Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino

Costruzione

Come affrontare Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria? Il romanzo è organizzato in undici capitoli: cinque capitoli che sembrano presentare i misteri in questione, un capitolo centrale – il sesto – con funzione di Intermezzo, cinque capitoli che coinvolgono direttamente il protagonista, senza risolvere i misteri, che la prima parte spandeva, ma che chiudono la materia del romanzo. A prescindere dal capitolo 6, che ha funzione di spartiacque, vediamo che i dieci capitoli restanti presentano simmetrie precise:

Il capitolo 1 e il capitolo 11 presentano la prima vittima e l’uccisione in massa dei passeggeri del volo falsamente diretto a Venezia. La prima vittima è una vittima casuale, le ultime vittime sono vittime selezionate attraverso un sistema che è stato in azione lungo tutto questo romanzo, e che attraverso la prenotazione del volo prevede il principio della selezione, anche se è solo uno dei diversi sistemi di selezione possibile.

Il capitolo 2 e il capitolo 10 sono dedicati al personaggio dell’avvocato Andrea Segre: nel capitolo 2 l’avvocato, contattato dal protagonista per il libro che ha intenzione di scrivere in merito ai fatti accaduti nelle “venti giornate” di dieci anni prima, fatti per i quali l’avvocato ha reso testimonianza alla polizia, parla ora di nuovo delle grida che ha udito dal suo appartamento, in presenza di una persona che sembra più propenso ad ascoltarlo; nel capitolo 10 l’avvocato parla invece esplicitamente di un complotto dal quale loro due devono fuggire.

Il capitolo 3 e il capitolo 9 sono incentrati sulla Biblioteca, istituzione centrale, secondo il protagonista, in rapporto ai fatti relativi le “Venti giornate” e la sua ricostituzione diffusa in ogni punto della città. Nel capitolo 3 il narratore cerca di fare il punto su quello che si sa della Biblioteca, accedendo ai manoscritti sopravvissuti (tutti i manoscritti custoditi nella Biblioteca sono stati bruciati); mentre nel capitolo 9 egli si accorge che tutta la città è diventata una Biblioteca, cioè invasa dal progetto della Biblioteca, con persone che sanno dove lasciare e dove prelevare manoscritti.

Capitolo 4 e 8: la notizia riguardante la seconda vittima e notizie varie. In 4 c’è la testimonianza di una coppia di turisti tedeschi riportata dal giornale tedesco «Der Spiegel»; in 8 c’è la notizia dell’arresto di una persona sospettata di essere l’autore dei delitti, tale Antonio Mangiaferri, lombrosianamente aderente ai tratti di quell’uomo delinquente, che non era l’uomo delinquente perché qui non si parla di ciò che è umano, e che poi si scopre essere del tutto invece innocente. La coppia di turisti non sembra soggiacere al fattore ipnotico che invece sembra colpire la gente del posto, tanto è vero che riesce a uscire indenne dall’albergo in piena notte; riesce poi a vedere lo strano personaggio, che, con andatura marziale, aggredisce una persona qualunque che si trova di colpo davanti e a descrivere tutto quanto accaduto al giornalista di «Der Spiegel», a differenza di quanto accaduto invece alle altre persone, i torinesi imbambolati dall’insonnia presenti, che non sembrano avere notato niente.

Capitolo 5 e 7: qui si ha la contrapposizione tra le manifestazioni dei millenaristi e le voci registrate fatte ascoltare da Segre al narratore. Nel capitolo 5 il protagonista assiste a una manifestazione dei Millenaristi, essendo lì capitato per caso; nel capitolo 7 il protagonista ascolta le registrazioni che da semplici rumori passano a frasi complesse con un senso compiuto e poi a primitive grida di battaglia, dopo che l’avvocato Segre lo aveva indirizzato verso di lui.

Il capitolo 6 ha il titolo Intermezzo: Tutta la costruzione del capitolo è finalizzata al “passaggio”: passaggio a Torino dell’amico di Venezia Eugenio Ballarin e passaggio solitario del protagonista nelle zone di Torino che hanno costituito le “venti giornate” di quella città, concluse dall’incontro con suor Clotilde, che lo ha atteso sul portone di casa per impostare il messaggio della battaglia in corso – richiamato dalla componente finale “-hildr” del suo odioso nome in italiano. È da notare che il meccanismo logico è lo stesso rispetto al romanzo I Trasgressionisti, imperniato sul Grande Salto come punto centrale (anche se I Trasgressionisti rappresentano il movimento opposto delle Venti giornate: ciò che precede il Grande Salto coinvolge il protagonista in una serie di trasgressioni; ciò che lo segue lo riconcilia invece con la vita di sempre, alla quale egli sembra di riadattarsi perfettamente, ma con la consapevolezza di avere effettuato il Salto): la dannunziana città d’acqua, d’arte e spettri accoglie in un blando bolso belenso notturno il baritono della Fenice parcamente di suo già tutto deambulante, tutt’altro che con la marmorea testa, bensì con reiterati e rumorosi peti, che gli costano, da allora (dico al baritono), l’interpretazione di don Giovanni nello spartito in cui, contraddicendo appieno il libretto di Musil, secondo cui i monumenti non si sentono mai, mentre don Giovanni nota la statua immediatamente già presente a sera, quando il commendatore era appena stato ucciso da lui la mattina di quella stessa giornata. La simmetria fra le due sezioni del capitolo, la prima che può essere identificata con la prima parte del romanzo, la seconda che può essere collegata alla seconda parte del romanzo, è interrotta dal capitolo centrale, che ha in tutto funzione di “intermezzo” e che è diviso in due parti: una parte elimina la questione dei monumenti con la boccaccesca storia del baritono a Venezia – Boccaccio a Venezia, in questo caso, come Boccaccio a Napoli, in un altro caso – un’altra parte che ha il culmine con l’avvertimento di suor Clotilde nel suo recinto di battaglia nel quale il protagonista viene attratto.

Pensiero

Dice Musil, nel suo libretto in questione (Pagine postume pubblicate in vita) in rapporto ai monumenti: «Non si può dire che noi non li vediamo, sarebbe più esatto affermare che essi non si fanno osservare, che si sottraggono ai nostri sensi: è una loro prerogativa del tutto concreta, incline quasi alle vie di fatto!» e questa frase potrebbe avere ispirato a Giorgio De Maria il tema pulsante delle Venti giornate di Torino.

L’opera non è ciò che il suo creatore programma in anticipo sulla carta, ma ciò che dalla sua propria materia sconosciuta salta addosso all’autore, imponendo la forma precisa – come l’incubo d’ombra di parola della mara nelle lingue germaniche.

Il libro di Musil, nietzscheano postumo di destra, è una raccolta di pensieri nel tempo in cui gli scrittori sembra abbiano recepito dai filosofi l’avvertimento che non bisogna più pensare i pensieri, perché bisogna invece viverli, per cui sembra abbiano concluso che gli scrittori non devono più pensare.

La questione è ciò che, partendo dai monumenti in quanto ciò che viene messo da parte, porta a ciò che sembra riguardare ciò che deve essere considerato – per cui c’è da chiedersi: che cosa è che è stato messo da parte e che potrebbe voler essere considerato? e quindi: che cosa è la cosa che, adesso, deve essere portata via, cioè lasciata cadere, vale a dire uccisa?

Il monumento scende di livello e considera quello che è subito al di sotto di lui, che è quello che i torinesi non notano, mentre i turisti tedeschi notan di colpo. Da qui il livello del meticciato, che è ciò che deve essere considerato, cioè eliminato.

