Michael Punke, Il crinale – Recensione

Fantasia quasi una Recensione

 

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Considerando la possibilità che abbiamo di partire dal romanzo storico sviluppatosi in terra d’Europa, forse nient’altro quanto le guerre indiane, combattute in territorio d’America, dimostrano come, per ciò che riguarda la necessità di considerare le fonti a favore di una risalita all’origine, l’America sia qualcosa di europeo – e quanto allora il romanzo storico Il crinale (2021) dello scrittore americano Michael Punk, sia qualcosa riguardante il tema europeo dell’origine e del romanzo storico, per quanto un romanzo riguardante il tema dell’origine non implichi qualcosa riguardante l’origine quanto il richiamo a qualcosa che l’Europa deve portare a conclusione, in quanto cosa che ha avuto origine in Europa.

Questo almeno a livello di ciò con cui il pensiero è stato chiamato a fare i conti: da configurare come obbligo alla sopportazione della degenerazione e del meticciato, di ciò che si può identificare come “meticcio” nei confronti con ciò che si presenta come altro; infatti la storia è proprio quella pezza in cui la razza bianca è stata invischiata quando “storia” è il pezzo identificato come ciò che sembra mancare all’America. Cosa distingue allora il meticciato? L’onda che dalla terra coinvolge coloro che, in un certo periodo di tempo, hanno l’occasione di stare in quella terra, in quanto ciò che abita quella terra, o in quanto ciò che occupa o scorre quella terra.

Così viene in mente quello che Michel Houellebecq ha scritto a proposito di Lovecraft: «Lovecraft risale qui a una fonte fantastica molto antica: il Male come prodotto di un’unione carnale contronatura. Idea che si integra perfettamente al suo razzismo ossessivo: come per tutti i razzisti, per lui l’abominio è nel meticciato più che in qualsiasi altra razza.» (p. 63); per questo in Lovecraft lo sguardo sul meticciato è ciò che porta allo sguardo all’indietro, che è ciò che porta alla consapevolezza della propria origine meticcia; ma ciò che porta a guardare indietro è ciò che rivela l’origine meticcia da parte di colui che aveva relegato il meticciato nel recinto di uno sguardo, mentre il meticciato sembra qui determinarsi come la biforcazione che si apre per coloro che sono chiamati ad avere a che fare con la terra, la cosa che pone il dilemma della storia come ciò che può essere considerata attraverso la polifonia dell’insieme dei punti di vista – è cioè la grammatica del senso della possibilità che sta a fianco del senso di realtà. I due esploratori che si incontrano durante la lettura del Crinale, Jim Bridger e James Beckwourth, avevano preso moglie all’interno di tribù indiane.

Miguel Serrano non indica un modo di agire da parte di coloro che abitano la terra, quanto un modo di rispondere da parte della terra su coloro che abitano la terra oppure si trovano ad occuparla: «La terra è un essere vivo, animato; ogni zona ha il suo proprio magnetismo e le sue proprie vibrazioni, attraverso cui essa agisce sugli esseri che l’abitano, modificandoli, trasformandoli.» (p. 85). Da qui il significato dell’abitare, per cui è possibile parlare dei monumenti megalitici come di un sistema di agopuntura della terra; e Lovecraft presenta un modo di rispondere della terra su coloro che la occupano, in quanto banda di degenerati o in quanto forme isolate di ciò che in vari punti può abitare la terra. Sono modi di agire che si trovano perfettamente sintetizzati da Renzo Giorgetti: «Ma, se sono i popoli a dare vita alle patrie, non è detto che queste ultime nascano per caso o in qualunque luogo della Terra. Ogni luogo a sua volta forma i suoi abitanti e in una certa misura li sceglie, rendendo più agevole o difficile la sopravvivenza su di esso, ponendosi essa stessa in risonanza con determinati tipi umani, piuttosto che altri.» (p. 212).

Nello stesso modo la guerra può essere vista come guerra realistica, cioè come cronaca di battaglie che si sono svolte in un arco di tempo che pone esseri umani da una parte all’altra di un fronte; oppure come guerra mitica che pone esseri divini contro esseri demoniaci.

Come tante altre guerre, le guerre indiane possono essere viste come una forma completamente rovesciata della Battaglia di Arminio, se considerate dal punto di vista del mito: l’esercito invasore può non essere l’esercito di meticci posto in piedi da Roma per invadere la Germania; la comunità aggredita può non essere un popolo di razza bianca; la terra può non essere la terra che è stata presa, – ma il tratto costante di queste guerre è la presenza del meticciato; ora confitto in un punto della terra quale ago, ora in un altro come punto in una serie, ma il meticciato è sempre quella cosa che deve essere distrutto, sia l’esercito di Roma o siano le bande urlanti dei nativi americani. Non può esserci terra dove c’è la presenza del meticciato, perché il meticcio è ciò che sporca, annulla, violenta la terra. Questo perché la violenza del meticcio sulla terra è ciò che comporta la manifestazione della sua stessa forma sulla terra.

La tecnica delle due battaglie è la stessa: nel Crinale, su consiglio del meticcio indiano Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo studia con attenzione il nemico dall’alto di un crinale, come prima di lui aveva fatto Arminio di propria scelta, nel tempo in cui era stato portato a Roma, in modo da trovare il punto debole del nemico – e poter sferrare, in quel punto stabilito come serie matematica di punti lungo un territorio, l’attacco decisivo. Entrambi, cioè il guerriero di razza bianca Arminio e il meticcio indiano Cavallo Pazzo, sanno di dover affrontare un esercito nemico gigantesco, disponendo di forze minime. Cavallo Pazzo avrà dalla sua la pura quantità, la pesantezza di duemila meticci indiani che potevano facilmente opporsi a un centinaio di soldati di razza bianca; Arminio/Hermaðr, l’uomo della schiera, la sola pesantezza del mito che giunge fino alla possibilità di queste note.

Perché, nel 2021, si è avvertita la necessità di costruire un romanzo che porta a celebrare la vittoria del nemico di razza in una battaglia avvenuta in America nel 1866? Nel tempo in cui non si vedono più le razze, non si ha più occhio per ciò che si vedeva appena a stento allora, prima di quel punto. È un fatto che la vittoria indiana sia offuscata dallo sguardo storico che l’autore applica nella composizione del romanzo, che si evince dalla malinconica certezza che i suoi indiani hanno in quanto cosa destinata a perdere la guerra; e dalla consapevolezza che quella terra non sarà mai più la terra che quelle cose avevano conosciuto come “terra”; ma la vittoria dei bianchi è qualcosa che, a malapena, riguarda la consapevolezza della razza bianca – eppure proprio questa malinconica consapevolezza è ciò che viene presentata come consapevolezza della razza bianca.

Questo mentre gli indiani sono proprio quella cosa che non pensa; così il romanzo Il crinale regala, con un perfetto gioco di prestigio, offerto dalla formula del “romanzo storico”, agli indiani la facoltà di abbozzare l’atto di pensare – che sarà allora il non pensiero della razza bianca.

Questo regalo che suona come bluff è ciò che mostra la debolezza del pensiero che sta alla base del romanzo storico, che riguarda entrambe le parti in lotta. L’indiano acquisisce un pensiero che non aveva mai avuto; la persona di razza bianca è piegata a pensare quello che potrebbe avere pensato il meticciato – se quella cosa che è il meticciato fosse stato appena luogo di un pensiero (pensiero che sarebbe stato comunque, come questo romanzo storico dimostra, il pensiero della razza bianca).

La vittoria indiana è offuscata, da parte del meticciato indiano, dalla malinconica certezza che gli indiani sono la cosa destinata a perdere miseramente la guerra – e a scomparire dalla terra d’America, che comunque non è mai stata la loro terra; e dalla consapevolezza che, anche dopo quella vittoria, quella terra non sarà mai più la terra che quell’insieme di cose aveva permesso di conoscere; ma la vittoria dei bianchi è qualcosa che, a malapena, riguarda la consapevolezza della razza bianca. La vittoria dei bianchi è infatti ciò che manterrà in vita il meticciato indiano e darà la possibilità al meticciato indiano di invadere il pensiero della razza bianca; così come solo un’appendice meticcia della razza bianca aveva invaso la terra occupata allora dal meticciato indiano.

Partendo dalla differenza fra genocidio ed etnocidio, è proprio la polifonia di Bachtin, che deve essere richiamata, meno che mai permettendo essa la composizione di un romanzo storico.

Bisogna riconoscere il merito a Lovecraft di considerare la terra come ciò che guida ciò che occupa la terra – o si trova nella posizione di colui che abita la terra che è stata occupata, soltanto per mostrarla come la Cosa in grado di adeguare un comportamento nei confronti di ciò che si trova su quel tratto di terra, sia in posizione di colui che occupa la terra, o – all’opposto – in posizione di colui che abita la terra.

Parlare di guerra mitica, dopo che il mito ha ceduto il passo al romanzo, è la cosa più contraddittoria che un romanzo possa porsi a plasmare, perché deve parlare di ciò che è, essendo la cosa che non è, parlando di battaglie che sono state battaglie eroiche proprio perché hanno infranto lo schema di ciò che può essere definito eroico, e poi di uomini che sono umani in quanto sono proprio ciò che sono in quanto meno che mai sono esseri umani; come si è detto, deve parlare di ciò che è in quanto ciò che è proprio in quanto non è ciò che è.

