Porte e soglie. Lo hobbit

Il fatto che Gandalf definisca Bilbo uno “scassinatore” e che lo “scassinamento” sia, a parere di Gandalf, l’unico modo per riconquistare il tesoro, indica che porte, soglie e serrature hanno una grande importanza nel romanzo Lo hobbit. In effetti, quasi ogni capitolo di questo romanzo è caratterizzato da una porta o da un atteggiamento da tenere in presenza o di una porta o di una soglia da varcare o da scassinare.
Se soglia e ingresso possono funzionare come sinonimi, le soglie sono qui degli spazi dove sostare anche a lungo, in attesa di una idea risolutrice; gli ingressi sono invece spazi a cui accedere solo dopo un piano stabilito con attenzione.
La sosta prevede l’intervento di ciò che è estraneo; l’ingresso prevede una strategia che concentra la forza disponibile in quel momento in un punto preciso.
Il secondo tipo è rappresentato dal capitolo iniziale, Una riunione inaspettata, in cui Bilbo accoglie, inconsapevolmente, di volta in volta, i tredici nani e Gandalf; e poi dall’ingresso nella casa di Beorn, quando Beorn accoglie, a sua volta senza rendersene conto, tredici nani, Bilbo e Gandalf.
Il ruolo della casa di Beorn è importante. È una casa collegabile a un modello di casa storico preciso: la lánghús germanica d’epoca vichinga, mentre gli altri tipi di case incontrate nel romanzo sono o di fantasia (come la caverna-hobbit di Bilbo) o non determinate storicamente (come l’Ultima Casa Accogliente di Elrond). Allo stesso modo il berserksgangr, risolutivo nella Battaglia dei Cinque Eserciti, è un elemento rintracciabile nella civiltà germanica.
La casa di Beorn determina un tipo di ingresso scaglionato la cui modalità era già stata avviata nel primo capitolo. I due tipi di ingressi sono quindi complementari. Nel primo capitolo Bilbo subiva passivamente le conseguenze del progetto di ingresso (messo a punto da Gandalf, che arrivava per ultimo insieme a Thorin); nel capitolo di Beorn (n. 7, Strani alloggi) Bilbo è parte attiva della strategia, egli entra per primo nella casa di Beorn insieme a Gandalf (poiché i nani sono invisi a Beorn); e se all’uscita precipitosa da casa sua, il giorno dopo la “riunione improvvisata”, Bilbo sarà solo un peso passivo da parte della Compagnia, dopo l’uscita dalla casa di Beorn, e l’entrata nella foresta di Bosco Atro, Bilbo sarà invece di valido aiuto per la Compagnia, cominciando da quel punto a diventare l’elemento fondamentale per lo scioglimento della vicenda.
Il primo tipo è invece rappresentato dalla sosta davanti alla porta nascosta sul fianco della Montagna Solitaria (capitolo 11, Sulla soglia). Era stato Bilbo a determinare la strategia di questa sosta, quando, durante la “riunione inaspettata”, aveva detto ai nani: «“Se ve ne starete seduti sulla soglia abbastanza a lungo, oso dire che vi verrà in mente qualcosa.”» (capitolo 1, Una riunione inaspettata, p. 39).
La sosta prevede dunque l’intervento di ciò che è estraneo, perché giunge da ciò che è estraneo, e fa agire in un modo inconsapevole, a differenza della strategia, la quale deve essere invece messa a punto per varcare certe soglie, come quella di Bilbo – prima – e di Beorn – dopo.