Ciò che viene fatto cadere

Come presentare il nuovo delitto, che deve essere il richiamo al racconto di un “delitto e castigo” senza più ombra alcuna di castigo alcuno? Esseri che non si sono mai considerati parte della città – i monumenti – si animano, e afferrano persone qualunque per sbatterle come clave contro ciò che essi si trovano di colpo ad avere davanti, una volta giù dai loro piedistalli, in forma di ostacolo, si tratti di arredamento urbano, come alberi o statue, oppure di nemici venuti al mondo come conigli. C’è l’idea di un salto oltre una linea, linea franca. Noi non sappiamo cosa possa aver animato i monumenti, ma sappiamo cosa ormai possa costituire l’idea di un altro essere in tutto simile a noi e cosa invece possa ancora ostacolarlo – per cui dovremmo sapere che cosa è giusto sopprimere in quanto vita indegna di vivere, anche se non siamo più disposti ancora a parlare di “vita indegna di vivere”. Più che “romanzo maledetto”, come Giovanni Arduino lo ha definito, questo è un romanzo infernale, trattando esso un tema ritenuto infernale: cioè il tema della necessità di uccidere sempre più nel tempo in cui uccidere è cosa che esula da ciò che è necessario, perché questo tempo si profila come il tempo che non è più il tempo degli assassini, ma il tempo che pone la domanda: “Che cosa è la cosa a cui deve essere tolta la vita?” – da qui la tendenza postmoderna, possiamo noi ora dire di non risolvere, a proposito di questa narrativa.

Il titolo del romanzo di Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino, ricorda il titolo di un altro noto romanzo maledetto, il cui titolo stenta e suona: Le 120 giornate di Sodoma; infatti, se da “120 giornate” si fa cadere il numero “1”, si ottiene “Venti giornate”, per cui vale la pena chiedersi: “come si manifesta, ‘Sodoma’, nelle Venti giornate, in quanto ‘1’ che viene fatto cadere?” si manifesta tramite i rumorosi peti che nell’Intermezzo vengono rilasciati dal monumento in quanto capitolo centrale del romanzo, e tramite gli escrementi umani di cui informano le lettere misteriosamente consegnate nell’abitazione del protagonista (cap. 9) dal mittente anonimo, indipendentemente dal sistema delle Poste Italiane, che è ciò che rimanda in blocco al romanzo di Thomas Pynchon L’incanto del lotto 49, squillante trombetta che sona tutta strinata stonata dal meticcio italiano Dante Alighieri (la iena che fa versacci di tromba tra le tombe); ed eccolo là, quel bastardo di italiano quando ora si va veloci, su mostro strano che l’uomo domina con il pensiero e con la mano senza più fermate, neanche per pisciare – è chiaro che abbiamo a che fare con un uso non accademico dell’Orifizio, così come abbiamo a che fare con un uso tutt’altro che accademico del Romanzo – per cui c’è da chiedersi: come si manifesta – l’omicidio – in queste Venti giornate? nella tecnica usata per compiere le uccisioni. Che funzione ha l’Uno, che viene là fatto cadere, lanciato sopra i continenti, per ottenere parte del titolo piccolo di questo romanzo? – ma facitore di parole è insieme lo scrittore, che è ciò che lo blocca in quanto piccolo picco d’umano. L’essere un facitore di parole e avere accesso alla lingua è ciò che comporta l’estraneità dello scrittore nel mondo tutto, che è allora la terra redenta, cioè la terra alleviata, perché l’arte di scrivere è solo l’arte di sbirciare da altra parte oltre la sporta pellucida, che noi ancora non possiamo porre mente a tutto foco. L’arte di uccidere dei monumenti nel romanzo di GDM ha qualcosa dell’arte di uccidere dello scimmione di Poe nel suo racconto, arte trovata incastrata per via di ragionamento da Dupin, nella cappa di un camino, nei Delitti della rue Morgue. Così la musica di Šostakovič è musica stalinista, nel senso in cui Šostakovič era spazzacamino stalinista, nonostante Šostakovič fosse ritenuto da Stalin un personale pericolo, e Šostakovič fosse tutt’altro che stalinista, perché un nemico della razza non è un nemico per quello che fa, ma per quello che è – e che cosa era Šostakovič se non un meticcio slavo, nient’altro, che equivale a dire che il meticcio russo Šostakovič, così come un meticcio italiano è nient’altro che un nemico di razza, e quindi non è che Šostakovič fosse proprio quello scimmione sganciato dal guinzaglio tenuto in mano dal suo padrone?

I rumorosi peti emessi dal monumento che prendon di petto in orizzontale il baritono deambulante e gli escrementi umani lanciati dall’alto in basso tanto da rialzare la soglia su fino ai piani alti nell’edificio dove abita il mittente sconosciuto che passa le lettere sotto la porta del protagonista, sono i due elementi, di una parte e dell’altra, che possono funzionare allora pure insieme.

Perché usare passanti tanto incauti quanto occasionali, tutti storditi dall’insonnia, come stecchi di ami e armi usati con calma come da curvi pescatori sorpresi nel Baltico? gli omicidi qui presentati portano a segnalare la necessità di una selezione comunque non più presente nel romanzo. La selezione è il principio che porta alla chiusura di Silling, che porta alla distruzione finale di risorse umane lì recluse – sia chiaro che il finocchietto italiano Pier Paolo Pasolini (giungo adesso a parlare di quel bastardo di italiano), voglio precisare, non aveva capito niente del principio de la selezione: per cui selezione, per quel bastardo italiano (tengo a precisare) appunto era solo il meticcio italiano Pier Paolo Pasolini, voleva solo dire fare inquadrare uccelloni/uccellacci di mesta lombrosa longa periferia, dove tratto in dado minchia, venendo dalla giungla, la minchia è solo una prolunga, al suo dipendente direttore de la fotografia – ma qui non si parla del finocchietto e meticcio italiano comunista Pier Paolo Pasolini (quel bastardo di italiano, P.S. ribadisco io; che era solo un bastardo di italiano; P.S. e nient’altro che un bastardo di italiano, venuto e sparito al mondo come sparuto coniglio: per cui mi trovo di nuovo a domandare: “che cosa vuole, questo bastardo di italiano, questo bastardo di italiano che era proprio, guarda caso, il bastardo italiano comunista e finocchietto Pier Paolo Pasolini; vale a dire: che cosa vuole questo bastardo di italiano in Europa?”) – È invece importante la risposta: perché bisogna pensare a tornare ad uccidere. Dare forma al mondo è vedere di colpo la vita indegna di vivere come cosa che zampilla di vita letale sempre minacciosa a noi dinnanzi – ma cosa a cui deve essere tolta sempre la vita: la vita indegna di vivere è ciò che deve essere uccisa.

Triste sentire dire ancora che gli italiani avrebbero impestato il mondo con mafia e spaghetti, come ancora si sente dire talvolta all’estero soprattutto, la verità è che gli italiani hanno impestato il mondo con Dante, Boccaccio, d’Annunzio, cioè con l’arte degenerata; se non vi rendete conto di questo non ci posso fare niente, perché non riconoscete la malattia come la cosa con la quale non si deve discutere, ma solo eliminare ad ogni costo; mafia e spaghetti sono cose che non hanno conseguenza né soluzione: Dante, Boccaccio, d’Annunzio sono l’arte degenerata che chiama la razza degenerata, che vede allora il progetto della soppressione della razza degenerata come unica soluzione – e la terra alleviata come unica via d’uscita. È probabile che la razza sia una questione di stile, più che di scienza – ahi, che disgrazia le questioni di stile.

