La frase è ciò che chi è chiamato a scrivere compone per indicare come le cose del mondo siano chiamate, in quel dato momento in cui si scrive, a determinare come le cose del mondo stiano insieme: «Voi lo sapete che esiste una teoria secondo la quale alla fine dei conti l’assassina di tutti gli omicidi che Jessica [Fletcher] si trova a risolvere in realtà è proprio lei? Effettivamente, dove va lei muore sempre qualcuno: o è un uccellaccio del malaugurio, oppure forse è proprio lei che uccide tutti e poi imbastisce delle storie per incastrare dei poveri malcapitati.» (p. 153); come a dire: le due possibilità hanno pondo stesso lungo storia (-la) – se penso (io) a ciò che riguarda “imbastire delle storie”, oppure essere “un uccellaccio del malaugurio”, perché questo è ciò che chiama tanto chi scrive quanto chi legge alla collina della legge, se mai qui può esserci cosa come quella là, – ma questo non ci deve allontanare dalla questione, che è ciò che tocca la fine della narrazione, che è appunto quello che incastra i tanti malcapitati giunti da prima, cioè chi ha avuto il compito di narrare, quanto ai tanti cui è capitato il compito di leggere, cioè chi si è infiltrato dopo, avendo avuto solo compito di ascoltare – infatti, ciò che il libro deve incastrare non è altro che chi legge, dico “chi legge” quale ingarbugliato punto che può essere precipitato solo come spunto, appunto perché l’arte di scrivere chiama l’arte di leggere – cosa che non ha nulla a che vedere con quanto da Brecht (Bertoldo, tutte ormai olive acide sue) borbottato appena a tempo di quello che su gambette storte sue reggevasi appena, ma ci troviamo in epoca in cui solo non l’Autore, ma anche il Lettore è stato bello rinvenuto stecchito sbiancato morto come in episodio di JBF (la Serie = La Signora in Giallo), e qualcosa come l’entità Jessica Fletcher, come nel romanzetto che vede Jory folle alto sprillare da fumetto di un appena cazzettin bello bello Jory lo Qualunque, Costa Ovest, sembra avere fatto fuori tutti, appunto per incastrare chi già era stato segnalato come bello stecchito nel suo mondo piano pianino per lui preparato – questo perché il libro non ha niente a che fare con chi è chiamato a leggere, sono appunto due cose del tutto (per quanto l’arte di leggere chiama l’arte di scrivere). Nei fatti ciò che si mette a nudo è il meticciato, che nelle città d’Europa equivale all’Islām tratto via a culo nudo di forza. Gli scrittori sono sempre riducibili ad una forma, Simenon ha inventato un modo tutto ovattato di scrivere, che è ciò che comporta l’atmosfera tanto ricordata da Sciascia come metodo di indagine del commissario Maigret, che però è ciò che, nelle città d’Occidente, pone l’Islām a sfacciato culo nudo in faccia – che per Simenon è il mondo ovattato della nebbia come atmosfera. Questo quando, appunto, punto dopo punto per assai comodo vicolo di ricircolazione porta ci porta spalla a sporta fine di teoria de la narrazione, ancora riproposta di recente da Byung-chul Han via Benjamin (Walter) – che sembra giungere a noi a lo istesso paradosso riguardo a quanto guarda il detto di un istretto narratore di Benjamin suddetto, cazzi tutti belli bardi suoi hai qui tanto caro a stecca: chi narra fa sempre violenza a ciò che narra, come dimostra Emmanuel Carrère nel saggio suo, sostengo, dall’omicida testo di titolo ristretto costretto a testa: Ucronia. Ogni racconto che salta giallo grillo gallo grullo su collo di chissà chi deve fare in modo di scrivere il giallo grillo gallo grullo in cui l’assassino è chi legge di tutto punto di suo mai noto – cioè del tutto ignaro di quello che si è posto appena a leggere, di ciò che sta facendo (partiam da qui, se ti va) – ma perché, ad un certo punto, tanto vorrei sapere, a quel bastardo di italiano è sprizzata tutta l’autodistruttiva voglia di leggere, a scapito suo, che porta al gioco del mondo? Infatti: che ci fa, questo bastardo