L’intervento risolutivo di Bilbo è infatti declinato in termini minimi: «Improvvisamente Bilbo capì.» (capitolo 11, Sulla soglia, p. 240). Dopo avere cercato inutilmente di aprire la Porta – «Non c’era nessun segno di sbarra o spranga o serratura; tuttavia, neanche per un istante essi misero in dubbio di avere finalmente trovato la porta.» (capitolo 11, Sulla soglia, p. 236) – con tutti i mezzi, magici e non magici, un certo sconforto prese il gruppo. «Bilbo scoperse così che sedere sulla soglia poteva essere malinconico e stancante. Non era una soglia vera e propria, naturalmente, ma per scherzo essi avevano dato questo nome al piccolo spiazzo erboso tra la parete e l’apertura, ricordando le parole di Bilbo tanto tempo addietro quando si erano incontrati nella sua caverna, e lui aveva detto che potevano sedere sulla soglia finché non venisse loro in mente qualcosa. E star seduti a pensare era proprio quello che facevano, oppure andare qua e là senza scopo diventando sempre più depressi.» (capitolo 11, Sulla soglia, p. 238). Una strana depressione avvolge il gruppo, il testo descrive attentamente la scena, che viene sempre più ad assomigliare alla situazione riportata dalle rune sulla mappa: «“Sta vicino alla pietra grigia quando picchia il tordo lesse Elrond “e l’ultima luce del sole che tramonta nel giorno di Durin splenderà sul buco della serratura.”» (capitolo 3, Un breve riposo, pp. 69-70).
«Improvvisamente Bilbo capì.» Bilbo è l’unico che può cogliere la simultaneità di quei particolari perché è l’unico che può dare avvio al nuovo periodo di tempo. Cioè al nuovo tempo. Gandalf aveva indicato l’abilità di Bilbo come “abilità nello scassinamento”: «“Così va bene” disse Gandalf. “Smettiamola di litigare. Ho scelto il signor Baggins e questo dovrebbe essere più che sufficiente per tutti voi. Se io dico che è uno Scassinatore, Scassinatore è, o lo sarà al momento opportuno.”» (capitolo 1, Una riunione inaspettata, p. 31). La vera abilità di Bilbo Baggins come scassinatore non consiste nello scassinare serrature, quanto nel permettere la funzione del nuovo anno. La funzione di Bilbo Baggins come scassinatore, quindi, è una funzione solstiziale; di avvio del nuovo anno. Il nuovo anno deve essere scassinato perché ormai non si intravede più la vera funzione solstiziale. Bilbo Baggins agisce come scassinatore solstiziale non nel “suo” tempo (che il testo non determina), ma nel tempo solstiziale dei nani: «“Il Capodanno dell’Anno Nuovo dei nani” disse Thorin “è, come tutti dovrebbero sapere, il primo giorno dell’ultima luna d’autunno alle soglie dell’inverno.» (cap. 3, Un breve riposo, p. 70). Il nuovo anno comincia sempre in un tempo stabilito dell’anno, ma in questo caso Bilbo riconosce la simultaneità di alcuni elementi che permettono di avviare il nuovo tempo.
Bilbo è assoldato come scassinatore; e la sua azione provoca lo scassinamento vero e proprio, non nell’ordine delle serrature, ma nei cardini del tempo. È un tempo fuor di sesto, quello che allora così si inaugura? A ben pensarci, sembra proprio di sì.
«“Domani inizia l’ultima settimana d’autunno” disse un giorno Thorin.» (cap. 11, Sulla soglia, p. 239). Il giorno dopo Bilbo risolve la questione e trova il buco della serratura stando appunto soltanto fermo sulla soglia, perché nient’altro aveva da fare. La funzione solstiziale non consiste nello scassinare ma nell’interpretare un passaggio che di per sé non dice niente; che di per sé è solo un istante in cui il sole sta fermo.
A determinare l’importanza di Bilbo nel gruppo di Thorin è stato il ritrovamento dell’anello.
L’anello viene trovato in terra per caso da Bilbo e casualmente messo da lui in tasca; casualmente viene poi ritrovato quando la mano fruga nella tasca mentre la mente cerca il nuovo indovinello e la voce pone la domanda che diventa poi ciò che è da indovinare: «“Che cos’ho in tasca?” disse [Bilbo] ad alta voce. Parlava tra sé e sé, ma Gollum credette che fosse un indovinello e ne fu tremendamente sconvolto.» (cap. 5, Indovinelli nell’oscurità, pp. 97-8), mentre ciò che è da chiedersi è: “che cos’ho in mente?”.