Così noi ora possiamo dire che il massacro di Wounded Knee è stato un atto eroico perché qualunque soppressione del meticciato, per quanto isolato in un canto della storia esso sia stato poi posto, suona come atto di eroismo. Ma se abbiamo canzoni che denunciano il massacro di Wounded Knee in quanto puro massacro che niente ha di eroico, non abbiamo canzoni che denunciano il massacro di Fetterman – che è l’episodio centrale su cui il romanzo storico Il crinale di Michael Punke è fondato, e che pure, in quanto episodio puro, ha diversi tratti in comune con il massacro di Wounded Knee. Fermo restando le due diverse mentalità che hanno progettato lo stesso schema di massacro – fermo restando che il romanzo storico Il crinale, nel momento in cui considera l’episodio storico del massacro di Fetterman”, compiuto dai meticci indiani di Cavallo Pazzo e di Nuvola Rossa, non mostra alcuno sdegno per la modalità di quel massacro, come se in quel caso si dovesse provare vergogna a manifestare sdegno, in rapporto ad una origine – che non viene mai indagata; il meticcio è sempre l’essere più disgustoso con cui capiti di avere a che fare, sia che si tratti di un meticcio indiano, sia che si tratti di un meticcio italiano come il meticcio italiano Fabrizio De André, che in quel di Genova ha confezionato la piccola gradevole canzonetta Fiume Sand Creek.

Ma che cosa mostra la posizione di Michael Punke, se così considerata, all’interno della costrizione del romanzo storico, quando entrambi i massacri rimandano all’archetipo mitico della Battaglia di Arminio, che era essa stessa, per le proprie modalità, massacro anziché battaglia?

Vale la pena ricordare questa puntualizzazione di Nietzsche: «I due valori antitetici, “buono e cattivo”, “buono e malvagio” hanno sostenuto sulla terra una terribile lotta durata millenni; […] Il simbolo di questa lotta, espresso in caratteri che sono restati sino a oggi leggibili al di sopra di tutta la storia degli uomini è “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma”; – non c’è stato fino a oggi alcun avvenimento più grande di questa lotta, di questa posizione del problema; di questa contraddizione pervasa d’inimicizia mortale. Roma sentì nell’ebreo qualcosa come la contronatura stessa, per così dire il suo monstrum antipodico; in Roma si considerava l’ebreo un provato colpevole di odio contro l’intero genere umano: a buon diritto, in quanto si ha un diritto di ricollegare la salvezza e l’avvenire del genere umano all’assoluta supremazia dei valori aristocratici, dei valori romani.» (Genealogia della morale, p. 250).

Allo stesso modo il nativo americano deve essere considerato, dopo la lettura di Nietzsche, un provato colpevole di odio contro l’intero genere umano, allora presente nel territorio d’America. Si rilegga il brano di Nietzsche sopra riportato sostituendo “Giudea-ebreo” con “il nativo americano” e “Roma-romano” con “la razza bianca”. La questione è la lotta della natura nei confronti della contronatura, per quanto i toponimi e le parti in lotta cambino, che è la piega della terra che chiama il suo abitante o manda via colui che non vuole accettare come suo abitante.

Lonesome Dove (1985) di Larry McMurtry coglie perfettamente, nell’arco di un dialogo, il gioco di pedine che pone in gioco indiani, civili, ranger, esercito: «– Donne e bambini e coloni sono solo carne da cannone per avvocati e banchieri. Fanno parte del quadro. Se gli indiani ne massacrano abbastanza, la gente grida allo scandalo e noi [ranger] diamo la caccia agli indiani. Se poi gli indiani tornano, interviene l’esercito e la caccia si inasprisce. Alla fine l’esercito sconfigge gli indiani e schiaffa i pochi rimasti in qualche riserva, così possono arrivare avvocati e banchieri e dare il via alla civiltà. Tutte le banche del Texas ci dovrebbero [a noi ranger] una commissione per il lavoro che abbiamo fatto. Senza di noi, tutti quei banchieri sarebbero ancora in Georgia a mangiare erbe selvatiche e cime di rapa.» (p. 84).

Un meticcio rimane un meticcio, che sia chiuso in una riserva oppure libero di massacrare gli invasori e di cacciare gli animali che ha trovato nella terra occupata dai suoi avi, che egli stesso occupa e che lascerà ai suoi figli come terra da occupare, oppure di celebrare la cultura della propria stirpe secondo modalità del pensiero propri degli invasori, questo mentre vediamo che adesso storia non è altro che cammino verso una legittimazione possibile del meticciato che, di volta in volta, si è posto in gioco; cammino sporco: Italian jobmi trovo costretto a dire io, scrivendo purtroppo, io, in italiano, italiano vero, cioè italiano sporco: il problema sono gli indiani, così come il problema sono gli zingari, così come il problema sono gli italiani, cioè l’altra “cultura”, ovvero l’Altro, che esiste solo in quanto sguardo verso un materiale autenticamente diverso, perché diverso di razza, come avviene attraverso lo sguardo all’interno di un museo, a partire dalla razza bianca, che, fra le altre cose, nel suo percorso di colonizzazione globale, si è presa la briga di creare puranche tanti musei.

Sostengo che questo discorso funzioni fra i personaggi del romanzo solo perché il discorso di razza fra le persone è ciò che è stato bandito – al di fuori dello spazio del romanzo.

La questione è che un meticcio è un meticcio, anche se nessun pensiero unico moderno giammai ciancia di meticciato. Che sia un indiano d’America, uno zingaro o un italiano, ciò che lo sguardo riconosce come “altro”, è ciò che una cultura ha l’obbligo di porre in un canto; ma il semplice sguardo di disprezzo è opera di conoscenza, cioè di vera cultura, se c’è stato vero disprezzo.

Come applicare la storicizzazione del nostro sguardo sul materiale che compone il romanzo storico Il crinale? Leggere un romanzo storico è qualcosa di simile a ciò che implica la visita di un museo – cioè l’attivazione di uno sguardo a partire dall’occhio, che non è fatto per guardare – questo vale per qualunque museo, così come per qualunque romanzo storico, sia un romanzo storico di Walter Scott, oppure quel gioiello in miniatura di romanzo storico che è La figlia del capitano di Puškin, o un romanzo storico, giustamente costruito nell’ottica in cui si costruiscono i musei moderni – quale è il romanzo storico Il crinale di Michael Punke.

A presentare ciò che potrebbe comportare la storicità del moderno romanzo storico è proprio ciò che fa fuori la possibilità del romanzo storico a partire dalla modernità, e cioè la terra (vale a dire offrendo alla terra la possibilità di dire qualcosa su chi ha diritto ad abitare la terra): consideriamo il modo in cui Jack London mostrava gli indiani come forme primitive dell’origine. Se ci poniamo il problema dell’origine, scopriamo che storia è solo un modo di porre in gioco parole (puri esseri primitivi, per ciò che riguarda gli indiani, se ricorriamo a Jack London; forma vivente della terra, se ricorriamo a Lovecraft, che mostrava la terra che era stata occupata dagli indiani come una terra per sempre impossibile da abitare per individui di razza bianca perché rovinata dalle onde che l’occupazione del meticciato indiano aveva inflitto alla terra). Abbiamo così una terra passiva a un insediamento quanto una terra estremamente sensibile a individui in grado di accogliere le vibrazioni che provengono dalla terra, che possono condurre individui predisposti al male a sviluppare progetti di sterminio dell’intera razza umana, quanto individui rivolti al bene a combattere il pieno sviluppo del meticciato quanto a scoprire la propria implicazione nella degenerazione della razza, che in un primo tempo sembrava essere la cosa da combattere. Ma la posizione nei confronti del meticciato è ciò che distingue la differenza tra bene e male, che a sua volta si determina a partire dalla scelta della posizione di razza. In nessuno di questi casi l’indiano era l’essere umano, proprio perché l’essere umano era la postazione che non poteva più essere difesa. Noi possiamo avere dei romanzi storici aggiornati alle ultime considerazioni della storia, ma non possiamo ancora avere il romanzo che dia voce alla terra così come non possiamo avere il romanzo che dia voce al linguaggio come ciò che determina l’agire degli esseri umani che da quel linguaggio traggono la propria verità, cioè il loro pervenire al linguaggio in quanto narrazione.

Parlare di un romanzo storico è parlare di qualcosa che implica la domanda: “fino a che punto il romanzo storico può riconoscere la storia?”, che implica il punto in cui la storia si manifesta all’interno di una serie. Guardiamo come la vicenda su cui è basato il romanzo storico Il crinale viene riportata in Mondi perduti di Aram Mattioli (pp. 205-6). Il romanzo storico si fa avanti quando i fatti possono chiamare dei personaggi, morti da tempo, che vengono rianimati solo per ripetere i gesti fondamentali in quel Locus Solus che diventa allora il romanzo storico alla presenza di un pubblico di invitati, che sono i lettori, e di un Canterel, che è l’autore, che ne spiega le motivazioni e si fa carico di ricrearne la meticolosa ambientazione, affinché lo spettacolo possa funzionare e i gesti avere il massimo della precisione.

