporta l’altra lettura del GPS. Sappiamo che il “Giallo” ingloba la Gestalt, anche se manca uno studio sulla letteratura poliziesca, che consideri tale letteratura, o paraletteratura, da un punto di vista scientifico, come invece è avvenuto attraverso la letteratura, o paraletteratura, che riguarda quel genere simile che è la fantascienza. Il romanzo è quella cosa le cui piene potenzialità sarebbero pienamente visibili a tutti, se tale genere rinunciasse, una volta per tutte, alle due cose che nulla hanno a che fare con quel genere tanto spicciolo che sembra avere a che fare con il romanzo, tanto da essere spesso speso soltanto in trama e personaggi.

La questione è che manca lo stadio per la paraletteratura, ma così il romanzo giallo si pone su una soglia dove lo scoglio che non può essere oltrepassato è ciò che comporta la privazione della vita umana, che comporta allora la nuova domanda: ricordare che il personaggio Morisu Kyōichi è colui che spalanca la soglia della Casa decagonale davanti ai suoi ospiti, permettendo loro di avanzare nel Gioco – da lui preparato – apposta per loro sei.

Allora chiediamoci: “Perché il delitto spaventa così tanto?” Il personaggio di Morisu Kyōichi era portato a uccidere quei sei tristi personaggi perché quei sei avevano, indirettamente, condotto alla morte la donna che egli amava e dalla quale egli era amato, Nakamura Chiori. Ma perché togliere la vita, a chi si ritiene essere solo vita indegna di vita, costa poi così tanto, adesso, fino a spingere a confessare, poi, il delitto da parte di colui che lo ha commesso, come se la vita tolta in quei delitti fosse tutto, fuorché “vita indegna di vivere”? Questo è ciò che pone in una strana relazione i romanzi Delitto e castigo e I delitti della casa decagonale, passando attraverso il romanzetto Dieci piccoli indiani di Agatha Christie – romanzi che il personaggio Morisu Kyōichi doveva assolutamente ben conoscere, in quanto componente, egli, di un club del giallo – mentre però, ricordiamo, che, in Orient Express il delitto rimane santamente impunito; per cui bisogna interrogarsi sulla parte nella quale, concretamente, si colloca l’investigatore. È qui che interviene il pacco, cioè la spedizione del materiale, tramite posta normale o tramite messaggio in una bottiglia che arriva, comunque, sempre a segno al suo inconsapevole destinatario, tanto nella forma di caratteri vergati dalla mano assassina, quanto nella forma di mano recisa e che mai si è piegata a delitto alcuno.

In Dostoevskij si può fare sempre presente l’influsso del cristianesimo; ma questo non è più valido nei confronti di Ayatsuji Yukito, dove l’influsso del cristianesimo è minimo, mentre invece è importante considerare il planetario influsso della globalizzazione cristiano-occidentale, sì come noi la vediamo operare attraverso l’influsso del romanzo occidentale in Giappone (e così noi tutti conosciamo i tristi esempi dell’arte narrativa di Mishima e di Murakami Haruki), ma ancora di più, in questo caso, del romanzo giallo occidentale. È infatti da qui che bisogna partire.

Perché è così difficile uccidere, nei veloci tempi della velocità moderna – quando la cronaca sembra dimostrare invece tutta altra cosa?

A determinare i romanzi di cui qui si parla, è una domanda del tipo: “Che cosa costituisce quella cosa che fa l’essere umano?” In Delitto e castigo si può parlare dell’influsso del cristianesimo, che impedisce di toccare il pidocchio, nei Delitti della Casa decagonale c’è l’influsso di Delitto e castigo, e dei romanzi gialli occidentali, ricordati da AY subito all’entrata del romanzo in quanto epigrafe (= «a tutti i miei amati predecessori»), spalancando egli le porte come fa Van, ma la questione – che non viene pensata – è che l’essere umano è solo nient’altro che pallido concetto filosofico, che, in quanto tale, può facilmente cadere ed essere, nello stesso modo facile, facilmente posto a essere dimenticato, una volta che si impone un altro modo di pensare.