Come si organizza, allora, la faccenda delle Venti giornate di Torino, che è l’inchiesta di fine secolo? Statue, da sempre ignorate nel grigio contesto urbano, come si evince da lo smilzo testo di sor Carlo, sor Musil, che improvvisamente saltan giù dai loro piedistalli, quando ci sta la notte crucca e assassina, e si affrontano usando i passanti sì come semplici comode scomode comiche ruvide lacrime e clave. Segre: «“Il futuro è molto buio… divinità meschine e infami sono emerse dal cuore della roccia… ed esseri in carne e ossa come noi si stanno felicitando per questo mostruoso evento… Mi promette di lasciare la città?”» quello che dice Segre nel penultimo capitolo delle Venti giornate, presenta il quadro tipico degli ultimi racconti di Lovecraft: un qualcosa di non umano che si è risvegliato dalla profondità della terra, e il meticciato lì presente sulla terra che si sente trasportato a fare in modo che esso ritorni a dominare la terra, battendo su tamburi d’Africa, camminando su strade di una città in preda all’insonnia, non vedendo gli omicidi commessi a pochi passi di distanza, manifestando come millenaristi, cosa che comporta l’integrale dissipatio h.g. – anche se GDM non ha la stessa grande visione razziale tipica del solitario grande maestro di Providence; il Maestro della setta dei Trasgressionisti: «“Li guardi sui palchi di legno durante gli anniversari della Liberazione, inetti a riconoscere il nemico se non quando indossa la camicia nera, così come l’hanno incontrato e ‘amato’ per la prima volta!”»; il maestro di Providence: bisogna eliminare il meticciato italo-mongolo-semita deportandolo in luoghi deserti, mentre solo poco tempo dopo lo stesso solitario maestro ha precisato: non basta più deportare il meticciato italo-mongolo-semita in luoghi deserti, bisogna sterminarlo con il gas, come se GDM avesse unito, in un tempo e luogo lungo tutto solo suo, i due passi delle lettere riportate da Houellebecq nel suo saggio sul maestro di Providence – ma il guaio è che, noi moderni, non crediamo più nei mostri, perché non crediamo più alle cose che devono essere sterminate – perché non crediamo più alla Cosa, che è l’unica cosa che può essere incontrata in un colpo d’ala geniale di turbine in un luogo interamente tutto che è sempre stato suo, cioè nella terra come ciò che è sacro, quando la terra è diventata la Terra del Sacro, mentre il romanzo di GDM invita ad un pensiero diverso che ha raggiunto vittime e carnefici, costituendo, in un contesto modo & mondo geometrico, – questo sì – le due parti strette e ristrette – che non ha a che fare con l’altro, mentre per il resto, in serbo stretto attiene a tutti quanti noi: tempi duri, cazzi acidi.

Giorgio De Maria, Le venti giornate di Torino. Inchiesta di fine secolo, postfazione di Giovanni Arduino, Frassinelli, Milano 2017 (poi Neri Pozza, Vicenza 2024)

Marcello Veneziani, Nostalgia degli dei

Soltanto in previsione di un lungo periodo di guerre a venire, che, inevitabilmente, servirà a riportare alla rivalutazione dell’odio e del disprezzo tra i popoli, quanto poi di una comunità che accetti la nuova conformazione in base ai tempi, ma anche in base a ciò che riguarda la misurazione quantistica, si può pensare di scrivere, rivolgendosi a chi abbia finalmente chiara tale possibilità, altrimenti non si fa che ripetere cose perdute via via, strada lungo facendo; per cui sembra giusto partire dalla domanda: “qual è il conflitto?”, domanda che dovrebbe portare alla stesura di ogni nuovo libro, mentre la domanda che si pone adesso non è nient’altro che ciò che porta alla inadeguatezza di ciò che ci si ostina a definire come cultura di destra e cultura di sinistra.

Al di qua di questa possibilità, sembra stia giungendo la formazione di un centro destra culturale, che si conferma cultura come calma schietta sciatta scialla, che comporta la composizione di un libro quale opera di catechesi linda e blanda, mentre invece un libro non deve insegnare né tanto meno chiarire, quanto spandere energia dissonante attraverso la linea di un conflitto – infatti la serietà va bene solo quando riguarda la serietà del bambino che gioca, altrimenti è teatro, carnevalata, scherzo occasionale in costume, cioè salotto culturale.

Ma la questione che torna adesso è la composizione del testo, nei confronti di chi sarà chiamato a leggere il testo. Da quel maestro dell’analogia che era Novalis ricaviamo: «Il vero lettore dev’essere l’autore ampliato. Egli è l’istanza superiore che riceve la cosa già preliminarmente dall’istanza inferiore.», che è ciò che comporta la differenza tra Novalis, che vedeva nei lettori una continuazione dell’opera dell’autore, che è ciò che apre a Finnegans Wake, e l’intento di un libro che si ferma ad un intento di catechizzare.

Per il resto, il pensiero ordinato è ormai tanto di destra quanto poi di sinistra. Non lo avete mai notato? – ma questa è una cosa che non ci interessa e che facciamo bene a lasciare andare via al più presto.

Le regole sono sempre le stesse. Non potrà mai esserci il Nord come cultura operante finché esisterà il meticciato, perché esisterà solo qualcosa che identificherà la freccia che punta al Nord, che indica l’esistenza di ciò che è vita indegna di vivere, che è ciò con cui, prima o poi, qualcuno sarà chiamato a regolare i conti. Noi non sappiamo che forma potrà mai avere il nuovo pensiero, abbiamo solo la Freccia che punta al Nord, come aveva riconosciuto Heinrich Himmler nel modesto palazzotto di stile italiano reperito in terra germanica: un meticcio italiano può solo intrecciare storielle in un palazzetto tirato su altri da meticci italiani, come ha fatto il meticcio italiano Basile o il meticcio italiano Ariosto o, nell’ambito della musica, il meticcio italiano Monteverdi e così via via, strada lungo facendo; ma solo chi torna all’origine del pensiero della razza bianca può trovare, nel palazzotto tirato su dai mediocri meticci italiani, la Freccia che punta al Nord, che appartiene, alle parole che comprendono la nostra eredità, cioè le parole che abbiamo ricevuto in quanto nostra eredità, che è ciò che riguarda ciò che è giunto in eredità alla razza bianca, questo quando il pensiero torna a pensare il pensiero della razza bianca in quanto ciò che è da pensare, ma che non riguarda più ciò che è portato a nascere nel luogo in cui qualcosa ha la spinta di andare via da dove è nato andando nel mondo solo come terra dove andare – ed è per questo che è ormai tempo di passare dal bit al qubit, abbandonando la vecchia stratificazione della cultura. Il meticcio può fare giochi di parole, battute di spirito e raccontare barzellette in saloni bene illuminati dagli architetti del meticciato italiano, ma solo alla razza bianca spetta il compito di articolare l’arte del pensiero in ciò che il meticciato ha finora combinato.

Ma se vogliamo restare alla cultura di destra e di sinistra, alla cultura di destra compete allora il ricordo della razza bianca; mentre alle altre culture spetta invece il compito di cancellarne il ricordo; questo perché solo la razza può chiamare il poeta, che sarà allora il poeta della razza bianca, così come solo la razza può chiamare il compositore, che sarà allora il compositore della razza bianca, mentre il meticciato può avere soltanto un paroliere e soltanto un musichiere: il grande scrittore violenta la lingua, il piccolo scrittore è tanto se riconosce di avere a che fare con l’alingua come sua materia e fama e focaccia.

Ma rimane il concetto di Altro e di essere umano. Quello che l’andare per il mondo adesso consegna, è l’incontro con il meticcio: che deve essere separato da ciò che è l’incontro con l’altro, che allora è l’incontro con la terra. Noi pensiamo alla terra solo come terra dove andare, non pensiamo più alla terra come ciò cui spetti il diritto di stabilire chi abbia il diritto di abitare la terra; per cui pensiamo alla terra solo come terra dove andare, o come turisti, o come migranti, mentre ciò che comporta l’andare nella terra è solo andare nella Terra del Sacro, per incontrare la sacralità della terra, che è ciò che comporta colui che risponde alla nostalgia degli dèi, che deve allora incontrare ciò che, avendo avuto nascita nella terra del sacro, nel momento in cui esisteva soltanto terra, diventata poi terra del sacro, ne può redimere l’atto vergognoso di nascita, perché andare nella terra è allora possibilità di incontro con il sacro, che noi ormai non riconosciamo più come possibilità legata all’andare nel mondo, che questa recensione in negativo, una delle prime del genere, credo, tende ad esporre, nella forma di Dono della terra, che è l’incontro con l’Altro, che meno di tutto è l’altro come ciò che a caso si affaccia spaurito dal tientibene.