Due parole quali “etnocidio” e “genocidio” rappresentano la situazione. La nozione di etnocidio intende la cultura come accessorio facilmente sostituibile negli individui che costituiscono una nazione; mentre la nozione di genocidio intende la cultura come elemento integrato a un dato gruppo etnico, continuamente riprodotto da ogni manifestazione di quel gruppo in vita, per cui, l’unica difesa, è la soppressione del gruppo portatore di quella cultura. La cultura è una forma di manifestazione vitale che però deve determinare. dall’altra parte, la possibilità di togliere la vita.

Qui si tratta di sviluppare l’orecchio per leggere – e non solo l’occhio per ascoltare un romanzo storico. Se il pensiero è pensiero storico, ogni personaggio deve pensare nell’ambito del periodo storico in cui viene fatto agire: che è la logica del romanzo storico – poi, per il resto, ogni libro deve essere… “senza opera”.

Gli italiani meritavano la stessa sorte toccata a zingari ed ebrei, che è la stessa sorte che meritano anche adesso – perché la razza è sempre la stessa ed è sempre rimasta la stessa, da quando quella cosa che sono italiani, zingari ed ebrei purtroppo esistono.

Dove trovare il punto di raccordo tra lontananza e vicinanza, carro bestiame e canna fumaria? riverrun un altro modo di pensare e di giudicare – in un appunto dell’autunno 1883 di Nietzsche si legge: «Creare poeticamente qualcosa di più elevato di ciò che l’uomo è stato finora.» (Frammenti postumi, p. 237).

Per quanto la storia possa essere vista come qualcosa di estraneo, il meticcio è quella cosa che, nel corso della storia, sembra sempre perdere, ma che in alcuni casi perde quando vince, così come perde per vincere. Il meticcio indiano Cavallo Pazzo sa che perderà; noi sappiamo che il meticcio indiano Cavallo Pazzo è destinato ad una brutta fine. Cavallo Pazzo fa una morte miserabile: ma con la sua morte miserabile, il meticcio indiano Cavallo Pazzo fa la morte miserabile che attende ogni meticcio, perché ogni meticcio è quella cosa destinata ad una morte meschina, anche quando muore eroicamente: un indiano d’America, così come uno zingaro o un qualunque altro meticcio, ad es. un meticcio italiano, non è che una cosa che occupa un tratto di territorio finché uno sguardo che comprende ciò che implica l’abitare non implica lo spostamento o la cancellazione di quella cosa in quel punto. Il meticcio vince perdendo senza rendersene conto. Un meticcio è quella cosa che nasce come meticcio, crepa come meticcio e quindi scompare, perché non esiste una memoria per il meticcio.

Quello che il romanzo storico presenta è qualcosa di quello che un personaggio può avere pensato in certi momenti della propria vita, prima che uno sguardo retroattivo potesse definire semplici momenti occasionali che capitano a tutte le persone, come appartenenti a una serie speciale di momenti che costituiscono quel dato personaggio storico. Il romanzo storico è così soltanto il capriccio di un autore, che può scegliere di scrivere tra tipi diversi di romanzi: così quello che questo personaggio storico può avere pensato è comunque qualcosa di arbitrario, in quanto selezionato successivamente, cioè molto dopo, nel momento in cui avviene la decisione di scrivere un romanzo storico.

Gli Stati Uniti hanno dedicato alcuni francobolli ai grandi capi indiani – con la stessa logica con la quale lo Stato del Vaticano potrebbe dedicare un francobollo al Diavolo, fermo restando che lo Stato del Vaticano non ha mai dedicato e mai dedicherebbe un francobollo al Diavolo. Una guerra mitica non è mai vinta perché non è mai finita; si rinnova ciclicamente nel tempo, ma il romanzo storico, così come lo conosciamo attraverso la forma nata in Europa con Walter Scott, è proprio ciò che indica il modo di porre lo sguardo che indica il superamento di un periodo storico.

L’episodio della morte di Orso Solitario rappresenta il modo in cui crepa il meticcio; il modo in cui crepa il meticcio indiano Orso Solitario si oppone al modo in cui muore il soldato di razza bianca Adolph Metzger, il trombettiere armato solo della sua tromba, con cui riesce pure ad ammazzare un meticcio indiano. Chi era Adolph Metzger? Il trombettiere Adolph Metzger aveva pensato, prima di partecipare all’ultima battaglia, che, se fosse stato un nativo d’America, avrebbe combattuto contro l’esercito nel quale egli si trova in quel momento ad eseguire gli ordini. Ma un individuo di razza bianca non può mai combattere a fianco del meticciato, anche se in base al ragionamento potrebbe pure porsi in capo di farlo. Il trombettiere Adolph Metzger è stato l’unico corpo ricoperto dalla pelle di bisonte che imponeva ai meticci indiani di non oltraggiare quel corpo, nel solito modo che i meticci indiani erano soliti oltraggiare i corpi dei nemici. Il romanzo Il crinale mostra che è il meticcio indiano Schiena Alta a gettare la pelle di bisonte sul corpo del trombettiere Adolph Metzger in segno di rispetto, ma questo è irrilevante, perché un gesto di rispetto compiuto da un meticcio è comunque un gesto compiuto solo da un meticcio, che non ha nessuna rilevanza, ma che cade comunque a disprezzo verso il meticcio che lo ha compiuto. Questo è quello che il romanzo non dice, nel momento in cui questo è quello che dice il romanzo Il crinale. L’arte di scrivere chiama l’arte di leggere. Ma l’arte di scrivere il romanzo storico è arte degenerata, arte inquinata dal non pensiero del meticciato, che, per quanto nato all’interno della razza bianca degenerata, non può essere che parodia del pensiero della razza bianca.

Così noi ora possiamo dire che il massacro di Wounded Knee è stato un atto di eroismo, perché ogni tentativo organizzato di distruzione del meticciato è un atto di eroismo, non essendo la soppressione del meticciato, a tutti gli effetti, ancora cosa accettata a livello di diritto della razza chiamata dalla terra ad abitare la terra. Non c’è mai stata la volontà di soppressione del meticciato da parte della razza bianca in quanto volontà di dare forma al mondo – e questo è colpa della razza bianca. Le guerre indiane d’America mostrano il rimpianto, da pare dell’Europa, della mancanza di un pensiero volto alla realizzazione dello sterminio integrale delle forme esistenti nel territorio d’America.

Il romanzo storico così costruito è allora storia della terra che non è mai stata presa, ma solo della terra che è stata percorsa. Pensare quello che il personaggio storico può avere pensato, è pensare quello che ogni persona può pensare in qualunque momento della propria “storia”, come si evince da quello che Jim Bridger pone come domanda a Beckwourth: “È giusto quello che facciamo?”, ma la questione sulla verità o meno di ciò che si fa rimanda sempre alla presenza del meticciato, che non deve mai avere diritto di essere presente, cioè di esistere. «– E pensi che sia colpa tua? [la brutta città che è sorta vicino al grande lago deserto che Bridger per primo ha visto] – ribatté Beckwourth. – Se non fossi stato tu, l’avrebbe scoperto qualcun altro, non ti pare? | – Ma sono stato io, – disse Bridger.» (Il crinale, p. 116). Qui è il tema della responsabilità della razza bianca, che riguarda comunque la soppressione del meticciato: non può esserci rispetto per la bellezza della natura se non si elimina il meticciato, che è ciò che offende alla base la bellezza del mondo, bellezza che deve venire prima di tutto, perché bellezza di origine divina che rimanda al dio della razza bianca, mentre il meticciato è proprio ciò che non ha nulla che fare con ciò che è divino.

Il crinale suggerisce nell’azione di spionaggio compiuta da Cavallo Pazzo sul modo di agire dei bianchi nella valle durante la costruzione del forte Beckworth, una condanna della matematizzazione del mondo.

Torniamo a Bridger, che ha scoperto il Lago Salato: la storia della colonizzazione dell’America da parte della razza bianca è storia della cartografia di quel paese; la cartografia rimanda a una matematizzazione, che Lonesome Dove di Larry McMurtry presenta subito in modo umoristico: «In piedi accanto al carro, Bol [il cuoco] liberò la vescica per quello che a Newt parve un quarto d’ora. Quando Bol cominciava, spesso il signor Gus tirava fuori la sua vecchia cipolla d’argento e la sbirciava finché l’altro non aveva finito. A volte prendeva perfino un mozzicone di matita e un taccuino dal vecchio gilè nero che indossava sempre e annotava il tempo impiegato da Bol a spandere acqua. | – Mi serve a capire se si sta indebolendo, – spiegava. – Alla fine i vecchi la fanno a gocce come un vitellino appena nato. Meglio che prenda nota, così sapremo quando è ora di cercare un altro cuoco.» (p. 29). La storia così considerata si pone allora solo come incasellamento di dati. Propongo a questo punto un collegamento tra L’ombra che viene dal passato di Lovecraft e La biblioteca di Babele di Borges come archetipo della falsità che è alla base del romanzo storico – sia europeo che americano. La storia della necessità di sterminare il meticciato è qualcosa che non è mai stata considerata finora; è qualcosa che si comincia a delineare dai libri che meno che mai mostrano la tensione verso questa parola.

Se la matematizzazione del mondo è quella cosa che può essere resa nello sguardo di ciò che, dal punto di vista di ciò che è sano, guarda ciò che è degenerato, la musica di Rossini è quella cosa che rivela il ticchettio come degenerazione di ciò è ritmo, cioè del ritmo che è alla base di ciò che è musica, quindi di quella degenerazione che, come musica rossiniana, inquina la musica. Questo perché il meticcio è quella cosa che inquina ciò che è vivo soltanto con il suo respiro, cioè con la manifestazione minima della sua esistenza.