L’anello è un punto di svolta ed è lo stesso anello a segnare con una svolta il momento ufficiale del cambio di proprietà: «Fosse un caso, o l’ultimo tiro giocato dall’anello prima di cambiare padrone, fatto sta che [Bilbo] non lo aveva al dito.» (capitolo 5, Indovinelli nell’oscurità, p. 108). Notare che tutto questo episodio, l’uscita di Bilbo dalle Montagne Nebbiose, si svolge su una soglia, quella predisposta dagli orchi come accesso alla montagna: «Bilbo sbatté gli occhi e improvvisamente vide gli orchi: orchi armati da capo a piedi colle spade sguainate che sedevano proprio sulla soglia, sorvegliando con gli occhi bene aperti la porta e il passaggio che portava ad essa.» (capitolo 5, Indovinelli nell’oscurità, p. 108).
Così come la carriera di Bilbo in quanto scassinatore si è svolta volgendosi dalle serrature e dalle porte al tempo, la domanda deve volgersi. Del resto, anche nel testo la domanda si è svolta, andando dal discorso rivolto a sé al discorso rivolto a un altro: «Rendendosi conto di quanto era successo e non avendo niente di meglio da chiedere, Bilbo insistette nella sua domanda: “Che cos’ho in tasca?” disse a voce più alta.» (capitolo 5, Indovinelli nell’oscurità, p. 98).
Che cosa comporta il fatto che la domanda “che cosa ho in tasca?” si volga nella domanda – che il testo non pone – “che cosa ho in mente?”? Il fatto di non sapere, in un primo tempo, che cosa si abbia in tasca, corrisponde al fatto di non sapere che cosa si abbia in mente.
Un primo rimando può essere visto nel segno nascosto messo da Gandalf sulla porta di Bilbo di nascosto e poi cancellato da Gandalf di nascosto. Gloin a Bilbo: «“E ti assicuro che su questa porta c’è un segno, quello comunemente usato nel mestiere, o quanto meno usato fino a qualche tempo fa. Scassinatore cerca buon lavoro, eccitante e ragionevolmente remunerativo, ecco come lo si legge di solito.” […] “Certo che c’è un segno” disse Gandalf. “Ce l’ho messo io stesso.”» (capitolo 1, Una riunione inaspettata, p. 31). «[Gandalf] Aveva fatto una bella ammaccatura sulla porta [bussando per farsi aprire alla fine dell’ingresso differito nella casa di Bilbo], e, tra parentesi, aveva cancellato il segno segreto che vi aveva messo il mattino precedente.» (capitolo 1, Una riunione inaspettata, p. 22).
Una cosa è certa: tanto la “porta” quanto la “soglia” si collegano a un qualcosa di segreto.
«“Che ne pensate di un po’ di luce?”» dice Bilbo, quando nella stanza dove si svolgeva la riunione inaspettata era ormai buio, «“L’oscurità ci piace!” Dissero tutti i nani. “Oscurità per affari oscuri!”» (capitolo 1, Una riunione inaspettata, p. 28).
Oscurità e segreto è ciò che accompagna questa avventura. Oscurità, segreto, “oscurità per affari oscuri” è ciò che sembra avvalorare affari poco puliti. Eppure, nella pretesa dei nani di riottenere il loro tesoro non c’è niente di illegittimo.
La questione è il modo in cui legale e non legale, segreto e non segreto vengono messi in gioco in quell’azione, che è un’azione che coinvolge il rivolgimento solstiziale, dalla quale dipende.
C’è una frase importante che Bilbo pronuncia: «Sei un pazzo, Bilbo Baggins, e hai combinato un bel pasticcio con quella faccenda della pietra; e c’è stata una battaglia, nonostante tutti i tuoi sforzi per ottenere pace e tranquillità, anche se di questo non ti si può certo far colpa.» (capitolo 18, Il viaggio di ritorno, pp. 325-6).
La battaglia è ciò verso cui queste cose irrisolte convergono. Che tipo di battaglia è, questa battaglia? È una battaglia che nessuno voleva – o che nessuno voleva riconoscere come necessaria. È una battaglia che è stata combattuta senza sapere – allora – per che cosa si stesse combattendo. La funzione della Battaglia dei Cinque Eserciti è infatti contenuta nella funzione di rivolgimento solstiziale, cioè di tempo nuovo. Ogni anno avviene il cambio dell’anno. Solo chi è a conoscenza della data del cambio dell’anno può celebrare in quell’attimo il cambio dell’anno; ma solo chi, estraneo a quella questione del cambio dell’anno, può cogliere quanto presente nel volgere dell’anno, e inaugurare così un tempo completamente diverso. Questo nuovo tempo deve allora passare attraverso la Battaglia dei Cinque Eserciti.