di italiano, in Europa? È quello l’assassino pampano (rayuela d’opra manca), cioè ciò di cui il testo parla, ma non mette in inciampo suo alcunché di alcuno. Cazzo, lo avete tutto ciullo lì, no, ove lo sentite? Ma ciò che si oppone alla narrazione è ciò che comprende le serie televisive ed il cinema, che pure tanto pesantemente derivano da quel del teatro, dico male? Il problema di tutte le cose del mondo da descrivere è quello che ha dato origine al romanzo, men che mai ginger giallo, titolo: Infinite Jest, dipendente dalla narrativa postmoderna fin che vuoi in un picciol mio di generino bello in pelle: ogni enciclopedia parte sempre da un principio suo democratico, vale a dire dal giuoco dell’oca (orca porca); sì, però scrittore non è colui che usa le parole, ma che dalle parole compie il salto alla lingua di suo – di cima in cima in clima –, che fa allora, del tesoro, il tesoro della razza, che è ciò che lo scrittore porta di volta in volta a trafugar cosa picciola qualunque come la piccola coppa coppetta ciospa cignosa cosa di cui tratta il Beowulf. Cosa vuole, quel bastardo di italiano, in Europa? Tanto vale vedere la barcaccia tutta in un boccone da svendicchiare e poi (fine) far fagotto – presto adesso. Ti dico: erano cose che meritavano di fare quella là di fine – se identifichiamo un testo come cosa che, catturata, movesi dentro appena a sacco stretto, che strada si fa – allora la questione che il romanzo tutta deve sciogliere è: “a chi spetta il diritto di vivere?”, questa è la questione che riguarda ciò che il romanzo deve affrontare, da Lely a Chapoutot, passion passant selon Sade (mai ci crederai: vedo sempre più vicino quel bastardo di italiano, io), la poesia sulle rovine del castello, perché le rovine sono ciò che devono chiamare a la nova sora bat-ta-glia. Che è la battaglia della razza bianca contro il meticciato, che è ciò che riguarda l’abitare la terra, cioè la razza che ha diritto, alla fine, di abitare la terra. O il romanzo affronta la questione fondamentale della lingua, o favoletta che allora permane in ciò che riguarda parole e procedere solo tramite GPS in un ambiente di cui dea menoma idea alcuna esso ha – dico quindi bene alfine? Questo è ciò che porta la fine del romanzo, che non è ciò che comporta la scomparsa del romanzo a tutti effetti e cazzi duri pure tutti quanti suoi. Abbiamo infatti a che fare con marea di nuovo materiale: la marea del nuovo materiale di ciò che si oppone alla narrazione è la figura di ciò che traccia narrazione (la nuova). Chi è chiamato ad abitare la terra come razza che – allora – è la razza che abita la terra. La forma di narrazione di Dieci cose che ho imparato da Jessica Fletcher di Alice Guerra, che da tante cose pesca & intriga pur con punta di dialettale sprescia di matrioska anzichenò, fuorché dalla letteratura, mostra che c’è qualcosa di meglio della narrativa di Rachel Cusk, ed era ora di uscire da ’sta palude! salta ’sto romanzo due pietre d’inciampo, Rachel Cusk & Valerio Evangelisti (che peggiore è tra tutti). Gli elementi del romanzo ci sono tutti, ma, per fortuna, quello che si legge non è un romanzo. La serie televisiva La Signora in Giallo è una serie di racconti, a tutti effetti (gli), mentre Dieci cose è romanzo meno che mai, ma indica il modo fino ad allora fraudolentemente utilizzato da quella degenerazione del racconto che è il modo di procedere delle serie televisive o anche dei singoli bestseller. Il problema non sta nel personaggio della Signora in Giallo, ma nelle serie televisive, di cui anche quel personaggio parte fa sua bella quanto sonora clangolante tanto piccola propria parte; quindi non trame, ma configurazioni, che è ciò che costituisce la lingua italiana come “la lingua italiana” che è la cosa di cui qui si sta parlando, cioè l’alingua italiana. Se l’arte della narrazione è finita, bisogna pensare allora il nuovo modo di muoversi in ciò che ha costituito