È questa quadratura nell’arte della narrazione che sembra indicare qualcosa che non va bene, per cui il romanzo storico così pensato spiega il fantastico attuale, che dà vita alla serie di Harry Potter.

L’arte di scrivere chiama l’arte di leggere, ma entrambe le arti frenano davanti a una terra che non è mai stata presa, onde che non rendono il volto da reggere di nessuna creatura d’onda gettata sulla spiaggia di una terra che non è mai stata acchiappata – quello che posso dire è che noi abbiamo perduto l’arte di leggere il romanzo storico perché abbiamo perduto il vero disprezzo verso l’altro – che è l’Altro di razza. Se infatti il romanzo tratta di individui, ciò che serve adesso è un romanzo che tratti di razze. A che cosa serve un romanzo costruito secondo le vecchie regole del romanzo storico? bene che vada può servire a disprezzare il meticciato.

 

2

Si è richiamato Lonesome Dove a proposito del Crinale, ma Lonesome Dove può essere pienamente confrontato col Crinale a proposito del tema dell’origine. Lonesome Dove è organizzato in tre parti: la prima parte considera la vita in quel punto zero, al confine tra Texas e Messico, che è il villaggio di Lonesome Dove, dove i due ex Texas ranger, Woodrow Call e Augustus McCrae, si sono sistemati: un puro punto di non origine; ma punto dove viene portato l’impulso a uscire ad opera di un loro compagno ex ragner, Jake Spoon, trasferendo una grande mandria di bovini dal Texas al Montana, dove i bovini non ci sono. La seconda parte presenta il viaggio. Qui incontriamo i due pericoli: il pericolo dell’altra razza, che è il pericolo dell’antirazza, del meticciato, rappresentato dal meticcio indiano Blue Duck; e il pericolo della degenerazione della razza, rappresentato dal personaggio di Jake Spoon. Blue Duck è un bandito orgoglioso di essere un bandito, perché quello è il suo modo di essere nel mondo, cioè di essere un meticcio, un meticcio vero. È una persona che non ha fatto una scelta, perché l’essere nel mondo, in lui, non può che tendere ad essere un bandito. Jake Spoon è invece il caso di degenerazione della razza. Una considerazione su basi psicologiche di questo personaggio potrebbe indicarlo come un caso di debolezza di carattere, invece è il caso di degenerazione della razza bianca, che lo ha portato al punto dove è possibile scegliere tra il bene e il male. Poteva scegliere il bene, ma ha scelto il male. Egli non partecipa ai crimini della piccola banda costituita da tre bianchi degenerati (i fratelli Suggs) e un negro alla quale si è aggregato, ma comunque è riconosciuto colpevole insieme agli altri, e impiccato dai suoi vecchi compagni ranger, quando questi fermano la banda. La parte terza è dedicata alla Natività e alla possibilità della Casa.

Dopo la prima parte, che presenta in venticinque capitoli il modo di vivere estremamente ripetitivo e inconcludente di Lonesome Dove, le altre due parti sono lanciate a partire da interruzioni della storia principale. La prima parte finisce con la partenza della grande mandria (messa insieme attraverso diverse ruberie in territorio messicano compiute dai protagonisti del romanzo); la seconda parte presenta personaggi nuovi in un un altro luogo: lo sceriffo July Johnson, sua moglie Elmira, il giovane figlio di lei Joe, il vicesceriffo Roscoe Brown. La causa che ha fatto sì che Jake Spoon abbandonasse il luogo dove si era trovato a passare, Fort Smith, è la causa che ha comportato la sua comparsa a Lonesome Dove, con l’idea di trasferire il bestiame su nel Montana, che ne è attualmente sprovvisto. Egli non parla solo del profitto possibile, ma parla della bellezza di quel paese, incomparabile con quanto si può vedere in quella striscia di confine del sud del mondo. Il riconoscimento della bellezza del mondo è solo l’impiccio di uno sguardo tra altre incombenze più importanti (guadagnarsi la vita), ma è quello che metterà in moto il meccanismo del romanzo: il trasferimento del bestiame, cioè il viaggio irto di pericoli dal Texas al Montana.

Per quanto riguarda Fort Smith, l’invito a compiere il viaggio compare nel momento in cui July Johnson, deve mettersi in viaggio per arrestare Jake Spoon. Se il viaggio della mandria dal Texas al Montana era un’impresa rabberciata alla bell’e meglio, questo viaggio è ancora peggio. La moglie insiste affinché il marito porti con sé il figlio, poi, una volta rimasta sola, scappa imbarcandosi su un barcone di trafficanti di whisky per andare alla ricerca del suo primo nascosto marito, Dee Brown. Quando la notizia della scomparsa di Elmira si sparge nella cittadina, Roscoe è quasi obbligato a partire alla ricerca dello sceriffo. Se il primo grande viaggio della prima parte del romanzo rimandava alla nobile forma dell’epopea, questi nuovi viaggi rimandano alla forma degradata del romanzo picaresco. E infatti gli incontri che i personaggi faranno lungo i rispettivi percorsi saranno incontri degni del romanzo picaro (il vecchio Sam, la giovane Janey, lo scienziato Sedgwuick, i due banditi). Ciò che caratterizzerà la successiva letteratura on the road americana sarà proprio la possibilità dell’avventura e delle strade che attraversano grandi spazi aperti. È insomma una mentalità che non prevede il rapporto di una comunità con la terra – ma anzi la esclude. Questo perché anziché essere “presa”, la terra rimane sospesa in un mare concreto di possibilità.

Ma ciò che sulla strada si incontra sono i due termini estremi della strada: ciò che costituisce l’antirazza, come mancanza della razza (l’indiano); ciò che costituisce la degenerazione della razza bianca (il bandito).

Giustamente dice McCrea di Blue Duck: «Se un giorno incontrerò Blue Duck, lo ucciderò. Ma se non lo faccio io, lo farà qualcun altro. È grosso e cattivo, ma prima o poi incontrerà qualcuno di più grosso e più cattivo di lui. Oppure lo morderà un serpente o un cavallo gli cascherà addosso o finirà impiccato o uno dei suoi uomini gli sparerà alla schiena. Oppure diventerà vecchio e creperà.» (pp. 505-06). Questa è una perfetta rappresentazione dell’essere nel mondo dell’indiano d’America che occupa la terra solo come carcassa vivente, quando è vivo; che occupa la terra, solo come carcassa morta, quando è morto, così come il personaggio di Blue Duck, come rappresentato in questo romanzo, è una perfetta rappresentazione dell’indiano d’America – noi infatti non abbiamo, in questo romanzo, altra rappresentazione di indiani presentati con quella accuratezza. Per questa ragione Lonesome Dove è una vera opera epica, perché mostra la sporcizia di razza che è alla base del meticcio, che lo determina, sia esso un mediocre indiano o un meticcio che ha consegnato il proprio nome alla storia, come ha fatto il meticcio Blue Duck. Tutti noi ricordiamo la fotografia della carcassa del meticcio e capo indiano Big Foot, distesa nella neve con uno strano angolo ottuso, mentre non abbiamo fotografie della carcassa del meticcio Blue Duck. Lonesome Dove fornisce la serie di punti dove il meticcio manifesta la propria natura, in quanto punto in una serie; cosa che il romanzo storico Il crinale non fa, appuntandosi stretto nel punto dove una cucitura della storia è avvenuta. Un meticcio sporca sempre la terra, anche quando non sporca la terra (così come un italiano ruba sempre, anche quando non ruba mai); gli indiani d’America sporcavano la terra che occupavano e bisogna rammaricarsi che non sia stato possibile, in quell’epoca, pensare un progetto di pieno sterminio integrale della forma degli indiani d’America. È questa mancanza della razza bianca che impedisce di cancellare ciò che ha rappresentato la comparsa del meticcio dell’indiano d’America in tutte le terre che il meticcio ha occupato.

Se ci fosse stato il progetto di sterminio integrale degli indiani d’America, allora sarebbe stato possibile pensare il progetto di dare forma al mondo, anziché di avallare un colossale sistema di rapina – e un mito avrebbe preso pure forma nel mondo; ma questo non è stato possibile e il mito è rimasto romanzo. Devo ricordare che in diversi miti il mondo è creato attraverso l’uccisione e lo smembramento di un essere primitivo e che dal suo corpo smembrato si è sparpagliata qui e là l’incomparabile bellezza di tutto il mondo?

Cartografare la terra come presupposto per il lancio di vie di comunicazione è ciò che Thaddeus Coleman Pound (= nonno di Ezra Pound) si è trovato indirettamente a riconoscere di aver fatto nei Cantos del nipote. «As it costs, / As in any indian war it costs the government / 20,000 dollars per head / To kill off the red warriors, it might be more humane / And even cheaper, to educate.» (p. 101), dove si evince che la cultura viene in quel caso vista come sforzo da spendere in educazione, che comporta alla fine un risparmio economico, e questa differenza nel trattamento comporta pure una maggiore umanità. Così cultura è conformità a un modello – rogo di libri e genocidio suonano come impegno a un Nuovo inizio.