E qui ritorniamo alla domanda di prima: che tipo di battaglia è la Battaglia dei Cinque Eserciti? La relazione contenuta a seguito dell’arrivo di Beorn in forma di orso è sufficiente per trarre delle conclusioni: «Allora il terrore piombò nel cuore degli orchi, ed essi fuggirono in tutte le direzioni. Ma con le nuove speranze la stanchezza lasciò i loro nemici, che li incalzarono da vicino, e impedirono alla maggior parte di loro di scappare. Ne spinsero molti nel Fiume Fluente, e dettero la caccia a quelli che fuggivano a sud o a ovest fin nelle paludi attorno al Fiume Selva; lì perì la maggior parte degli ultimi fuggitivi, mentre quelli che cercarono scampo nel reame degli Elfi Silvani furono abbattuti lì, o attirati nelle profondità del buio impenetrabile di Bosco Atro, per morirvi. I canti tramandarono che tre quarti dei guerrieri degli orchi del Nord morirono in quel giorno, e le Montagne ebbero pace per molti anni.» (capitolo 18, Il viaggio di ritorno, p. 326).
La Battaglia dei Cinque Eserciti è una battaglia che deve decidere quali razze, fra tutte quelle presenti sulla terra, abbiano il diritto di abitare la terra. Questa domanda non si presenta mai esplicitamente e la forma in cui essa si manifesta è quella di uno scontro di eserciti.
Questo per quello che riguarda il tempo cosmico, cioè la porta solstiziale. Ma la vicenda di Bilbo in quanto signore della porta solstiziale ha una appendice che riguarda la porta personale di casa. La funzione di Bilbo in quando iniziatore del nuovo tempo è nella selezione tra chi ha diritto di abitare la terra e chi invece deve essere soppresso. A livello più ampio, la vicenda di Bilbo è inquadrabile nella stessa vicenda che sarà poi di Frodo nel Signore degli anelli: partenza per la missione; grande guerra razziale; riconquista della casa.
Bilbo deve infatti, al ritorno, riconquistare la propria soglia di casa. Avevamo trovato Bilbo, in apertura di romanzo, in piedi vicino alla porta d’ingresso, intento a fumare dopo la colazione. È in questa separazione (signore del tempo solstiziale, signore della propria soglia di casa) che decade la possibilità di una decisione sulle razze che devono abitare la terra. Non è possibile stabilirlo a livello di pianificazione e la decisione deve essere lasciata allo scontro di eserciti.
Contrariamente a quanto si augurava Alessandro Dal Lago, in merito a una possibilità di reintegrare l’orco nella comunità alla quale, per un pregiudizio, non aveva accesso, Tolkien salda invece alterità e selezione. Se le trasposizioni cinematografiche dei romanzi di Tolkien hanno sempre attribuito agli orchi una fisionomia orripilante e irrealistica o semplicemente animalesca, Tolkien è invece stato sempre molto chiaro: «Gli orchi sono degenerazioni della forma umana degli elfi e degli uomini. Sono (o erano) tozzi, larghi, con il naso piatto, la pelle giallastra e bocche larghe e occhi obliqui: una versione in brutto dei tipi mongoli meno gradevoli a vedersi (per gli Europei).» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi, Milano 2001, lettera 210 a Forrest J. Ackerman; non datata, giugno 1958, p. 309).
È quindi il motivo che deve diventare comprensibile alla mente al fine di una pianificazione anziché di uno scontro di eserciti.

J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, traduzione di Elena Jeronimidis Conte, Adelphi, Milano 1979.