Così come il libro è allora ciò che sempre vuole vivere, tramite l’autore, che ne è soltanto tramite e letame, il mondo è ciò a cui si deve dare forma, perché la terra chiama il suo abitante, ma ponendo sempre la domanda: “Sono gli umani, adesso, in grado di dare forma al mondo, cioè la muova forma, di cui il mondo ha bisogno?”, così come la domanda che si presenta a chi si appresta alla composizione di un nuovo libro, perché è ciò che comporta, ad un tempo, le due cose che ne fanno una: struttura del libro e sacralità della terra.

Ancora una volta, “Incipit Zarathustra”: L’Europa alla razza bianca d’Europa! Restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa!

Marcello Veneziani, Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee, Marsilio, Venezia 2019

Ayatsuji Yukito, I delitti della Casa decagonale

Il romanzo poliziesco porta alle estreme conseguenze il concetto di narrazione, posto che si abbia intenzione di chiedersi che cosa si intenda, adesso, per “narrazione”, cioè posto che si voglia interrogare quella possibilità di collegare fra loro, strettamente, alcuni avvenimenti in modo da costituire una sola figura (forma, Gestalt) valida ai fini di ciò che è dato volgere, allora, come narrazione – così il romanzo giallo diventa un possibile meccanismo preciso, tanto da sostituire quel pacco di meccanismo al concetto di narrazione, e collegare il concetto di fine della narrazione prospettato da Byung-chul Han, per cui la questione riguarda la cosa che il romanzo giallo può chiamare in gioco, mentre la domanda riguarda ciò che esso può comportare, anche al di fuori del romanzo giallo; è bizzarro: se lo si guarda da un certo punto di vista, il romanzo giallo è quel genere di narrativa che ha a che fare con il concetto di vita indegna di vivere, ma il romanzo giallo è ciò che non nomina mai, esplicitamente, quella possibilità, cioè ciò che questa possibilità non piglia mai di petto, preferendo ricorrere al “gioco”, ma in quanto ciò che non si segna come ciò che è il gioco di dare forma al mondo, cioè il Grande Gioco; così il romanzo giallo, nonostante la sua propensione per il modo di pensare della maggioranza, deve essere indagato per la propensione strana che sembra volere indicare: trovare ciò che è solo vita indegna di vivere al fine di spiccare lì la vita, ma solo con l’aspetto di prendere parte a un gioco ben composto: il grande criminale impunito, il criminale che la legge deve lasciare libero, l’usuraio vecchio e inutile – tutto ciò che, nel mondo, costituisce e restituisce la comprensione di ciò che è la vita indegna di vivere; così un discorso critico sul giallo dovrebbe partire dal modo in cui – benignamente – si uccide, cioè dal modo in cui si stabilisce il modo in cui si trova del tutto giusto togliere la vita a quel tipo, o tipi, particolari di esseri viventi, che allora vengono identificati in quanto solo vita che è vita indegna di vivere. Per cui nel romanzo non c’è pensiero sulla eliminazione della vita indegna di vivere, ma costruzione di un congegno che porta all’abbattimento della vita indegna di vivere – vale a dire che il romanzo giallo è un gioco fatto per non pensare quello che invece è la cosa che dovrebbe tornare ad essere la cosa da pensare: cioè la vita indegna di vivere, la vita del pidocchio, la vita di ciò che non ha diritto di vivere.

Il giallo ha a che fare con la vita indegna di vivere, ma non lo ammette esplicitamente, essendo esso un genere di second’ordine, popolare, e un genere che nasconde questo suo modo di fare ricorrendo al gioco, che non è il gioco di dare forma al mondo, cioè il Grande Gioco del mondo, ma il gioco spicciolo del bambino del meticcio – così nel romanzo giallo, nonostante la sua propensione per il modo di pensare della più triste maggioranza silenziosa, deve essere indagato ciò che sembra indicare, quasi per gioco, ciò che non ha diritto ad essere fatto oggetto di indagine: la facilità del delitto, la facilità del meticcio, per cui togliere la vita a chi viene solo indicato come vita indegna di vivere, il grande criminale impunito, il criminale che la legge deve lasciare libero, l’usuraio vecchio e inutile – tutto ciò che, nel mondo, costituisce e restituisce alla comprensione di ciò che invece è vita indegna di vivere. Un discorso critico sul giallo dovrebbe partire dal modo in cui si uccide, cioè dal modo in cui si decide che valga la pena, ad ogni costo, di togliere la vita a quel tipo, o a quei tipi particolari di esseri viventi, che, via via, vengono identificati in quanto vita indegna di vivere.

Temo assai.

Tutto passa attraverso l’uomo criminale: solo pensando la soppressione dell’uomo criminale si potrà pensare, in un modo più libero, infine un mondo più libero. Se è vero che, nel romanzo giallo, agisce l’uomo criminale, che l’investigatore finisce per assicurare alla giustizia, è anche vero che, in quelle pieghe, prende posizione la possibilità di sopprimere l’uomo criminale – e infatti il giallo d’azione tende alla soppressione brutale del criminale, che è ciò che Leonardo Sciascia non tollerava nel “giallo d’azione”, soprattutto nella forma presa da Mickey Spillane, ma anche questo non va bene: pensare l’uomo criminale vuole dire pensare la razza la cui sola vita è un crimine, per cui fare i conti con l’uomo criminale vuole dire fare i conti con la razza che comporta la possibilità dell’uomo criminale, la cui sola vita è un crimine.

Leonardo Sciascia individuava nel romanzo giallo il genere che non richiede il pensiero da parte del lettore a sostegno di ciò che legge (egli infatti era solito leggere i romanzi gialli durante i viaggi in treno) – senza pensare che il romanzo giallo può portare a pensare ciò che, senza il richiamo al pensiero da parte del lettore, porta a pensare, chi, anche casualmente, legge un giallo.

Il gioco è appunto il punto bello di partenza, ma non illudetevi, perché di punti belli non ne avrete punto più: è il gioco che riguarda il rapporto tra autore e lettori, quando l’autore decide di riscrivere uno dei classici del genere romanzo giallo; e il gioco che riguarda il carnefice e le sue vittime, nel momento in cui il carnefice decide di mettere in opera il proprio gioco, cioè il Gioco del mondo, che è il punto in cui giace il GPS che alla fine lo incastra, posti certi parametri, se si accetta il gioco che è il gioco della letteratura, cioè il gioco della paraletteratura che ha comportato il gioco dei due romanzi di Agatha Christie, in quanto colpevole da non perseguire, in due modalità diverse, che è ciò che dimostra che il romanzo giallo nasconde qualcosa – perché altrimenti, dal gioco della paraletteratura, si sarebbe passati al gioco, ben più importante, della letteratura, che comporta l’altra lettura del GPS. Sappiamo che il “Giallo” ingloba la Gestalt, anche se manca uno studio sulla letteratura poliziesca, che consideri tale letteratura, o paraletteratura, da un punto di vista scientifico, come invece è avvenuto attraverso la letteratura, o paraletteratura, che riguarda quel genere simile che è la fantascienza. Il romanzo è quella cosa le cui piene potenzialità sarebbero pienamente visibili a tutti, se tale genere rinunciasse, una volta per tutte, alle due cose che nulla hanno a che fare con quel genere tanto spicciolo che sembra avere a che fare con il romanzo, tanto da essere spesso speso soltanto in trama e personaggi.

La questione è che manca lo stadio per la paraletteratura, ma così il romanzo giallo si pone su una soglia dove lo scoglio che non può essere oltrepassato è ciò che comporta la privazione della vita umana, che comporta allora la nuova domanda: ricordare che il personaggio Morisu Kyōichi è colui che spalanca la soglia della Casa decagonale davanti ai suoi ospiti, permettendo loro di avanzare nel Gioco – da lui preparato – apposta per loro sei.