La terza parte presenta il tema della Casa. Ma il tema della Casa, in un romanzo così impoverito come è Lonesome Dove, è soltanto il tema di una Casa possibile – così come punto di partenza e punto d’arrivo sono solo un punto di partenza possibile in un punto d’arrivo possibile, mentre ciò che permette di passare dall’uno all’altro punto vuoto è il viaggio in quanto incontro con ciò che rimane incontrastato nella terra quale vita indegna di vivere: il meticciato indiano e la degenerazione della razza bianca. Qui non si tratta più di partire, ma di accogliere, cioè di offrire una casa. Il primo personaggio ad essere accolto è Elmira, che collega la Casa al tema della capanna della Natività. Elmira giunge stremata da un lungo viaggio in compagnia di un bue e di un asinello; partorito il bambino, Elmira riparte subito. Poco dopo giunge in quella stessa Casa July, sempre alla ricerca di Jake Spoon, ma che nel frattempo ha perduto Joe e Roscoe, a causa del meticcio indiano Blue Duck, che ha incontrato lungo il percorso.

Non aver pensato il progetto di sterminio assoluto dell’indiano d’America (= alleviamento della terra) ha comportato la presenza delle forme estreme raggiunte dal meticciato indiano nella forma del meticcio Blue Duck e poi della degenerazione della razza bianca (rappresentato nel romanzo nella forma del personaggio di pura invenzione, a differenza del meticcio Blue Duck, di Jake Spoon).

La Casa che la parte terza del romanzo presenta è solo una casa possibile, perché, se offre accoglienza ad alcuni personaggi del romanzo (July Johnson e suo figlio, e poi Lorena Wood), nessuno trova lì la propria casa. Infatti tutta la terza parte suona in diversi modi il raggiungimento di una meta vuota intorno a possibilità di radicamento, che però non avvengono.

Il punto del Montana dove verrà deciso di fondare il ranch è un punto vuoto come un punto vuoto era già stato Lonesome Dove, dove il romanzo si era aperto e come un punto vuoto è la Casa trovata nel Nebraska lungo il viaggio. Il ranch è il punto dove Call non dirà a Newt che egli (Newt) è suo figlio, e il punto dal quale Call partirà per seppellire il corpo di McCrae ucciso da una banda di meticci indiani.

È per uno di quei casi che accadono durante un viaggio se, durante il viaggio verso sud, Call ha l’occasione di assistere all’impiccagione del meticcio indiano Blue Duck. Call visita il meticcio indiano Blue Duck in carcere. «Blue Duck sorrise. – Ho violentato donne, rapito bambini, bruciato case, ucciso uomini, rubato cavalli, massacrato bestiame e rapinato chi volevo, da quando sei un tutore della legge. E questa è la prima volta che mi guardi in faccia. Non credo che mi avresti ucciso.» (p. 919). Qui è il Meticcio Eterno, che parla, perfetta incarnazione dell’essere nel mondo del meticcio indiano, così come di ogni altra forma meticcia, per sua natura eterna, incarnazione perfetta del Meticcio Eterno, che non può più essere ignorata: è la rivendicazione di quello che il meticcio fa nel mondo; il meticcio è eterno, ma qualunque individuo di razza bianca, anche il più scalcinato, per un colpo di fortuna, lo può fermare; la cattura di Blue Duck era infatti avvenuta quando un vicesceriffo inesperto aveva colpito il cavallo di quel meticcio indiano; il vicesceriffo inesperto, che per un colpo di fortuna ha fermato il meticcio indiano Blue Duck, è la controparte del vicesceriffo inesperto Roscoe Brown, che non è stato in grado di portare a termine il suo compito, cadendo lungo la strada; ma se il più scalcinato individuo di razza bianca può fermare un meticcio indiano ritenuto invincibile, è colpa della razza bianca se non si è mai attuato un programma scientifico e assoluto di rimozione (sterminio) del meticciato indiano, perché solo la razza bianca può pensare e attuare il completo progetto di sterminio assoluto del meticciato, che solo può portare alla nuova considerazione della terra in quanto terra alleviata.

Un episodio conferma la natura di questa guerra, che è guerra inconsapevole incontrata per caso lungo un tragitto che aveva per scopo, un poco da più parti malcelato, l’arte di scorrere la terra, ma che permette di vedere in un altro modo quello che nel Crinale viene presentato solo nella forma di storia: il torello texano, personaggio episodico in questo romanzo, ma fondamentale per il suo rimando al Táin. Lonesome Dove è un grande romanzo perché espone, in chiave di romanzo tipicamente americano, elementi di un mito che hanno trovato la formulazione di origine in Europa. Il torello compare all’improvviso in I/24, non piace a nessuno e si unisce alla mandria in movimento, seguendola poi puntualmente. È tutt’altro che bello e ci si chiede se sia giusto portare nel Montana un animale del genere, cioè così lontano dai canoni di bellezza riconosciuti per le razze bovine. «A dire il vero, il torello non piaceva a nessuno dei cowboy; ogni tanto caricava un cavallo, se gli bolliva il sangue, e con gli uomini appiedati faceva anche di peggio. Una volta Needle Nelson era smontato da cavallo per fare acqua in santa pace e il torello lo aveva caricato così all’improvviso che Needle era dovuto balzare in sella mentre ancora pisciava. Tutta la squadra si era spanciata a sue spese. Needle si era infuriato tanto che voleva catturare il toro e castrarlo, ma Call si era opposto. Gli pareva un bel toro, nonostante quello strano miscuglio di colori, e voleva tenerlo. | – Lascialo stare. Ci serviranno dei tori nel Montana. | Augustus se l’era spassata. – Dio santo, Call. Vuoi riempire il paradiso con animali come quello? | – Non è così brutto, se non guardi il colore.» (p. 234)». Ma la sua impresa fondamentale è la lotta contro il grizzly. Nessuno dei due animali vince, e i due alla fine si separano, il grizzly tornando nella foresta da cui era sbucato, il torello tornando nella mandria, dove poi verrà curato e raggiungerà infine il Montana. In questo scontro si può vedere un simbolo della lotta contro gli indiani. Considerare: nessuno dei due muore; il torello è ciò che difende la mandria, che in quel momento è il simbolo di ciò che è minacciato; il torello texano è una forma sgangherata, capitata in quella mandria per caso da chissà dove così come come la razza bianca rappresentata in America e trovatasi a combattere contro gli indiani sono un qualcosa di rabberciato qua e là in Europa.

Nell’episodio della lotta tra il torello texano e il grizzly questo romanzo-epopea si alza a livello del Táin – e infatti di una razzia si tratta – e i due marginali personaggi di origine irlandese che si aggregano al gruppo per caso ne sono la simbolica indicazione. Ogni tema mitico della razza bianca è destinato a rinascere, anche nelle forme più contaminate offerte dal romanzo moderno; mentre ogni controforma del meticciato, sia il resoconto islamico del viaggio dantesco o la decameronizzazione del mondo inaugurata da Boccaccio, è destinata a rimanere a esempio del disprezzo del meticciato.

Il torello bastardo, brutto, violento, dai colori sgargianti, odiato da tutti è il simbolo di ciò che rimane adesso come simbolo della razza bianca; il grizzly che esce improvvisamente dalla foresta è il simbolo di ciò che era presente in quel mondo: il meticcio indiano. Entrambe le forme suscitano un qualche disgusto, ma sono le due vere forze che possono scontrarsi in quel momento: «Il toro texano era l’unico a fronteggiare l’orso. Lanciò un muggito di sfida e cominciò a raspare il terreno. Avanzò di qualche passo e lo raspò di nuovo, gettandosi nuvole di polvere sul dorso. | – Quel torello non sarà così pazzo da caricare l’orso, vero? – domandò Augustus.» (p. 801). La lotta tra i due animali non determina nessun vincitore, perché i due animali si separano, e infatti dalle guerre indiane non è uscito un vincitore, perché ciò che avrebbe dovuto determinare un vincitore avrebbe dovuto passare attraverso la soppressione completa del nemico, ma che doveva prevedere il piano del genocidio, che solo poteva essere pianificato dalla razza bianca, ma che non poteva essere pianificata da ciò che rappresentava, in quel punto, in quel momento, la razza bianca.

Le guerre indiane, dal punto di vista dell’Europa, possono soltanto rappresentare il rimpianto per la mancanza di un piano integrale di sterminio delle popolazioni locali – fermo restando che un tale programma non deve mai fare capo a un progetto di rapina, bensì a quel progetto di rispetto nei confronti della terra, che ha per fine la terra alleviata.

A noi non rimane che contare quello che non ci sono mai stati: i morti.

Faye su Heidegger: «C’è un secondo testo sui campi di sterminio nel volume delle conferenze di Brema [Il pericolo]. Meno conosciuto ma ancor più denso delle ombre nere che invadono la mente del suo autore, il brano testimonia ciò che abbiamo deciso di chiamare il negazionismo ontologico di Heidegger. In verità, quello che egli sostiene rientra nel campo di quanto Paul Celan definisce “indicibile”, tuttavia l’espressione negazionismo ontologico esprime chiaramente il fatto che Heidegger attacca non solamente la realtà storica dei fatti riducendo sostanzialmente il numero delle vittime dei campi e negando ogni specificità al genocidio nazista, ma l’essere stesso di quelle vittime.» (p. 429).