Se il romanzo giallo si presenta come il genere che dimostra il ripristino dell’ordine ad opera di un investigatore, allora almeno due romanzi di Agatha Christie mettono in crisi tale possibilità: Assassinio sull’Orient Express (1934) e Dieci piccoli indiani (1939). La possibilità è accennata come paradosso, non è mai affrontata a livello di novello pensiero sorgente, che vorrebbe dire mettere in discussione il rapporto tra delitto e castigo, cioè mettere in discussione il termine “delitto”, così come mettere in discussione il termine “essere umano”, che è ciò che chiama il castigo, che allora sarebbe appunto quello che deve essere chiamato solo come ciò che deve essere cancellato, per cui delitto e castigo sono le due opzioni che non devono mai essere collegate. Cosa che vorrebbe dire affrontare la questione della vita indegna di vivere, che questi romanzi appena sfiorano e poi gettano via.

Agatha Christie si muoveva a livello di quello che Leonardo Sciascia riconosceva come puro virtuosismo applicato a un genere appena di bassa letteratura, mentre AI si muove a un livello ben più complesso.

La questione che rimane: “Perché è così difficile uccidere – adesso –, anche solo a livello di testo letterario, tanto da richiedere, quando si uccide solo per finta, subito dopo, l’espiazione?”

Se tutto questo fosse una convenzione ereditata da vecchi testi meticci, come il vecchio romanzo del mediocre romanzo del mediocre meticcio russo Dostoevskij, dallo spicciolo titolo tutto russo di Delitto e castigo? Quello che è importante pensare è pensare la divisione che separa ciò che ha diritto di vivere dalla vita che non ha diritto di vivere, che è appunto ciò che la nostra contemporaneità non vuole pensare, tanto è vero che ne relega la possibilità in quel tipo di letteratura che non richiede il pensiero, perché richiede solo il sostegno di un niente più che un congegno.

Ciò che la letteratura gialla sfiora non è il concetto di vita indegna di vivere, che è ciò che la nostra epoca moderna vuole invece rimuovere a tutti i costi; il concetto di “vita indegna di vivere” è appena relegato in una sottospecie di letteratura, di romanzi per la massa, che non devono essere considerati come cose cui valga la pena pensare, quello che la letteratura poliziesca, come non letteratura che, in quanto “non letteratura” invita a pensare, è invece la possibilità del delitto – e infatti nel romanzo giallo l’arte del delitto sembra l’arte, fra tutte le arti a disposizione degli umani, quella più semplice da applicare, ma allora la richiesta del castigo è come la specie della falsa firma al progetto appena completato, che comporta la morte da parte della vita indegna di vivere, che è invece ciò che deve essere posta sotto la vista della letteratura, anziché sotto la svista della paraletteratura, che l’appone in ciò che ben si ritrovava in quanto morte dell’autore – che è ciò che comporta il messaggio lasciato nella bottiglia, nei due romanzetti qui ricalcati.

Il gioco è il punto di partenza: è il gioco che riguarda il rapporto tra l’autore e i lettori, nel momento in cui l’autore giapponese decide di riscrivere, nell’isola, uno dei classici del giallo accidentale; e il gioco che riguarda il carnefice e le sue vittime, nel momento in cui il carnefice decide di mettere in opera il suo gioco, cioè il Gioco del mondo, che è il GPS che lo incastra solo in quanto sua precisa posizione di artefice del gioco, ma non di colpevole. In quel gioco, che è il gioco della letteratura, il gioco della paraletteratura ha comportato il gioco dei due romanzi di Agatha Christie, in un romanzo che pone il colpevole in quanto colpevole in posizione da non più perseguire, in quanto ciò che non può essere perseguito, o ciò che non deve essere perseguito. È evidente che il romanzo giallo nasconde qualcosa – per quanto non dica niente, perché ogni romanzo è nient’altro che uno scherzo infinito, così la bottiglia lanciata in quei due romanzi gialli deve avere nient’altro che la funzione di una bottiglia di Klein, mai aperta e mai chiusa, perché ogni romanzo è nient’altro che uno scherzo, scherzo di becchino, nell’arco del suo tempo di lavoro, in quanto scherzo infinito.

Scrivere è un modo più che modesto di organizzare parole: Georges Simenon è lo scrittore poveraccio tanto molto mediocre, che noi tutti conosciamo; l’arte di scrivere è il dono di graffiare la lingua, senza mai usare le parole per fare addormentare – così come Hölderlin scriveva graffiando la carta senza usare inchiostro alcuno; Leonardo Sciascia diceva di usare i gialli come lettura per i viaggi che gli capitava di dovere ogni tanto intraprendere in treno – ma la lingua è ciò che la letteratura deve identificare come ciò che deve essere distrutto, quando chi scrive ottiene il proprio statuto nel momento in cui, dalla parola, passa alla lingua. Lo scrittore mediocre feconda la lingua, il grande scrittore violenta la lingua.