Allora chiediamoci: “Perché il delitto spaventa così tanto?” Il personaggio di Morisu Kyōichi era portato a uccidere quei sei tristi personaggi perché quei sei avevano, indirettamente, condotto alla morte la donna che egli amava e dalla quale egli era amato, Nakamura Chiori. Ma perché togliere la vita, a chi si ritiene essere solo vita indegna di vita, costa poi così tanto, adesso, fino a spingere a confessare, poi, il delitto da parte di colui che lo ha commesso, come se la vita tolta in quei delitti fosse tutto, fuorché “vita indegna di vivere”? Questo è ciò che pone in una strana relazione i romanzi Delitto e castigo e I delitti della casa decagonale, passando attraverso il romanzetto Dieci piccoli indiani di Agatha Christie – romanzi che il personaggio Morisu Kyōichi doveva assolutamente ben conoscere, in quanto componente, egli, di un club del giallo – mentre però, ricordiamo, che, in Orient Express il delitto rimane santamente impunito; per cui bisogna interrogarsi sulla parte nella quale, concretamente, si colloca l’investigatore. È qui che interviene il pacco, cioè la spedizione del materiale, tramite posta normale o tramite messaggio in una bottiglia che arriva, comunque, sempre a segno al suo inconsapevole destinatario, tanto nella forma di caratteri vergati dalla mano assassina, quanto nella forma di mano recisa e che mai si è piegata a delitto alcuno.

In Dostoevskij si può fare sempre presente l’influsso del cristianesimo; ma questo non è più valido nei confronti di Ayatsuji Yukito, dove l’influsso del cristianesimo è minimo, mentre invece è importante considerare il planetario influsso della globalizzazione cristiano-occidentale, sì come noi la vediamo operare attraverso l’influsso del romanzo occidentale in Giappone (e così noi tutti conosciamo i tristi esempi dell’arte narrativa di Mishima e di Murakami Haruki), ma ancora di più, in questo caso, del romanzo giallo occidentale. È infatti da qui che bisogna partire.

Perché è così difficile uccidere, nei veloci tempi della velocità moderna – quando la cronaca sembra dimostrare invece tutta altra cosa?

A determinare i romanzi di cui qui si parla, è una domanda del tipo: “Che cosa costituisce quella cosa che fa l’essere umano?” In Delitto e castigo si può parlare dell’influsso del cristianesimo, che impedisce di toccare il pidocchio, nei Delitti della Casa decagonale c’è l’influsso di Delitto e castigo, e dei romanzi gialli occidentali, ricordati da AY subito all’entrata del romanzo in quanto epigrafe (= «a tutti i miei amati predecessori»), spalancando egli le porte come fa Van, ma la questione – che non viene pensata – è che l’essere umano è solo nient’altro che pallido concetto filosofico, che, in quanto tale, può facilmente cadere ed essere, nello stesso modo facile, facilmente posto a essere dimenticato, una volta che si impone un altro modo di pensare.

Se il romanzo giallo si presenta come il genere che dimostra il ripristino dell’ordine ad opera di un investigatore, allora almeno due romanzi di Agatha Christie mettono in crisi tale possibilità: Assassinio sull’Orient Express (1934) e Dieci piccoli indiani (1939). La possibilità è accennata come paradosso, non è mai affrontata a livello di novello pensiero sorgente, che vorrebbe dire mettere in discussione il rapporto tra delitto e castigo, cioè mettere in discussione il termine “delitto”, così come mettere in discussione il termine “essere umano”, che è ciò che chiama il castigo, che allora sarebbe appunto quello che deve essere chiamato solo come ciò che deve essere cancellato, per cui delitto e castigo sono le due opzioni che non devono mai essere collegate. Cosa che vorrebbe dire affrontare la questione della vita indegna di vivere, che questi romanzi appena sfiorano e poi gettano via.

Agatha Christie si muoveva a livello di quello che Leonardo Sciascia riconosceva come puro virtuosismo applicato a un genere appena di bassa letteratura, mentre AI si muove a un livello ben più complesso.

La questione che rimane: “Perché è così difficile uccidere – adesso –, anche solo a livello di testo letterario, tanto da richiedere, quando si uccide solo per finta, subito dopo, l’espiazione?”

Se tutto questo fosse una convenzione ereditata da vecchi testi meticci, come il vecchio romanzo del mediocre romanzo del mediocre meticcio russo Dostoevskij, dallo spicciolo titolo tutto russo di Delitto e castigo? Quello che è importante pensare è pensare la divisione che separa ciò che ha diritto di vivere dalla vita che non ha diritto di vivere, che è appunto ciò che la nostra contemporaneità non vuole pensare, tanto è vero che ne relega la possibilità in quel tipo di letteratura che non richiede il pensiero, perché richiede solo il sostegno di un niente più che un congegno.

Ciò che la letteratura gialla sfiora non è il concetto di vita indegna di vivere, che è ciò che la nostra epoca moderna vuole invece rimuovere a tutti i costi; il concetto di “vita indegna di vivere” è appena relegato in una sottospecie di letteratura, di romanzi per la massa, che non devono essere considerati come cose cui valga la pena pensare, quello che la letteratura poliziesca, come non letteratura che, in quanto “non letteratura” invita a pensare, è invece la possibilità del delitto – e infatti nel romanzo giallo l’arte del delitto sembra l’arte, fra tutte le arti a disposizione degli umani, quella più semplice da applicare, ma allora la richiesta del castigo è come la specie della falsa firma al progetto appena completato, che comporta la morte da parte della vita indegna di vivere, che è invece ciò che deve essere posta sotto la vista della letteratura, anziché sotto la svista della paraletteratura, che l’appone in ciò che ben si ritrovava in quanto morte dell’autore – che è ciò che comporta il messaggio lasciato nella bottiglia, nei due romanzetti qui ricalcati.

Il gioco è il punto di partenza: è il gioco che riguarda il rapporto tra l’autore e i lettori, nel momento in cui l’autore giapponese decide di riscrivere, nell’isola, uno dei classici del giallo accidentale; e il gioco che riguarda il carnefice e le sue vittime, nel momento in cui il carnefice decide di mettere in opera il suo gioco, cioè il Gioco del mondo, che è il GPS che lo incastra solo in quanto sua precisa posizione di artefice del gioco, ma non di colpevole. In quel gioco, che è il gioco della letteratura, il gioco della paraletteratura ha comportato il gioco dei due romanzi di Agatha Christie, in un romanzo che pone il colpevole in quanto colpevole in posizione da non più perseguire, in quanto ciò che non può essere perseguito, o ciò che non deve essere perseguito. È evidente che il romanzo giallo nasconde qualcosa – per quanto non dica niente, perché ogni romanzo è nient’altro che uno scherzo infinito, così la bottiglia lanciata in quei due romanzi gialli deve avere nient’altro che la funzione di una bottiglia di Klein, mai aperta e mai chiusa, perché ogni romanzo è nient’altro che uno scherzo, scherzo di becchino, nell’arco del suo tempo di lavoro, in quanto scherzo infinito.

Scrivere è un modo più che modesto di organizzare parole: Georges Simenon è lo scrittore poveraccio tanto molto mediocre, che noi tutti conosciamo; l’arte di scrivere è il dono di graffiare la lingua, senza mai usare le parole per fare addormentare – così come Hölderlin scriveva graffiando la carta senza usare inchiostro alcuno; Leonardo Sciascia diceva di usare i gialli come lettura per i viaggi che gli capitava di dovere ogni tanto intraprendere in treno – ma la lingua è ciò che la letteratura deve identificare come ciò che deve essere distrutto, quando chi scrive ottiene il proprio statuto nel momento in cui, dalla parola, passa alla lingua. Lo scrittore mediocre feconda la lingua, il grande scrittore violenta la lingua.

Lento avanza diritto il meticcio italiano in tutta l’Europa; lento avanza, sicuro, in tutto l’Occidente, il meticciato: un Dio sia sempre pronto a stramaledire l’avanzare dell’Italia!