Longerich su Himmler: «If we consider Himmler’s empire and the plans and utopian fantasies he developed in their entirety, it is also evident that he had amassed a potential for destruction that far exceeded the catastrophes that Nazism itself actually caused: for the systematic murder of the European Jews, with which above all the name Himmler is connected today, was not in his eyes the ultimate goal of his policies but rather the precondition for much more extensive plans for a bloody “new ordering” of the European continent.» (p. 748).

 

 

Michael Punke, Il crinale, traduzione di Gaspare Bona, Einaudi, Torino 2023
Aram Mattioli, Mondi perduti. Una storia dei nativi nordamericani. 1700-1910, traduzione di Elena Sciarra, Einaudi, Torino 2019
Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, Milano 2001
Friedrich Nietzsche, Opere, vol. VI/2, Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, traduzione di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1976
Friedrich Nietzsche, Opere, vol. VII/1**, Frammenti postumi 1882-1884, traduzione di Leonardo Amoroso e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1986
Larry McMurtry, Lonesome Dove, traduzione di Margherita Emo, Einaudi, Torino 2017
Miguel Serrano, Il Cordone dorato. Hitlerismo esoterico, traduzione di Nicola Oliva, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2007
Renzo Giorgetti, Il dizionario di Miguel Serrano, Passaggio al Bosco, Firenze-Roma 2019
Ezra Pound, The Cantos, Faber and Faber, London 1975
La grande razzia (Táin Bó Cúailnge), a cura di Melita Cataldi, Adelphi, Milano 1996
Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, traduzione di Livia Profeti, L’Asino d’oro, Roma 2012
Peter Longerich, Heinrich Himmler, translated by Jeremy Noakes and Lesley Sharpe, Oxford University Press, Oxford 2012

Raskol’nikov riconsiderato (Divagazioni)