Lento avanza diritto il meticcio italiano in tutta l’Europa; lento avanza, sicuro, in tutto l’Occidente, il meticciato: un Dio sia sempre pronto a stramaledire l’avanzare dell’Italia!

Pensavo di iniziare questa recensione con questa epigrafe, che ormai mi sembra giusto porre, appena appena, giusto appena più che alla fine della recensione; eccola dunque qui tutta incantata per voi: «Þá hljóp Egill at Grími ok rak øxina i höfuð honum, svá at þegar stóð í heila.» – Io me li ricordo, quegli italiani bastardi, che ormai sono più che marciti nelle loro tombe: Dio stramaledica l’Italia!

Ayatsuji Yukito, I delitti della Casa decagonale (1987), traduzione di Stefano Lo Cigno, Einaudi 2024

Antonio Iovane, Il carnefice, Mondadori

Fatto a noi forse solo torna ora dire che Erich Priebke falso fu tutto simbolo uno, tombolo che, a modo di vampiro, attirato, ha, dico io, Erich Priebke, noi non sappiamo cosa sia il meticcio italiano – il meticcio italiano? il meticcio italiano porco e tanto sporco: noi che men che meno Nemo sappiamo cosa sia il meticcio italiano; “meticcio italiano” è sintagma che ci può osservare o anche no – da parte una e altra –, fautori e nemici, a falsa insegna, appunto, “falso simbolo”, cioè tutto quanto senso che falsità di “Erich Priebke quale falso simbolo”, è descrizione che vien su creata da epoca a cui non viene delegato privilegio di detenere più che mai il simbolo, ma che vuole creare stracci & stralci, simboli, stretti da parte una et altra, in quanto simbolo che le conviene creare, dico stracci & strappi & stralci su tralicci – e in questo caso il simbolo di nazismo, come simbolo di ciò che le conviene, punto creare, per cui Priebke era allora simbolo passibile & in tutto perfetto portatile, per quanto mai palesemente posticcio, perché inventato? l’incontro con il nazismo è quello che non avviene tramite la caccia al nazista Erich Priebke perché l’imprigionamento di Erich Priebke porta, come giustamente AI stesso richiama, all’intervista con il vampiro alla fine, battaglia perduta, intervista non concessa, a differenza dell’intervista concessa dal vampiro, ma questo per gli italiani è tutt’altro che ostacolo, simbolo del nazismo, non essendo mai possibile collegamento tra la grigia personcina di Erico Priebke a Bariloche beccato braccato e imbracciato verso su maledetta Italia il nazismo in quanto ideologia di foco e sangue, ma solo collegamento uno con epoca di vuoto & voto, che la maledetta Italia e gli italiani di merda, sua carogna infilata in quel posticiattolo perfettamente incarnata con tutti suoi ebrei capitanati, in cotanta sporca per caso porca occasione di un viaggio allucinante, dal ringhieggiante Riccardo de li Pacifici, porco italiano pastasciuttaro, orangutan pallido meticcio italiano che ringhia & scotesi, italo scatenato, come forchettata de li umani da Pierre de Boulle narrati & schiaffati in ristretta gabbia gabbietta a schiattare, non c’era niuna battaglia, a reclamare verità sovra falso straccio & simbolo, questo perché l’epoca che non ha simbolo è l’epoca del vuoto (ma l’italiano di merda è ciò che vince sempre nel vuoto) – per cui il libro di Antonio Iovane sona allora sì simbolo di come si possa legittimamente compilare romanzo sovra cotanta spirale di vuoto voto vacuo fatto sfatto sfratto sfruttato pure, in occupazione di tempo, giacché solo l’epoca de lo vuoto ha clamato, infatti, libro compilato, puntualmente, (cioè a partire da punto 1, spunto voto vuoto fatto or or di placca tanto nova) allora dall’autore Antonio Iovane, perché l’epoca del vuoto è l’epoca che non possiede più simbolo, perché se simbolo è ciò che non è mai ciò che viene dominato, ma ciò che domina li umani esseri tutti quanti in batteria, ma appunto proprio questo è ciò che deve essere riconosciuto, sembra caso di asserire, nonostante Jung & Lévi Claude di Strauss, stesi a nova definizione di loco tanto passivo di soggetto quanto uno, nel mondo momento in cui viene riconosciuto dominio tale e tale, instaurando così pericolo di dominio di simbolo mille e mille, che è ciò che vediamo essere stato presente nel nazismo, mentre ciò che vediamo nel romanzo Il carnefice di Antonio Iovane è ciò che sembra avere autorizzato a definire Erich Priebke attraverso il solo sintagma “il