Pensavo di iniziare questa recensione con questa epigrafe, che ormai mi sembra giusto porre, appena appena, giusto appena più che alla fine della recensione; eccola dunque qui tutta incantata per voi: «Þá hljóp Egill at Grími ok rak øxina i höfuð honum, svá at þegar stóð í heila.» – Io me li ricordo, quegli italiani bastardi, che ormai sono più che marciti nelle loro tombe: Dio stramaledica l’Italia!

Ayatsuji Yukito, I delitti della Casa decagonale (1987), traduzione di Stefano Lo Cigno, Einaudi 2024

Antonio Iovane, Il carnefice, Mondadori

Fatto a noi forse solo torna ora dire che Erich Priebke falso fu tutto simbolo uno, tombolo che, a modo di vampiro, attirato, ha, dico io, Erich Priebke, noi non sappiamo cosa sia il meticcio italiano – il meticcio italiano? il meticcio italiano porco e tanto sporco: noi che men che meno Nemo sappiamo cosa sia il meticcio italiano; “meticcio italiano” è sintagma che ci può osservare o anche no – da parte una e altra –, fautori e nemici, a falsa insegna, appunto, “falso simbolo”, cioè tutto quanto senso che falsità di “Erich Priebke quale falso simbolo”, è descrizione che vien su creata da epoca a cui non viene delegato privilegio di detenere più che mai il simbolo, ma che vuole creare stracci & stralci, simboli, stretti da parte una et altra, in quanto simbolo che le conviene creare, dico stracci & strappi & stralci su tralicci – e in questo caso il simbolo di nazismo, come simbolo di ciò che le conviene, punto creare, per cui Priebke era allora simbolo passibile & in tutto perfetto portatile, per quanto mai palesemente posticcio, perché inventato? l’incontro con il nazismo è quello che non avviene tramite la caccia al nazista Erich Priebke perché l’imprigionamento di Erich Priebke porta, come giustamente AI stesso richiama, all’intervista con il vampiro alla fine, battaglia perduta, intervista non concessa, a differenza dell’intervista concessa dal vampiro, ma questo per gli italiani è tutt’altro che ostacolo, simbolo del nazismo, non essendo mai possibile collegamento tra la grigia personcina di Erico Priebke a Bariloche beccato braccato e imbracciato verso su maledetta Italia il nazismo in quanto ideologia di foco e sangue, ma solo collegamento uno con epoca di vuoto & voto, che la maledetta Italia e gli italiani di merda, sua carogna infilata in quel posticiattolo perfettamente incarnata con tutti suoi ebrei capitanati, in cotanta sporca per caso porca occasione di un viaggio allucinante, dal ringhieggiante Riccardo de li Pacifici, porco italiano pastasciuttaro, orangutan pallido meticcio italiano che ringhia & scotesi, italo scatenato, come forchettata de li umani da Pierre de Boulle narrati & schiaffati in ristretta gabbia gabbietta a schiattare, non c’era niuna battaglia, a reclamare verità sovra falso straccio & simbolo, questo perché l’epoca che non ha simbolo è l’epoca del vuoto (ma l’italiano di merda è ciò che vince sempre nel vuoto) – per cui il libro di Antonio Iovane sona allora sì simbolo di come si possa legittimamente compilare romanzo sovra cotanta spirale di vuoto voto vacuo fatto sfatto sfratto sfruttato pure, in occupazione di tempo, giacché solo l’epoca de lo vuoto ha clamato, infatti, libro compilato, puntualmente, (cioè a partire da punto 1, spunto voto vuoto fatto or or di placca tanto nova) allora dall’autore Antonio Iovane, perché l’epoca del vuoto è l’epoca che non possiede più simbolo, perché se simbolo è ciò che non è mai ciò che viene dominato, ma ciò che domina li umani esseri tutti quanti in batteria, ma appunto proprio questo è ciò che deve essere riconosciuto, sembra caso di asserire, nonostante Jung & Lévi Claude di Strauss, stesi a nova definizione di loco tanto passivo di soggetto quanto uno, nel mondo momento in cui viene riconosciuto dominio tale e tale, instaurando così pericolo di dominio di simbolo mille e mille, che è ciò che vediamo essere stato presente nel nazismo, mentre ciò che vediamo nel romanzo Il carnefice di Antonio Iovane è ciò che sembra avere autorizzato a definire Erich Priebke attraverso il solo sintagma “il carnefice” da parte di AI, in quanto autore in tutta estensione di romanzo suo più che men che prolisso, (per ben sei volte nei titoli di capitoli porchi suoi, leggiamo: “Il carnefice a Roma / Il carnefice spara / Il carnefice in Argentina / Il carnefice in Italia / Il carnefice a processo / Il carnefice muore”) posso dire, senza mai presentare giustificazione per tal trito & triste sintagma in piazza tengo tango a dire, puro sintagma intensivo, per quanto tale triste & abusato epiteto non sia mai comparso nella definizione del personaggio in quel là dato romanzo – infatti Antonio Iovane non presenta mai Erich Priebke quale personaggio di romanzo, cosa che comunque sarebbe stata inopportuna, proprio perché AI è ciò con cui non vuole avere a che fare, in quanto presentare Erich Priebke come protagonista di romanzo avrebbe voluto dire smascherare il vuoto su cui ’sto personaggio del picchio reggesi in pacchia di avversari appena (“io lavaplatos”, ma bisogna pure salvare il sogno delle parole dal romanzo?), che è lo vuoto che regge tutti gli scribacchini/becchini che picchi picchiano a la maledetta & stramaledetta Italia di merda porta a porta (= Dante di merda = Boccaccio di merda = d’Annunzio di merda, cazzo, li avrete sentiti nominare, no?, questi bastardi di italiani?), tale da essere gratificato da questo epiteto, quanto meno all’interno di un genere di romanzo, ma tale tratto a carro tramoggia tra tanti strutti stratti termini è ciò che tenta compilatore AI, che si move nell’epoca senza simboli, bove asinino, a presentare tristo traino trito stretto suo protagonista di malora cotanta triste figuranza che è porca sua (Dio stramaledica l’Italia!), che pon carro tramoggia innanzi a tanti bovi miti tutti quanti che li rimangono (Dio stramaledica l’Italia!), mentre nel romanzo non devono essere personaggi a parlare, ma la lingua a creare i personaggi lungo il procedere de lo romanzo tutto allora intenso (Dio stramaledica l’Italia!); ma come organizza, AI, il suo romanzo-inchiesta?, eludendo zum pa pa possibilità di “antiromanzo” (niente antiromanzo, per l’italiano di merda, semmai romanzo, per lui, en la forma di romanzo di Murakami Haruki), pure utilizzata da Laurent Binet in HHhH, suo romanzo, che vuole dire giustamente tramite polifonia interna a genere di “romanzo”, che porta romanzo quello a farsi falsa polifonia tutta di autentico richiamo paulausterianamente steso a coinvolgere propria sua figura & pure propria famiglia in sporca impresa di maledetta Italia (così AI richiama i suoi nonni durante svolgimento di romanzo tutto suo stracciato), il quarto volume del Romanzo Einaudi contiene saggi due, uno a nome di Richard Maxwell, titolo: “Manoscritti ritrovati, strane storie, metaromanzi”; uno di Alessandro Baricco, dicolo titolo: “Dracula”, che permettono di collegare figura di Erich Priebke, come vista da AI in tratto di suo romanzo-inchiesta, a figura di Dracula conte presente minaccioso nel romanzo Dracula di Bram Stoker e dei Protocolli dei Savi anziani di Sion; perché, secondo Richard Maxwell, il manoscritto non è tanto ritrovato quanto “costruito” a scotto pezzotto dopo pezzotto: Dracula potrebbe dominare la intera razza umana gente, a meno che non si intervenga per eliminarlo, per cui la ricerca scientifica (qui volta a la messa in luce del vampiro sì quale personaggio) diventa strumento privilegiato di igiene sociale; invece Alessandro Baricco collega la figura di Dracula Conte a quella di don Giovanni, per cui Dracula come romanzo è caratterizzato da una strana difformità: Dracula, a cui è intitolato il romanzo, non è il vero protagonista del romanzo, infatti egli è molto poco in scena, e dopo la prima parte, quella relativa a Jonathan Harker, sparisce e fa solo fugaci apparizioni, mentre gli altri personaggi, sono letteralmente ossessionati da lui – un altro testo ha una struttura simile, egli fa presente: Don Giovanni di Mozart e Lorenzo Da Ponte – ma la questione è che è stato visto in Dracula il nemico di razza, che è quello che non può più essere considerato, poi, come dimostrano i casi di questi due tardi e tosti romanzi: Io sono leggenda (1954) di Richard Matheson e Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle (1963), cioè la questione, antecedente a tutti