la fine de la narrazione. Ti rispondo: “Il meticcio italiano è la matassa Odradek che nessuno vuole trovarsi tra i piedi.” Che è ciò che ancora l’arte del bestseller dimostra di non avere chiaro ancora claro tutto quanto chiaro scracco di scarco gusto suo modo ora. Gli elementi del romanzo ci sono tutti, ma, per fortuna, quello che si legge non è un romanzo. Nella serie La Signora in Giallo tutto converge verso il personaggio di Jessica Fletcher, che deve risolvere il mistero. Richiamando, all’interno di un romanzo, quella stessa serie, due sono le possibilità: o ricostruire novella cosa che richiama ciò che non ha fatto altro che richiamare serie quella (dico -la “là”), oppure ricostruire novella cosa che non richiama più ciò che la serie imporrebbe di suo di richiamare allora (porre a richiamo), a livello di romanzo ma che indica novella cosa giusto come novella lingua. Il problema è l’arte della finzione. Rimane la funzione della chiacchiera, che darebbe vita ad un leggero “romanzo chiacchiera”, qui fortunosamente evitato – che può essere come piacere di una costruzione, o come punto in una serie in quanto costellazione di puri punti spunti spersi sparsi tutti quanti. Nel primo caso si arriva ad una parodia del romanzo, nel secondo dei casi ad una evocazione, anche ad un “giallo (più o meno)”, che sottintende *(quasi) romanzo, che poi può essere giallo oppure anche no, o anche (più o meno) altrimenti giallo, cioè, come indica il sottotitolo, (più o meno) romanzo. Il discorso sulle serie televisive merita un tipo diverso di romanzo, che può essere indicato come “romanzo”, indicato nel sottotitolo; così come il discorso sul romanzo che prende in esame le serie televisive merita un discorso diverso. Compito della letteratura è passare dalla parola alla lingua: come scherzo altro è che solo scherzo, così un bastardo di italiano è solo un bastardo di italiano, cioè nient’altro che scherzo uno nel mondo bruto, in cui c’è ancora quel bastardo italiano, lì – quella macchia che ti indico lì – in ciò che è la terra della razza, perché costituisce lo scherzo su cui si basa la macchia romanzo, la macchia che la forma, che ancora non conosciamo, deve cancellare; il rispetto delle parole porta alla lingua della maldicenza, che è ciò che porta a lo scherzo infinite di DFW, che è ciò che viene da lontano, così come a questa terra della sera giunta è da lontano ciò che richiama la forma, a noi, “teatro”, che è ciò che inquina il romanzo che ha condotto a le pedanti serie televisive che poi hanno inquinato il romanzo – ma questa, appunto, è tutta altra severa storia men che mai una; già, almeno finché il romanzo non prenderà la parola come genere in grado di dare parola (-la) a ciò che può dare la parola a ciò che si pone come ciò che può dare forma al mondo, quindi in quanto forma in grado di parlare de la razza, perché – sia chiaro – non ho niente contro gli italiani, però ciò che è italiano è ciò che che mi ha da sempre illuminato di schifo immenso, a partire da Dante (il primo islamista della storia), che sarà allora ciò che aprirà la porta alla lingua della razza, infatti leggere è ciò che porta, chi legge, dalle parole che conosce alla lingua che meno che mai conosce, – ma il meticciato è ciò che deve essere soppresso, proprio in quanto solo terra dove andare, cioè vita indegna di vivere, che è ciò che, per la modernità, è ciò che non vuole più vedere, per questo si stenta ad avere un romanzo della piena modernità – in cui questi bastardi di italiani devono prendersi il loro Dante di merda e il loro Boccaccio di merda e tornarsene in Africa, quando l’Africa è ciò che deve essere restituita a ciò che sta sotto l’acqua e mai parlarne più, come a sigla di tipo: “Chi mai era, quel bastardo di italiano?”.
Alice Guerra, Dieci cose che ho imparato da Jessica Fletcher. Un giallo (più o meno). Un mistero. Due indagini. Tre musi da can, Rizzoli, Milano 2024