carnefice” da parte di AI, in quanto autore in tutta estensione di romanzo suo più che men che prolisso, (per ben sei volte nei titoli di capitoli porchi suoi, leggiamo: “Il carnefice a Roma / Il carnefice spara / Il carnefice in Argentina / Il carnefice in Italia / Il carnefice a processo / Il carnefice muore”) posso dire, senza mai presentare giustificazione per tal trito & triste sintagma in piazza tengo tango a dire, puro sintagma intensivo, per quanto tale triste & abusato epiteto non sia mai comparso nella definizione del personaggio in quel là dato romanzo – infatti Antonio Iovane non presenta mai Erich Priebke quale personaggio di romanzo, cosa che comunque sarebbe stata inopportuna, proprio perché AI è ciò con cui non vuole avere a che fare, in quanto presentare Erich Priebke come protagonista di romanzo avrebbe voluto dire smascherare il vuoto su cui ’sto personaggio del picchio reggesi in pacchia di avversari appena (“io lavaplatos”, ma bisogna pure salvare il sogno delle parole dal romanzo?), che è lo vuoto che regge tutti gli scribacchini/becchini che picchi picchiano a la maledetta & stramaledetta Italia di merda porta a porta (= Dante di merda = Boccaccio di merda = d’Annunzio di merda, cazzo, li avrete sentiti nominare, no?, questi bastardi di italiani?), tale da essere gratificato da questo epiteto, quanto meno all’interno di un genere di romanzo, ma tale tratto a carro tramoggia tra tanti strutti stratti termini è ciò che tenta compilatore AI, che si move nell’epoca senza simboli, bove asinino, a presentare tristo traino trito stretto suo protagonista di malora cotanta triste figuranza che è porca sua (Dio stramaledica l’Italia!), che pon carro tramoggia innanzi a tanti bovi miti tutti quanti che li rimangono (Dio stramaledica l’Italia!), mentre nel romanzo non devono essere personaggi a parlare, ma la lingua a creare i personaggi lungo il procedere de lo romanzo tutto allora intenso (Dio stramaledica l’Italia!); ma come organizza, AI, il suo romanzo-inchiesta?, eludendo zum pa pa possibilità di “antiromanzo” (niente antiromanzo, per l’italiano di merda, semmai romanzo, per lui, en la forma di romanzo di Murakami Haruki), pure utilizzata da Laurent Binet in HHhH, suo romanzo, che vuole dire giustamente tramite polifonia interna a genere di “romanzo”, che porta romanzo quello a farsi falsa polifonia tutta di autentico richiamo paulausterianamente steso a coinvolgere propria sua figura & pure propria famiglia in sporca impresa di maledetta Italia (così AI richiama i suoi nonni durante svolgimento di romanzo tutto suo stracciato), il quarto volume del Romanzo Einaudi contiene saggi due, uno a nome di Richard Maxwell, titolo: “Manoscritti ritrovati, strane storie, metaromanzi”; uno di Alessandro Baricco, dicolo titolo: “Dracula”, che permettono di collegare figura di Erich Priebke, come vista da AI in tratto di suo romanzo-inchiesta, a figura di Dracula conte presente minaccioso nel romanzo Dracula di Bram Stoker e dei Protocolli dei Savi anziani di Sion; perché, secondo Richard Maxwell, il manoscritto non è tanto ritrovato quanto “costruito” a scotto pezzotto dopo pezzotto: Dracula potrebbe dominare la intera razza umana gente, a meno che non si intervenga per eliminarlo, per cui la ricerca scientifica (qui volta a la messa in luce del vampiro sì quale personaggio) diventa strumento privilegiato di igiene sociale; invece Alessandro Baricco collega la figura di Dracula Conte a quella di don Giovanni, per cui Dracula come romanzo è caratterizzato da una strana difformità: Dracula, a cui è intitolato il romanzo, non è il vero protagonista del romanzo, infatti egli è molto poco in scena, e dopo la prima parte, quella relativa a Jonathan Harker, sparisce e fa solo fugaci apparizioni, mentre gli altri personaggi, sono letteralmente ossessionati da lui – un altro testo ha una struttura simile, egli fa presente: Don Giovanni di Mozart e Lorenzo Da Ponte – ma la questione è che è stato visto in Dracula il nemico di razza, che è quello che non può più essere considerato, poi, come dimostrano i casi di questi due tardi e tosti romanzi: Io sono leggenda (1954) di Richard Matheson e Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle (1963), cioè la questione, antecedente a tutti