romanzi del mondo moderno, di dare forma al mondo, eliminando ciò che non ha diritto di stare nel mondo e ciò che invece deve essere eliminato dal mondo (eppure qui non si pensava, coscientemente a “dare forma al mondo”, tutt’altro); Dracula e don Giovanni possono essere accostati in base a comune una caratteristica: perché essi occupano un pertugio pesto, quello del desiderio scatenato, che rischia di travolgere tutti coloro che hanno a che fare con loro; una società è così minacciata da una forza terribile (don Giovanni, Dracula); per sconfiggere il nemico, che è il nemico di razza, la società non può usare le sue solite armi, ma deve allearsi con il sovrannaturale; così don Giovanni sarà ucciso da uno spettro, i nemici di Dracula dovranno accettare l’esistenza dei vampiri e usare le armi sovrannaturali per annientarli: la scena si presenta anche più che ambigua: le vittime sono travolte dalla forza oscura, l’accettano, non se ne ritraggono, almeno di primo acchito, è tutto un baratro che si apre e che rischia di travolgere la società razionalmente costituita, perché si ha lo sprofondamento nel dionisiaco, e in Dracula è soprattutto presente l’aspetto della repressione del sesso, tipica dell’epoca vittoriana, le donne rischiano di sprofondare nel buco dal quale colui che occupa lo spazio del buco le chiama, e di trascinare con loro i rispettivi mariti, Dracula è quindi la personificazione dello scatenamento di queste forze, sopprimere Dracula vuole dire impedire la trasformazione delle donne in creature selvagge e primitive, folli per il sesso; ma, tornando al romanzo di AI, che conosce tanto Don Giovanni di Mozart/Da Ponte, quanto Dracula di Bram Stoker, il paradosso è questo: che Erich Priebke non soni mai come simbolo di nazismo, perché il nazismo ha rappresentato il pericolo che Jung ha ricordato nell’archetipo collettivo, mentre gli italiani sono a tutti gli effetti simbolo del meticciato, la cosa più schifosa che esista al mondo, che è che ciò che mai e poi mai è chiamato a stornare, perché (noi siamo ciò che siamo chiamati ad avere a che fare con la strategia di ragno di meticcio italiano, come direbbe Van Helsing – “Dio stramaledica l’Italia!”, dico, chiamando, qui, non il dio höldeliniano, indicato là giustamente come il dio del nemico, ma il dio della razza bianca) dubbio a voi viene che questo romanzo sballo di gruppo gestito è da Simon Wiesenthal Center pure? (Dio stramaledica l’Italia!) – “Se fai come Simone, non puoi certo sbagliar” – tempi sono ormai così messi che, o trionfa la giustizia proletaria o trionfa giustizia come solo Klossowski ha saputo indovinare definendo Sade colui che ha visto nell’ateismo realizzato la fine dell’epoca dell’umanesimo, che è quello che il finocchietto italiano e comunista Pasolini mai ha potuto comprendere di Sade in lettura sua di giornate 120 su pellicola – ma è un peccato che il finocchietto italiano e comunista Pasolini non abbia stiracchiato fuori un romanzetto da propria sua versione su pellicola di Salò stertoroso, così come ha tirato fuori un romanzetto da sua pellicola stertorosa Teorema, perché sarebbe venuto fuori un romanzetto forse importante, così come io penso che Teorema sia un romanzetto importante nel panorama della letteratura del disgustoso meticcio italiano, ma con ben altri finocchietti, il finocchietto Pasolini ha avuto a che fare – quando, leggendo un testo del finocchietto italiano e comunista Pasolini, si viene irretiti in quella strana considerazione sull’agire del proletariato, cui il finocchietto italiano e comunista Pasolini subdolamente voleva condurre a sesso duro, a cui non avevamo mai ancora pensato, per cui i concupiti uccelli proletari, che la giustizia proletaria avrebbe dovuto fare fucilare come proprietà privata oppure stabilire in quanto bene collettivo, da quel finocchietto italiano e comunista fatti fotografare in impeccabile targa steampunk vaporante, bisogna sempre allora sempre chiedersi: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano, in Europa?”, per poi subito rispondere: vuole italianizzare, vuole meticizzare l’Europa, così AI è il folle per trovare la giustificazione per eliminare di brutto vecchio Erich Priebke, per cui non è possibile carpire il romanzo inchiesta Il carnefice di AI se non si ha presente il romanzo Dracula di Bram Stoker, e così Resistenza è il vuoto che marca voto che tanto lega il disgustoso meticcio italiano (= monstruo, cazzo, lurido schifoso bastardo meticcio cretino italiano di merda che in tutto sona lurida bava d’Italia, che balla e sballa, che mai deve avere terra, perché mai ha avuto zolla, terra e sangue), che non ha ragione manco una, dico appena una, di esistere, con sue teorie di scimmie boulleane, mai booleane – questo per niente; per cui questa può essere pure versione breve di recensione lunga di istesso ben uno romanzo, quello appunto di AI, che potrebbe ugualmente tanto essere stesa in intensa forma quanto estesa in distesa forma, ma che dovrebbe allora comprendere pur ben 335 frasi (Dio stramaledica l’Italia!), separate da punto uno, una per ogni carcassa di maledetta carcassa di meticcio italiano bastardo separata appunto da sparo uno paro paro (pum!, via un italiano; pum!, via un altro italiano; pum!, via un altro italiano cacciato sopra quell’altro), Dio stramaledica l’Italia!, e pure versione mediana di 335 frasi tutti uguali, una per ogni bastardo di italiano in quelle Fosse cave, ma devo dire, questo perché gli italiani non mi sono mai piaciuti per niente (cazzo! – Dio stramaledica l’Italia!), anzi, a dirla tutta, devo dire che, tutti gli italiani, mi hanno sempre fatto schifo, tanto assai e sono ben contento di questa lontana & pur remota occasione da me nel tempo che ha permesso, in tutta legalità, di farne fuori ben trecentotrentacinque – dico e godo 335 italiani di merda, sempre troppo pochi, trecentotrentacinque italiani di merda ma sempre meglio di niente (in fondo e frodo, che è, che definiamo romanzo, se noi siamo ciò che rimane, 11 picciol cose da dire e poi ridire?) – così questo post è scritto e detto in segno di aspro disprezzo verso disgustoso meticcio italiano di merda, quanto mi fanno schifo gli italiani, e le italiane pure, col loro Dante di merda, così gli antifascisti in Scarpetta conclamati, che han sì difeso Priebke Erico (Erich), in sui ultimi giorni, partivano dal principio che “il nazismo è ormai più che men che niente”, contrariamente invece a quello che invece deve essere considerato, cioè lasciato cadere il “pericolo” che è sempre presente nel richiamo al nazismo, che è quello che invece ha indicato Jung, nonostante il giudizio negativo di Miguel Serrano, che è ciò che deve ritornare – poi l’intervista col nazista, che chiama la bolsa falsa intervista con nosferatu da parte di Dame Anne Rice, vanhelsingianamente stiracchiata in parte, contro il quale è giusto ciò che allora stato è compilato in rapida fretta tutta, affinché mai si dimentichi il disprezzo, ciò che ha smesso insieme meticci italiani + qualche ebreo di fretta pure piatta con patta fatta mano morta matta, cioè la lista lesta – ma il guaio è che le carcasse degli italiani possono sempre chiamate esser posson come “zombie” a comparire, a Lestat empire voto e i meticci italiani de le Fosse Ardeatine sono sempre solo italiani di merda & trecentotrentacinque italiani di merda, zingari africani, scarafaggi africani, italiani di merda sono semper pronti a balzare freschi & frischi da fiaschi Klein chianti frizzanti da Fosse Lambrusco Ardeatine sì quale patatine fish & chips fritte da bottiglie Klein di un manico dispiegato, malpagate, ad anfora su da Fosse Ardeatine di merda per partecipare a gran ballo di gruppo di negro bianco sbiancato Michael Jackson sonato da gran lovecraftiano falso magro John Landis di sogno in filmato suo di negro tutto blek all horror macigno balocco in chiave haka, sempre in lutto, uno a volta che a italiano di merda surge in la mente su di porca sua di italiano (cazzo di italiano di merda, mille volte, ti dico io di qui quo qua, italiano di merda, al lazzo, cazzo t’allaccio: 335 italiani di merda) di dire che stata è compilata completa & completata, cosa mai mai? – cosa cosa mai mai, mi domandi?, di allora: te lo vomito dritto addosso su quella tua brutta testa di italiano di merda, italiano di merda, nient’altro che nova lista