Così come riportato in Delitto e castigo, l’ultimo sogno di Raskol’nikov precisa che: «Quando [Raskol’nikov] era malato aveva sognato che tutta la terra cadeva preda d’una tremenda pestilenza, inaudita e incredibile, che proveniva dal profondo dell’Asia e avanzava verso l’Europa.» (Fëdor M. Dostoevskij, Delitto e castigo, Feltrinelli, Milano 2013, traduzione di Damiano Rebecchini, Epilogo, 2, p. 510).
Il profondo dell’Asia è la fonte del meticciato slavo; così come l’Africa è la fonte del meticciato latino. Ciò che minaccia l’Europa è il Meticciato che soffia alle frontiere nella sua doppia fonte: meticciato slavo, meticciato latino.
Cencioso e parassitario, arrogante e ben piantato alle frontiere d’Europa, questo meticciato ha la stessa funzione della vecchia usuraia Alena Ivanovna, cenciosa e parassitaria, pericolosa e autoritaria in Delitto e castigo, per quanto non lo si comprenda. Ma è come se Dostoevskij, con il particolare dell’ultimo sogno riportato di Raskol’nikov, avesse voluto lasciare un messaggio.
Raskol’nikov ha ucciso, rubato e posto in salvo la ricchezza procuratasi in quel modo nascondendola sotto una pietra. Togliere la vita a un meticcio è come togliere a un ladro la ricchezza che quel ladro ha messo insieme attraverso i vari furti commessi. Ogni meticcio ruba; ogni meticcio ruba sempre, anche quando non ruba. Il meticcio è quell’essere la cui pericolosità consiste nell’essere al mondo, indipendentemente da quello che fa. Comprendere questo è anche giungere a ciò che permette il riconoscimento del meccanismo dell’arte degenerata. Si giunge all’arte degenerata solo quando l’arte permette al meticcio di manifestare la propria condizione, unendola in modo inscindibile alla perfezione dell’oggetto d’arte, ma permettendo di trarre la relativa soluzione finale.
Non si può considerare il delitto “individuale” di Raskol’nikov, riportato in Delitto e castigo, senza pensare al delitto non individuale, perché delitto di razza, che richiede una nuova forma di romanzo per essere considerato. Sempre parlando a livello di romanzo – naturalmente.
Delitto e castigo è un romanzo che non parla della eliminazione di una o più razze, ma considera, come tema di discussione, l’eliminazione di una vecchia usuraia, un “pidocchio”, e che su questa possibile eliminazione innalza la sua costruzione romanzesca. Raskol’nikov è colui che passa subito alla eliminazione del pidocchio – e subito dopo alla eliminazione della innocente Lizaveta, sorella dell’usuraia (del pidocchio) e testimone indiretta del delitto appena avvenuto.
Nella logica del romanzo, l’innocente sorella è destinata a cadere, perché individuo trovatosi, per caso, nel posto sbagliato nel momento sbagliato (infatti, al di fuori, di quel particolare, ella avrebbe avuto pieno diritto a vivere; nella logica della nuova epica, sarebbe invece destinata comunque alla soppressione in quanto appartenente alla stessa razza della vecchia usuraia, per quanto di carattere completamente diverso, particolare inconsistente. È chiara la differenza? Infatti proprio questa differenza ne autorizza la soppressione (mentre invece nel romanzo nichilista Delitto e castigo, nichilista perché scritto dal punto di vista dell’individuo, l’uccisione della sorella dell’usuraia appare come la cosa più ingiusta). L’individuo e la razza devono sempre funzionare in due modi assolutamente opposti.
Ma la degenerazione è qualcosa che riguarda l’individuo solo in quanto l’individuo è il risultato di una degenerazione. Solo così la degenerazione può essere determinata. Ciò che supera l’individuo è la mancanza di degenerazione, che è qualcosa che noi non possiamo ancora vedere, così come non possiamo vedere la nuova forma di epica.
Il romanzo slavo, secondo l’azzeccata formula di d’Annunzio, ha qui il suo inciampo: non pensa per razze, perché è una forma che pensa l’individuo per l’individuo – cioè l’individuo che ha a che fare con l’individuo attraverso la polifonia indicata da Bachtin. Polifonia tutt’altro che intricata.
L’inciampo è ciò che non si scorge essere nelle vicinanze che accade di percorrere, ma che nemmeno si può allontanare di colpo. Così Nietzsche esprimeva dubbi sulla possibilità di creare colonie tedesche o svizzere in Paraguay mescolando l’elemento tedesco con quello latino (cioè con il meticciato): «Da parte svizzera sono stato indotto a pensare che i numerosi, quasi sistematici fallimenti delle colonie tedesche o svizzere negli stati attorno a La Plata abbiano origine nel mescolamento delle nazionalità, vale a dire nella vita promiscua di elementi tedeschi e latini. Non si riesce ad avere un sentimento patrio, la sensazione di una casa, se si ha nelle immediate vicinanze la sporcizia italiana ecc.» (F. Nietzsche, Epistolario. Volume V. 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, versione di Vivetta Vivarelli. A Bernhard Förster ed Elisabeth Förster-Nietzsche. Nizza, 2 gennaio 1886, p. 136). Il problema di fondo è sempre lo stesso: alleviare la terra dalla sporcizia che più da vicino la minaccia – cioè dal meticciato.
Delitto e castigo è il romanzo che si costruisce attorno a nozioni di vicinanza e distanza abilmente modificati in rapporto a ciò che scaturisce dall’uccisione del pidocchio. Ma la rinascita di Raskol’nikov avviene sotto il segno della Resurrezione di Pasqua, che è ciò che fa risorgere il concetto di individuo, che comporta il fatto di buttare via il pidocchio con le pulizie di primavera – e che è l’opposto dell’uccidere il pidocchio. Raskol’nikov sconta l’uccisione del pidocchio rendendosi conto che ogni pidocchio è un essere umano, quindi aderendo all’ideologia del meticciato.
Se infine un romanzo è vittoriosamente giunto alla possibilità di considerare l’uccisione di un individuo – quando un individuo non è altro che un pidocchio – una nuova forma epica deve pensare la possibilità di uccidere una razza quando questa non è altro che un pericolo per le forme sane. E allora di passarla liscia, senza castigo né resurrezione.
Si ribadisce che togliere la vita a un meticcio è come togliere a un ladro quella ricchezza che il ladro ha messo insieme attraverso i diversi furti commessi.
La nuova forma epica deve iniziare là dove la vecchia forma si è fermata. Se Delitto e castigo si costruisce attraverso la vicinanza di personaggi intorno al protagonista (Raskol’nikov che deve proteggere la sorella Avdot’ja Romanova insidiata, in forme diverse, da Svidrigajlov e da Lužin, l’amico Razumichin che è parente dell’inquirente Porfirij Petrovič, Sonja, con la quale Raskol’nikov entra in contatto dopo avere incontrato il padre in una bettola ed essere stato testimone, pochi giorni dopo, della sua morte a causa di un incidente stradale, lo stesso metodo di Porfirij Petrovič che ha lo stesso fine: concedere la libertà al colpevole in modo da mantenere la massima vicinanza con lui, vicinanza che permette di stringere la rete addosso a Raskol’nikov, così la nuova forma epica deve stabilirsi come epica della distanza. Ma distanza che farà sì che un pidocchio non potrà mai essere scambiato per un essere umano, tanto meno per il nuovo essere umano, che deve invece essere il risultato di uno sforzo collettivo, vale a dire di un allevamento in base ad un progetto particolare. Né progetto né collettività sono considerati in Delitto e castigo.
Prima di tutto è il concetto di essere umano che deve cambiare. Delitto e castigo recupera il vecchio concetto di essere umano andandolo a ripescare nel sottosuolo fognario di San Pietroburgo: è il profondo dell’Asia, attraverso la Siberia, dal quale la nuova pestilenza avanza verso l’Europa.
Questo equivale a rileggere Delitto e Castigo impostando le giuste domande. Raskol’nikov è il meticcio (perché non è l’individuo, bensì è la razza meticcia, che, nella riconsiderazione della domanda di Raskol’nikov, deve giungere alla domanda circa la legittimità della soppressione dell’altro: è solo il meticciato che può eliminare il meticciato). Alena Ivanovna è il meticciato proiettato, vale a dire il meticciato visto da colui che non ha paura della propria azione, come invece ha dimostrato di avere Raskol’nikov. Raskol’nikov è colui che non ha proiettato il proprio meticciato di razza degenerata come razza che deve essere eliminata, insieme al pidocchio da sopprimere, giustamente individuato nella vecchia usuraia ma come massa alla quale deve essere concessa una resurrezione, poiché, secondo l’istanza avanzata da Sonja, anche il pidocchio Alena Ivanovna sarebbe un essere umano.
In Delitto e castigo c’è la presenza del coro alle prese con la monodia, più che la polifonia. Il coro polifonico in Dostoevskij va bene per far felice il vecchio Lukács – e ingannare Bachtin. Per cui ci si può chiedere: come funziona, questo meccanismo, a livello di romanzo?
La città con i suoi abitanti si stringe in una soffocante vicinanza intorno a Raskol’nikov, mentre le strade della città diventano strade che portano, cioè che lo portano alla sua destinazione finale, come accade appunto nell’episodio narrato in VI/3, quando Raskol’nikov, diretto in casa di Svidrigajlov, dopo aver camminato assorto nei propri pensieri, si accorge di essere giunto fuori strada, e fa per tornare indietro, ma proprio allora vede Svidrigajlov là dove non si sarebbe mai aspettato di trovarlo, e si accorge di essere sulla strada giusta, poiché mai lo avrebbe trovato se avesse preso la strada giusta per trovarlo – indicando come punto giusto dove trovarlo il punto là dove egli avrebbe dovuto essere.
Siamo quindi in una terra che circonda con le proprie attenzioni coloro che la occupano, senza abitarla, non arrivando a drastici interventi come nel racconto La strada di Lovecraft, ma arrivando a “spostare” da una parte all’altra i suoi occupanti, in modo da farli giungere alla decisione definitiva, distruttiva per loro: è una terra degenerata che risponde con vibrazioni ai movimenti dei suoi occupanti più che mai degenerati.
Riconoscendo Raskol’nikov, grazie a Sof’ja Semenovna, la sacralità del pidocchio Alena Ivanovna, Delitto e Castigo riconosce la sacralità del meticciato e la necessità di colpa e redenzione da parte di Raskol’nikov, consistente nell’avere eliminato un singolo pidocchio, il tutto implicitamente compreso nell’atto di difesa del meticciato. Qual è la forma che Raskol’nikov riserva alla propria collocazione nel rapporto con l’Altro?
Un tratto avvicina Delitto e Castigo (1866) a Boris Godunov (1831) di Puškin: la domanda del tipo “perché non io?”, che si pongono i rispettivi protagonisti, il giovane studente Raskol’nikov e il giovane monaco Grigorij, più o meno coetanei. Questa domanda nasce dal nichilismo, che attanaglia l’individuo. L’individuo qualunque può adesso porsi questa domanda perché non riconosce più la distanza fra le cose, le cose e la Cosa. Ma meno che mai riconosce se stesso come forma del meticciato. Questo è ciò che invece dovrebbe fare se rispondesse alla domanda che, implicitamente, egli ha posto guardando l’Altro che aveva di fronte a sé e riconoscendolo come manifestazione del meticciato. Se uno equivale a uno, allora uno qualsiasi può fare quello che prima aspettava a colui che era stato ufficialmente investito di una missione particolare (consistesse questa missione nell’essere Napoleone o nell’essere il figlio vivente dello zar ucciso da bambino).
È sufficiente, questo particolare, a determinare la degenerazione? La degenerazione dell’individuo nobile è qualcosa che riguarda anche la degenerazione dell’individuo non nobile. È qualcosa che riguarda l’individuo solo in quanto l’individuo è il risultato di una degenerazione di per sé. Ciò che infatti supera l’individuo è la mancanza di degenerazione, che è qualcosa che noi non possiamo ancora vedere – e di cui Delitto e castigo non parla, così come non parla il Boris Godunov di Puškin.
Se le strade che portano sono una caratteristica del romanzo moderno (Hans Ulrich Gumbrecht, La strada, in Il romanzo. IV. Temi, luoghi, eroi, Einaudi, Torino 2003, pp. 465-493), allora la lettura di un romanzo deve comportare, nel lettore, il confronto con le varie strutture del romanzo, realizzate o possibili – affinché venga portato nella nuova forma. Così, leggendo un romanzo, noi siamo portati verso nuove forme possibili, che possiamo solo intravedere, attraverso il vecchio tipo di romanzo che stiamo tanto leggendo quanto lasciando.
Il ragionamento di Raskol’nikov blandisce la vicinanza, ma, come succede a Boris Godunov, non è all’altezza della sua azione e rimane vittima di una falsa vicinanza che continuamente lo spia e commenta la sua azione. “Tutti sanno!”, pensa egli diverse volte nel romanzo a proposito del suo delitto, di cui, in effetti, nessuno sa niente, poiché l’unica che, di colpo, aveva saputo, la sorella del pidocchio Alena Ivanovna, era stata eliminata proprio da Raskol’nikov. La risoluzione avviene infatti tramite la riconquista di una vicinanza, questa volta non più ostile. Quindi attraverso una vicinanza fatta infine oggetto di una domesticazione. Cioè una vicinanza falsa.
Subito dopo la condanna a otto anni di lavori forzati in Siberia, Sonja si trasferisce nel villaggio siberiano dove c’è la colonia penale in cui è rinchiuso Raskol’nikov, in modo da stargli vicino. Dal canto suo, Raskol’nikov non prova nessun sollievo per questa vicinanza non richiesta e tiene a distanza gli altri condannati perché non si considera colpevole. Egli è ancora sicuro della distanza che ha instaurato con il gesto compiuto, anche senza averne saputo poi trarne le conseguenze. Infatti, per Raskol’nikov il singolo pidocchio è ancora da eliminare. Sonja si acquista invece la simpatia dei detenuti attraverso la vicinanza che ella manifesta nei loro confronti.
La collocazione di Raskol’nikov come individuo ha adesso l’efficacia di un punto determinabile attraverso una vicinanza che è avvicinamento (o ingrandimento lungo una carta geografica all’inizio comparsa a distanza). Così Raskol’nikov viene rintracciato, nel romanzo, nella sua nuova collocazione in Siberia: «Siberia. Sulla riva di un fiume ampio e desolato sorge una città, uno dei capoluoghi amministrativi della Russia; nella città c’è una fortezza, nella fortezza una prigione. In questa prigione è rinchiuso da nove mesi […]» (Epilogo, 1, p. 497).
Il gesto di Raskol’nikov proietta il meticciato nell’Altro, ma non riconosce l’altro in sé come risultato di una degenerazione, da qui l’impossibilità di via d’uscita – che solo può essere impostata attraverso la distanza; cosicché l’unica via d’uscita deve impostarsi attraverso una nuova formulazione della nozione di vicinanza, che è l’omologo della formulazione nichilistica della nozione di individuo.
Così la vicinanza è qualcosa che condanna il gesto di Raskol’nikov, tanto è vero che i detenuti ritengono Raskol’nikov un “ateo”, un pensatore nichilista, uno che pensa diversamente da loro e che pertanto essi ritengono giusto condannare all’isolamento e al disprezzo, fino a considerare giusto tentare di sopprimerlo. Tutto in considerazione di una falsa distanza.
Soprattutto nella seconda versione, il Boris Godunov di Musorgskij, derivato dal dramma di Puškin, insiste su questa vicinanza con la grande importanza attribuita al coro. Il coro non è più un personaggio indicante una collettività singola, come nelle varie forme del teatro d’opera, che ha uno spazio di movimento ben delimitato, che lo fa entrare in scena, cantare e uscire, ma un elemento fluido che serpeggia plurale intorno all’infanticida, allo scopo di non dargli scampo, e stringerlo fino allo strozzamento. Saltando da una vetta all’altra del tempo, lo si potrebbe vedere come l’anticipazione dello straniamento epico, che sul palco osserva, commenta e condanna i gesti degli odiati potenti.
Dopo una malattia, che ha coinciso con il periodo pasquale, Raskol’nikov avverte una differenza e sente la vicinanza di Sonja. Quella vicinanza della donna, che è amore, gli permette di comprendere la vicinanza con tutti gli altri esseri umani e quindi la mostruosità del suo gesto, per cui egli è pronto a scontare la pena, ormai di soli sette anni, e quei sette anni, che adesso sono paragonabili a sette giorni costituiscono il confronto fra la Settimana di Passione e la settimana di creazione del nuovo mondo fondato sulla vicinanza rinnovata, che egli ha appena terminato di inaugurare.
Abbiamo così una strana ambiguità: l’omicidio è condannato, ma solo grazie a quell’omicidio un uomo ha ottenuto la salvazione – quindi quell’omicidio è stato un bene e se, per disgrazia, esso non fosse mai stato commesso, Raskol’nikov non avrebbe ora nessuna possibilità di resurrezione, poiché la resurrezione era ciò che egli chiedeva, e solo tramite il delitto è adesso chiaro che egli può ottenerla. Qual è dunque la funzione della vecchia usuraia? È la funzione di una domanda mal posta oppure posta fuori tempo. Perché ciò che il nuovo tempo impone, non riguarda l’uccisione di un individuo (alfine di migliorare le condizioni di vita di una piccola comunità – come era nelle intenzioni di Raskol’nikov), bensì l’uccisione di una razza (alfine di alleviare la terra). Infatti questa resurrezione si basa sul delitto individuale, che è ciò che Dostoevskij poteva ottenere tramite la forma del romanzo (e giungendo così alla formula del “romanzo slavo”), mentre ciò che bisogna ottenere – ora – è la nuova forma epica, che non può che mettere il genocidio al posto prima tenuto dal delitto individuale, e cancellare la ridicola resurrezione nel pieno pentimento nella macerazione del meticcio slavo, perché ciò che deve ottenere questa nuova forma, non è una nuova vicinanza attraverso la vecchia forma del romanzo, ma l’epica della distanza attraverso la nuova forma, che noi non possiamo vedere.
Ogni tanto mi chiedo: “Comparirà mai un romanzo, di cui si possa dire: ‘ecco una cosa diversa?’”. Ma mi piace pensare che Dostoevskij, questo disgustoso meticcio slavo, nell’ultimo sogno di Raskol’nikov abbia voluto lanciare un segnale, su ciò che realmente comporta l’arrivo di ciò che è slavo in Europa… In quanto grande artista, Dostoevskij ha messo in guardia sul pericolo rappresentato dalla sua razza.
È un po’ come quello che avviene negli ultimi biglietti di Nietzsche, dove tutti quei messaggi, scritti a persone diverse, sembrano tendere a un unico significato, trasmettendo ai diversi destinatari lo stesso messaggio e dove il senso ultimo, raggiunto nell’ultima lettera, che è anche quello fatto ormai rizoma, riporta il nome “Nietzsche”, che era il nome iniziale, conclusione del percorso, e dove l’avvio è invece nel biglietto a Brandes, che gioca sul fatto di avere scoperto ciò che era ormai facile trovare, ma impossibile perdere.