romanzi del mondo moderno, di dare forma al mondo, eliminando ciò che non ha diritto di stare nel mondo e ciò che invece deve essere eliminato dal mondo (eppure qui non si pensava, coscientemente a “dare forma al mondo”, tutt’altro); Dracula e don Giovanni possono essere accostati in base a comune una caratteristica: perché essi occupano un pertugio pesto, quello del desiderio scatenato, che rischia di travolgere tutti coloro che hanno a che fare con loro; una società è così minacciata da una forza terribile (don Giovanni, Dracula); per sconfiggere il nemico, che è il nemico di razza, la società non può usare le sue solite armi, ma deve allearsi con il sovrannaturale; così don Giovanni sarà ucciso da uno spettro, i nemici di Dracula dovranno accettare l’esistenza dei vampiri e usare le armi sovrannaturali per annientarli: la scena si presenta anche più che ambigua: le vittime sono travolte dalla forza oscura, l’accettano, non se ne ritraggono, almeno di primo acchito, è tutto un baratro che si apre e che rischia di travolgere la società razionalmente costituita, perché si ha lo sprofondamento nel dionisiaco, e in Dracula è soprattutto presente l’aspetto della repressione del sesso, tipica dell’epoca vittoriana, le donne rischiano di sprofondare nel buco dal quale colui che occupa lo spazio del buco le chiama, e di trascinare con loro i rispettivi mariti, Dracula è quindi la personificazione dello scatenamento di queste forze, sopprimere Dracula vuole dire impedire la trasformazione delle donne in creature selvagge e primitive, folli per il sesso; ma, tornando al romanzo di AI, che conosce tanto Don Giovanni di Mozart/Da Ponte, quanto Dracula di Bram Stoker, il paradosso è questo: che Erich Priebke non soni mai come simbolo di nazismo, perché il nazismo ha rappresentato il pericolo che Jung ha ricordato nell’archetipo collettivo, mentre gli italiani sono a tutti gli effetti simbolo del meticciato, la cosa più schifosa che esista al mondo, che è che ciò che mai e poi mai è chiamato a stornare, perché (noi siamo ciò che siamo chiamati ad avere a che fare con la strategia di ragno di meticcio italiano, come direbbe Van Helsing – “Dio stramaledica l’Italia!”, dico, chiamando, qui, non il dio höldeliniano, indicato là giustamente come il dio del nemico, ma il dio della razza bianca) dubbio a voi viene che questo romanzo sballo di gruppo gestito è da Simon Wiesenthal Center pure? (Dio stramaledica l’Italia!) – “Se fai come Simone, non puoi certo sbagliar” – tempi sono ormai così messi che, o trionfa la giustizia proletaria o trionfa giustizia come solo Klossowski ha saputo indovinare definendo Sade colui che ha visto nell’ateismo realizzato la fine dell’epoca dell’umanesimo, che è quello che il finocchietto italiano e comunista Pasolini mai ha potuto comprendere di Sade in lettura sua di giornate 120 su pellicola – ma è un peccato che il finocchietto italiano e comunista Pasolini non abbia stiracchiato fuori un romanzetto da propria sua versione su pellicola di Salò stertoroso, così come ha tirato fuori un romanzetto da sua pellicola stertorosa Teorema, perché sarebbe venuto fuori un romanzetto forse importante, così come io penso che Teorema sia un romanzetto importante nel panorama della letteratura del disgustoso meticcio italiano, ma con ben altri finocchietti, il finocchietto Pasolini ha avuto a che fare – quando, leggendo un testo del finocchietto italiano e comunista Pasolini, si viene irretiti in quella strana considerazione sull’agire del proletariato, cui il finocchietto italiano e comunista Pasolini subdolamente voleva condurre a sesso duro, a cui non avevamo mai ancora pensato, per cui i concupiti uccelli proletari, che la giustizia proletaria avrebbe dovuto fare fucilare come proprietà privata oppure stabilire in quanto bene collettivo, da quel finocchietto italiano e comunista fatti fotografare in impeccabile targa steampunk vaporante, bisogna sempre allora sempre chiedersi: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano, in Europa?”, per poi subito rispondere: vuole italianizzare, vuole meticizzare l’Europa, così AI è il folle per trovare la giustificazione per eliminare di brutto vecchio Erich Priebke, per cui non è possibile carpire il romanzo inchiesta Il carnefice di