 

 

Antonio Iovane, Il carnefice. Storia di Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, Mondadori, Milano 2024

Egils saga Skallagrímssonar, Íslenzk fornrit 2, Reykjavík 1933

Danilo Kiš, Enciclopedia dei morti

Enciclopedia dei morti (1983), dello scrittore “jugoslavo” Danilo Kiš, è una raccolta di nove racconti in cui manca, programmaticamente, qualunque brivido metafisico, brivido spesso presente nei racconti di Borges, intendo nei suoi migliori racconti, pienamente presente nel racconto La biblioteca di Babele (1941), racconto certamente presente a DK nella stesura del suo racconto L’Enciclopedia dei morti, presente in quella raccolta. La mancanza del brivido metafisico è trovare la grigia realtà dove invece doveva esserci il sublime, anche se il sublime come esperienza del terrore. Ho sempre pensato che il racconto di Borges derivi da uno dei migliori racconti di Lovecraft, L’ombra calata dal tempo (The Shadow Out of Time), scritto tra il novembre 1934 e il febbraio 1935 e pubblicato nel 1936. In questo racconto di Lovecraft, come negli altri suoi migliori, c’è il brivido di un tempo colto come tempo che non può essere misurato con gli strumenti maneggiati dagli umani, perché non appartiene al tempo umano, bensì esposto, logicamente, alla piena estraneità di quella esperienza, e che per questo porta il brivido. Che cosa presenta, invece, qui il colto racconto di Kiš? soltanto la biografia di una persona qualunque, nella cornice metafisica di un racconto che rimanda soltanto al racconto di Borges in quanto rimando colto affidato all’ombra della persona qualunque che legge la lettura di una notte qualunque a Stoccolma, ad una luce molto incerta, molto oltre l’orario di apertura della biblioteca, di un libro incatenato allo scaffale. Questa tecnica (se si può parlare di tecnica) si ritrova poi ripetuta nel racconto finale.

Di sicuro Borges conosceva – e, a suo modo, stimava – l’inimitabile arte di Lovecraft, come dimostra il suo racconto There Are More Things del 1975, inserito nella raccolta Il libro di sabbia.

Torniamo a Kiš. Colleghiamo l’ultimo racconto, I francobolli rossi con l’effigie di Lenin, al racconto l’Enciclopedia dei morti, presente nella stessa raccolta: il tema comune è la storia banale che non può essere fatta oggetto di racconto alcuno, conducendo esso solo ad una più che mediocre narrazione, a causa della banalità, ma che, tramite uno spicciolo di stratagemma, può essere proposta come cosa che vale ancora la pena raccontare ancora volta per volta. I due racconti hanno tratti comuni: sono in forma di lettere redatte da donne: una figlia che vuole ricordare il padre preservandone i tratti suoi più banali, indifferenti, comuni, di vita comunque qualunque di lui; una donna che ricorda l’amante, un grande poeta, poi coinvolto nell’ala turbinosa della dissidenza sovietica, infine vittima di quel potere, volta a preservare la mediocrità di tante parole scambiate dalla ineluttabilità della critica letteraria occidentale; in entrambi i casi, il racconto, ridotto al suo nucleo, non dice niente, perché non c’è niente da dire, ma solo la cornice, in cui esso viene posto a gravitare, è in grado di garantire, di volta in volta, la parvenza di un nuovo contenuto, e quindi a riproporlo.

Bisogna distinguere sempre l’arte dello scrittore di razza bianca, che oltrepassa i limiti della forma che trova all’inizio della propria attività, come ciò che gli viene consegnato per ottenere una forma assolutamente diversa, che è però la piena realizzazione di quello che egli aveva ottenuto, dalla falsa arte (che è arte degenerata, e quindi ciò che non va assolutamente da nessuna parte) del meticcio, che è sempre ciò che è per razza, cioè solo un meticcio, che è lì perché sta lì, così come, in alcuni casi, va via da lì. Ma non vi sembra che questa frase «Nelle vaste biblioteche che essi avevano accumulato c’erano testi e raccolte d’immagini in cui erano compendiati gli annali della terra: storia e descrizione di tutte le specie che erano o sarebbero esistite, con la loro arte, scienza, lingua e psicologia.» (H.P. Lovecraft, In Id. Edizione annotata H.P. Lovecraft, a cura di Leslie S. Klinger, Mondadori 2022, traduzione di Giuseppe Lippi, pp. 982-83) sia calata dal tempo di Lovecraft a Providence dritta addosso al tempo impettito di Borges a Buenos Aires? Dico che, per quello che mi riguarda, il vero obiettivo è sempre la mentalità del meticcio.

Sulla stessa linea, da precisare non è la comparsa dei Protocolli (racconto dal titolo Il libo dei re e degli sciocchi della raccolta) nel mondo, ma la stupidità, che ha fatto sì che quelle cose apparissero tutte come degne di attenzione. Quello che invece deve essere affrontato è la semplicità, che riguarda ciò che non può più essere ritenuto in quanto tale, cioè il fatto che non si possa discutere di ciò che ha diritto di vivere, dividendolo da ciò che invece deve essere soppresso. Perché, allora, stupirsi dei campi di sterminio, quando si ha solo a che fare con “cose” – cioè cose che sono state, cioè semplicemente eliminate, congedate, tolte dickianamente dalla falsa circolazione imposta dai falsari?

L’interpretazione del mondo, che coinvolge il racconto dedicato allo gnostico Simone il Mago, così come il racconto dedicato alla formazione del testo conosciuto come Protocolli dei Savi anziani di Sion, è ciò che le parole, comunemente riservate per la rappresentazione del mondo, non valgono più, che è quello che accomuna il racconto sulla Enciclopedia a quello sui Francobolli con l’effigie di Lenin. DK avrebbe dovuto considerare, che, ciò che fa lo scrittore, è selezionare le tante parole che gli si presentano a disposizione, fra tutte le parole del mondo, che è invece ciò che non ha fatto, creando così quest’opera effimera, dove non può che mancare il richiamo alla razza. Il meticcio deve sapere di essere di un tipo di razza che non è razza, perché è antirazza. Questo è ciò che dimostra l’arte del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio: Stefano Jossa ha giustamente definito lo stile del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio come stile del “superuomo umile”, che però deve essere distinto dal “grande stile” di Nietzsche, che è ciò che riguarda la differenza tra lingua e parola.

Essere chi scrive è, in ogni caso, essere signore delle tante parole giunte anche, per caso qualunque, a sua disposizione; ma sta sempre a chi legge, ricomporre poi il testo che gli è capitato di leggere, anche se solo per un caso qualunque, perché lì sta la differenza.

Danilo Kiš, Enciclopedia dei morti, traduzione di Lionello Costantini, Adelphi 2001.