Il film

Il film tratto da un romanzo appassisce cose che in un romanzo sono presenti. Ma questo dipende dal fatto che, nel film, ci si accanisce a seguire una grammatica di racconto stabilita a livello di azione. Di per sé il film tratto dal romanzo potrebbe ricreare il romanzo in altri modi, arricchendo anzi il romanzo. Si è scelto di limitarsi a ciò che si intende come azione – dando per scontato che il romanzo sia costituito da una serie di azioni. E stando così le cose, il film sarebbe chiamato a riassumere ricordando azioni. Il film ha l’effetto di una serie di tableaux vivants, che ripropone i momenti in cui l’azione ha meglio imbrigliato i personaggi nel romanzo, intervenendo dove lo scrittore poteva dal canto suo soltanto agire sull’immaginazione del lettore. Il film si pone come aggiornamento tecnologico del genere romanzo.
Immaginiamo un film tratto da Moby Dick di Melville, che presenti non solo l’azione legata alla caccia alla balena di nome Moby Dick, ma anche tutta la parte enciclopedica sulla balena, che costituisce il tratto caratteristico del romanzo di Melville Moby Dick. Vale a dire: immaginiamo il film che da Moby Dick non è mai stato tratto.
Un romanzo comprende parti narrative e parti sceneggiate – queste ultime sempre più insistenti. Il film dovrebbe tenere presente questa alternanza, così come ogni film dovrebbe basarsi sul rapporto tra film e cinema – in questo devo dire che il detestabile finocchietto e meticcio italiano Pier Paolo Pasolini aveva perfettamente ragione nel richiamare il rapporto che la linguistica strutturalista ha stabilito tra “lingua” e “parola”.
Margaret Doody ha fatto notare (Dare un volto al personaggio, in Il romanzo, I, Einaudi 2001) come gli illustratori dei romanzi si siano sempre concentrati sui momenti fondamentali della trama come momenti che si possono riassumere in una singola scena di azione. Come poi i registi cinematografici, essi volevano mostrare i personaggi in azione o al centro di una scena di grande azione.
Al punto in cui siamo, trarre un film da un romanzo vuole dire permettere al lettore di vedere quello che il lettore si sarebbe aspettato di vedere come ciò che avrebbe veduto se fosse stato lo spettatore, anziché il lettore, di quel testo.

Limiti del romanzo

Forma estrema del romanzo, sempre possibile: “Romanzo senza parole”.
Alternativa: «Tutti i materiali della nostra vita sono materiali di cui possiamo fare ciò che vogliamo. Chi ha molto spirito fa molto della sua vita. Ogni conoscenza, ogni avvenimento, per chi è completamente spirituale, costituirebbe il primo elemento di una serie infinita, l’inizio di un romanzo infinito.» (Novalis, Polline, 66, in Id., Opera filosofica. I, traduzione di Giampiero Moretti, Einaudi 1993, p. 383.)
Abilità: Scrivere un romanzo eliminando trama e personaggi.
I libri devono fare a meno del lettore: devono essere posti in modo da leggersi e parlarsi esclusivamente fra di loro. Il libro deve così tendere a una fraterna forma nucleare, volta a sfiorare la totale illeggibilità. Si ha letteratura solo quando il desiderio di uccidere la lingua ha trovato un modo fra i tanti ufficiale di manifestarsi.
Certamente, la letteratura offre opportunità a colui che sbircia la possibilità di guadagnarsi da vivere continuando a scribacchiare storie – in quanto scrittore. È lo scrittore fatto mestierante, che realizza il dominio tecnologico dell’arte nefasta di scrivere; ma la letteratura accoglie pure la possibilità dello scrittore che niente sa di ciò che scrive. Con lo scrittore avviene come col pensatore: non capisce ciò che fa, meno ancora gliene importa qualcosa; è ciò che di estraneo egli immette nell’opera che permette di ricreare continuamente, in forme diverse, quello che egli per primo ha pensato, tornando sempre a fissare.
Quello che Foucault non ha considerato nell’articolo Che cos’è un autore?: l’Autore è il Lettore ideale del libro che pure alla fine egli ha scritto, quindi è il lettore ideale del libro che, da sempre, egli avrebbe voluto leggere anziché scrivere. Si scrive solo per leggere la propria opera; non per essere autore, ma per diventare ideale e perfetto lettore di un libro che si configura sulla base di un traguardo di illeggibilità. Altrimenti si è soltanto scrittori di professione.
Giorgio Manganelli aveva fissato la letteratura “come menzogna”. Andava bene. Se consideriamo la letteratura come menzogna, possiamo vedere lo scrittore impegnato nella questione della verità come ciò con cui meno che mai ci si può porre in dialogo. O che spreca il suo tempo insieme al talento suo. Prendiamo Pasolini. Il guaio di Pasolini è che era un finocchietto, per cui non si può dire qualcosa su Pasolini senza dire che era un finocchietto; anzi, ad essere precisi senza dire che era un finocchietto italiano. Ma parlare del finocchietto italiano Pasolini è proprio quello che non si può fare. Così non si parla del finocchietto Pasolini e non si capisce che l’unico modo di parlare di Pasolini non è altro che quello di parlare del finocchietto Pasolini. Parlare del finocchietto Pasolini, è parlare del meticcio italiano. E qui ritorniamo daccapo. Fermo restando che parlare del finocchietto Pasolini non è parlare dei finocchi: né in bene né in male, deve essere chiaro. Concludo ribadendo che Pasolini era un finocchietto italiano.

Scrivere in verticale

Si è sempre pensato a scrivere in orizzontale, ora bisogna cominciare a scrivere in verticale. Scrivere in orizzontale è portare avanti una storia, dimostrare una tesi; scrivere in verticale è tuffarsi in ogni parola, andare a fondo (in tutti i sensi), anziché andare avanti. L’aforisma di Nietzsche è in parte un modo di scrivere in verticale. Anche tutto il pensiero frammentario (Novalis) lo è.
Contrariamente a quello che cercano di ottenere i corsi di scrittura creativa, bisognerebbe ora creare la possibilità di scrivere, in modo difficile, un libro impossibile da leggere.
Scrivere è tenere insieme le cose, impedire che si sparpaglino dappertutto.
Leggere i libri è sempre un’attività compromettente. I libri si indeboliscono quando vengono letti, eppure non è possibile evitare di leggerli, se si vuole realmente conoscerli. Alla base di tutto deve esserci il principio di leggere tutti i libri del mondo e scriverne uno che li contenga infine tutti. Che è il principio di scrivere un romanzo interamente fatto di frasi fatte. Allora leggere diventerebbe un modo per scrivere un libro e per vanificare il concetto di Autore. L’Autore muore sempre quando il suo libro viene letto. Bisogna non solo imparare a scrivere in verticale, ma anche imparare a leggere in verticale.