La terra lavata

Uffa! Si è mai notato quanto l’italiano sia una lingua brutta, rozza e pesante? Eppure, quante cose si possono dire con questa brutta lingua ad essa opposte. Si può immaginare un sistema critico che funzioni in base a valori diametralmente contrari a quelli attuali (ad esempio secondo la gradevole legge del “come se…”) e conformarsi ad esso, in un ozio irresponsabile, per la redazione di testi prima di allora mai pensati. Una certa lettura dei testi di Jung può confermare l’abitudine a vedere nei racconti popolari il resoconto del raggiungimento di una personalità soggettiva a seguito del confronto con alcuni ostacoli. Per quanto Lo hobbit di Tolkien non appartenga alla categoria dei racconti popolari, questa narrazione ne sfrutta le articolazioni. Ma il vero tema è ciò che viene rivelato alla fine: il processo di avveramento delle leggende, vale a dire il processo attraverso cui le leggende giungono ad avverarsi chiamando quegli insiemi di sottoinsiemi costituiti dai personaggi e dai racconti – e quindi il contributo dei personaggi al compito finale, che supera l’interpretazione degli stessi personaggi in quanto individui. Ma le leggende si avverano perché trovano nella verità la loro casa, nello stesso modo in cui i personaggi sono mossi dagli eventi al fine di riconquistare la propria casa. Quando alla fine del racconto Bilbo commenta che le vecchie canzoni si sono rivelate vere, gli viene infatti risposto da Gandalf: «“Ma certo!” disse Gandalf. “E perché non dovrebbero rivelarsi vere? Certo non metterai in dubbio le profezie, se hai contribuito a farle avverare! Non crederai mica, spero, che ti sia andata bene in tutte le tue avventure e fughe per pura fortuna, così, solo e soltanto per il tuo bene? Sei una bravissima persona, signor Baggins, e io ti sono molto affezionato; ma in fondo sei solo una piccola creatura in un mondo molto vasto!”» (J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, Adelphi, Milano 1979, p. 342). Proprio questa precisazione aiuta a cercare al di là della tendenza psicologistica di intendere il materiale di origine fiabesca, e al di là della tendenza che porta alla sopravvalutazione o alla sottovalutazione dell’io – che è poi la stessa cosa, partendo dalla stessa origine. Vale a dire di un individuo distaccato dall’insieme della razza di appartenenza, cioè da un destino di razza – che è ciò che concerne la narrazione.
Infatti Lo hobbit non si basa sulla formazione di un individuo tipo, quanto sulla necessità della distruzione di un’altra razza, apertamente mostrata in quanto inferiore. Così questa necessità si sviluppa attraverso un movimento che sembra possibile indicare in questo schema:

Introduzione La formazione della Compagnia (cap. 1)
Avventura 1 I tre troll (cap. 2)
Soccorritore 1 Il breve riposo presso Elrond (cap. 3)
Avventura 2 Il passo in montagna e l’agguato degli orchi (cap. 4)
Stazione Bilbo incontra Gollum (cap. 5)
Scorciatoie I lupi mannari e le aquile (capp. 6 e 7)
Soccorritore 2 Beorn (cap. 7)
Sequenza 1 I ragni (cap. 8)
Sequenza 2 Il re degli elfi (cap. 9)
Sequenza 3 La riconquista del tesoro (capp. 10-17)
Epilogo La svolta verso il luogo d’origine (capp. 18-19)

           

Stazione: il luogo dove Bilbo ottiene qualcosa, un oggetto magico (l’anello), da cui deriva un prestigio
Sequenza: un insieme di situazioni a cui Bilbo deve fare fronte
Scorciatoie: il luogo dove Bilbo è soltanto un peso

 Il capitolo iniziale (1. Una riunione inaspettata) e quello finale (19. L’ultima tappa) hanno funzione complementare: l’abbandono della casa per le multiformi avventure, nel primo capitolo; la riconquista della casa al termine delle avventure, nell’ultimo capitolo.
Beorn ha funzione di crocevia tra i due movimenti. E questo per varie ragioni:
1. È un personaggio collegato all’antica civiltà germanica. È un berserkr. La sua fattoria ricorda l’antica casa germanica (vedere il disegno della “Sala di Beorn” a p. 141, che riproduce il salone della tipica “casa lunga” di epoca vichinga).
2. Vive in una casa di tipo germanico, e si serve di animali domestici. La domesticazione degli animali ha però lì funzione accessoria, che scade a decoro, come si vede negli animali che apparecchiano la tavola per il pranzo.