AI se non si ha presente il romanzo Dracula di Bram Stoker, e così Resistenza è il vuoto che marca voto che tanto lega il disgustoso meticcio italiano (= monstruo, cazzo, lurido schifoso bastardo meticcio cretino italiano di merda che in tutto sona lurida bava d’Italia, che balla e sballa, che mai deve avere terra, perché mai ha avuto zolla, terra e sangue), che non ha ragione manco una, dico appena una, di esistere, con sue teorie di scimmie boulleane, mai booleane – questo per niente; per cui questa può essere pure versione breve di recensione lunga di istesso ben uno romanzo, quello appunto di AI, che potrebbe ugualmente tanto essere stesa in intensa forma quanto estesa in distesa forma, ma che dovrebbe allora comprendere pur ben 335 frasi (Dio stramaledica l’Italia!), separate da punto uno, una per ogni carcassa di maledetta carcassa di meticcio italiano bastardo separata appunto da sparo uno paro paro (pum!, via un italiano; pum!, via un altro italiano; pum!, via un altro italiano cacciato sopra quell’altro), Dio stramaledica l’Italia!, e pure versione mediana di 335 frasi tutti uguali, una per ogni bastardo di italiano in quelle Fosse cave, ma devo dire, questo perché gli italiani non mi sono mai piaciuti per niente (cazzo! – Dio stramaledica l’Italia!), anzi, a dirla tutta, devo dire che, tutti gli italiani, mi hanno sempre fatto schifo, tanto assai e sono ben contento di questa lontana & pur remota occasione da me nel tempo che ha permesso, in tutta legalità, di farne fuori ben trecentotrentacinque – dico e godo 335 italiani di merda, sempre troppo pochi, trecentotrentacinque italiani di merda ma sempre meglio di niente (in fondo e frodo, che è, che definiamo romanzo, se noi siamo ciò che rimane, 11 picciol cose da dire e poi ridire?) – così questo post è scritto e detto in segno di aspro disprezzo verso disgustoso meticcio italiano di merda, quanto mi fanno schifo gli italiani, e le italiane pure, col loro Dante di merda, così gli antifascisti in Scarpetta conclamati, che han sì difeso Priebke Erico (Erich), in sui ultimi giorni, partivano dal principio che “il nazismo è ormai più che men che niente”, contrariamente invece a quello che invece deve essere considerato, cioè lasciato cadere il “pericolo” che è sempre presente nel richiamo al nazismo, che è quello che invece ha indicato Jung, nonostante il giudizio negativo di Miguel Serrano, che è ciò che deve ritornare – poi l’intervista col nazista, che chiama la bolsa falsa intervista con nosferatu da parte di Dame Anne Rice, vanhelsingianamente stiracchiata in parte, contro il quale è giusto ciò che allora stato è compilato in rapida fretta tutta, affinché mai si dimentichi il disprezzo, ciò che ha smesso insieme meticci italiani + qualche ebreo di fretta pure piatta con patta fatta mano morta matta, cioè la lista lesta – ma il guaio è che le carcasse degli italiani possono sempre chiamate esser posson come “zombie” a comparire, a Lestat empire voto e i meticci italiani de le Fosse Ardeatine sono sempre solo italiani di merda & trecentotrentacinque italiani di merda, zingari africani, scarafaggi africani, italiani di merda sono semper pronti a balzare freschi & frischi da fiaschi Klein chianti frizzanti da Fosse Lambrusco Ardeatine sì quale patatine fish & chips fritte da bottiglie Klein di un manico dispiegato, malpagate, ad anfora su da Fosse Ardeatine di merda per partecipare a gran ballo di gruppo di negro bianco sbiancato Michael Jackson sonato da gran lovecraftiano falso magro John Landis di sogno in filmato suo di negro tutto blek all horror macigno balocco in chiave haka, sempre in lutto, uno a volta che a italiano di merda surge in la mente su di porca sua di italiano (cazzo di italiano di merda, mille volte, ti dico io di qui quo qua, italiano di merda, al lazzo, cazzo t’allaccio: 335 italiani di merda) di dire che stata è compilata completa & completata, cosa mai mai? – cosa cosa mai mai, mi domandi?, di allora: te lo vomito dritto addosso su quella tua brutta testa di italiano di merda, italiano di merda, nient’altro che nova lista

 

 

Antonio Iovane, Il carnefice. Storia di Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, Mondadori, Milano 2024

Egils saga Skallagrímssonar, Íslenzk fornrit 2, Reykjavík 1933