3. Divide il romanzo in due parti: prima dell’incontro con Beorn, Bilbo è stato solo un peso per i suoi compagni. Dopo l’incontro con Beorn, Bilbo si dimostrerà un valido aiuto per la compagnia. Il cambiamento di prospettiva è rimarcato dalla partenza di Gandalf alla fine del capitolo di Beorn. Dopodiché Gandalf verrà ritrovato solo nel cap. 16 (Un ladro nella notte). La posizione di Bilbo all’interno della Compagnia riflette quindi tre momenti diversi dell’azione: il momento in cui l’azione viene avviata (e Bilbo è soltanto un peso fuori luogo); il momento in cui l’azione tocca il culmine (e Bilbo riassume in sé la posizione del guerriero e del raziocinante); il momento in cui l’azione viene risolta (e quindi Bilbo deve farsi da parte, non essendo egli un guerriero, in modo da lasciare il posto al vero guerriero, cui spetterà la conclusione della vicenda).
Elrond ha una funzione simile a quella di Beorn (è infatti stato compreso nella categoria Soccorritori). Anche Elrond è una figura che vive tra due mondi. Rappresenta una sosta per la Compagnia e divide due momenti importanti nel modo di fare di Bilbo: prima dell’incontro con Elrond, Bilbo se la deve vedere, anche se in modo piuttosto impacciato, con i tre troll; dopo l’incontro con Elrond, Bilbo ha a che fare con Gollum, ma ormai potrà dimostrarsi all’altezza della situazione, tenendo testa al nemico e riuscendo a conquistare l’anello, anche se in modo casuale, oggetto che tanto prestigio in seguito gli conferirà. All’uscita dalla Casa di Elrond è quindi quella di Beorn che attende per convalidare la posizione di Bilbo.
Le tre grandi sequenze nelle quali si manifesterà l’abilità di Bilbo hanno infatti il loro successo grazie all’uso dell’anello da parte di Bilbo. Queste tre sequenze comprendono: il combattimento contro i ragni di Bosco Atro (Mirkwood); la fuga dalla dimora del Re degli Elfi Silvani in cui sono prigionieri i nani della Compagnia; e, ultima, lo scontro con Smog.
Queste tre sequenze ruotano intorno alla possibilità della presenza di un ordine sociale: nella Sequenza 1 (i ragni) l’ordine sociale è del tutto assente; nella Sequenza 2 l’ordine sociale concerne un ordine di tipo sovrannaturale (gli elfi); e nella Sequenza 3 l’ordine sociale concerne l’ordine umano nella doppia forma della distruzione di Pontelagolungo (Lake Town) ad opera di Smog e della costituzione di un nuovo ordine attraverso la ricostruzione della nuova città su cui regnerà Bard. Questo ordine sociale non prevede l’esistenza di ciò che può essere definito come una razza inferiore. Anzi, ne prevede l’assoluta soppressione. Si intende per “razza inferiore” quella razza (o quelle razze) che un progetto della creazione permette di identificare come nocive al progetto della creazione e quindi degne di essere soppresse, ai fini di un ripristino della consonanza originaria della creazione. Questa interpretazione delle razze inferiori è tipica delle opere composte da Tolkien. L’epistolario riporta una diversa possibilità di composizione dei testi, volta non a dimostrare la giustezza della eliminazione delle razze inferiori, ma a riportarne un possibile avvicinamento nella forma di una celebrazione per capovolgimento. È ciò che Tolkien ha liberamente escluso dalla realizzazione: «Ho iniziato una storia che si svolge circa cento anni dopo la Caduta (di Mordor), ma si è rivelata sinistra e deprimente. […] Ho scoperto che anche in epoche così antiche ci fu un fiorire di trame rivoluzionarie, incentrate su una religione satanica segreta; mentre i ragazzi di Gondor giocavano a travestirsi da orchi e andavano in giro a fare danni. Avrei potuto ricavarne un thriller con il complotto e la sua scoperta e la sua sconfitta – ma non ci sarebbe stato altro. Non ne valeva la pena.» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza Lettere 1914-1973, lettera del 13 marzo 1964, Bompiani, Milano 2001, p. 387).
L’assenza di un ordine sociale (nel cap. 8) è segnalata dal fatto che i nani e lo hobbit, ormai alle strette, cercano di far parte di un ordine, dapprima solo intravisto da Bombur in qualità di sentinella come insieme baluginante di luci. Grazie al fatto di far parte di quell’ordine, essi potrebbero (secondo i loro intendimenti) ottenere il cibo di cui hanno urgente bisogno in quel momento. L’impossibilità di farne parte li relegherà nel non-ordine rappresentato dai ragni. Notare che il tentativo della Compagnia è rivolto verso un ordine diverso dalla propria appartenenza di razza, cioè verso l’ordine degli elfi (e quindi verso un ordine sovrannaturale). Quindi l’azione di Bilbo è l’azione di tendere alla fusione con un ordine sociale pertinente.
Più si va avanti, più le sequenze diventano complicate. Questo si vede nella parabola delle armi di Bilbo, la quale si esplica secondo una suddivisione che identifica: spada, in un primo tempo, contro i ragni; pietre e canzoni di dileggio, in un secondo tempo, contro i ragni; astuzia silenziosa contro gli elfi; dialogo astuto con Smog. Il lancio di pietre contro i nemici è un elemento presente nelle saghe islandesi. Colui che le tirava era un abile lanciatore e poteva uccidere un nemico con un tiro, come dimostra la Grettis saga.
Smog è il vero nemico contro cui la Compagnia deve confrontarsi. È il drago come è rappresentato dal Medioevo latino, ma non dall’antica civiltà germanica: che vedrà il drago come una specie di rettile volante con ali di pipistrello. Il drago antico-germanico era invece una specie di enorme verme o serpente (parola usata in antico nordico: ormr), senza zampe e senza ali, che poteva solo strisciare. Tuttavia il colpo di Bard sembra scagliato in ottemperanza dell’antico resoconto germanico. Il drago è sopra la città, Bard è infossato in un punto della città in fiamme. Ha sopra di sé il ventre indifeso del mostro. Gli basta alzare l’arma per colpirlo a morte. Il riferimento a Sigurðr uccisore di Fafnir è quindi tutt’altro che lontano. Ma è un lampo – come il suggerimento lanciato da Bilbo attraverso il messaggio del tordo.
Solo dopo la distruzione della rappresentazione latina del mostro si ha la riconquista della casa. La riconquista della casa ha avuto l’importante aiuto da parte di Beorn, personaggio che, anche attraverso il nome, si collega alla civiltà germanica. Il sottotitolo originale del romanzo precisa questo movimento: There and Back Again. Si tratta di andare “là” e poi di “tornare indietro”. La riconquista del tesoro – in sé – è quindi un elemento di secondaria importanza. Infatti gran parte del tesoro rimane nel luogo dove Smog lo custodiva. Così come gran parte del tesoro è stato costituito accumulando il frutto di tante rapine diverse effettuate in più luoghi. Anche la riconquista agisce in punti diversi, riguardando un insieme diverso. Ma quello che è da riconquistare è – sostanzialmente – la casa. Vale a dire: ciò che già si possiede; cioè la razza, che è la saga. Ricomponendo lo strappo dalla casa e facendo in modo che il mondo si costituisca come ciò che non fa più paura.
Notare infatti il cammino opposto delle armi usate da Bilbo: la spada (arma germanica) contro i ragni; l’astuzia silenziosa nella caverna degli Elfi Silvani; il linguaggio ingannatore con Smog nella forma della dialettica volta, non a convincere, ma a frastornare, impedendo di comprendere la verità. A Smog, che vuole sapere il suo nome, Bilbo risponde: «“Io sono colui che scioglie gli indovinelli, colui che strappa le ragnatele, la mosca che punge. Io fui scelto per il numero fortunato. […] Io son colui che seppellisce vivi i suoi amici e li affoga e li ritira vivi fuori dall’acqua. Venni dal fondo di un vicolo cieco, senza esserci mai caduto. Io sono l’amico degli orsi e l’ospite delle aquile. Io sono il Vincitore dell’Anello e il Fortunato; e sono il Cavaliere del Barile”» (p. 254).
Così lo scontro finale è una battaglia che coinvolge razze diverse. E che ne distrugge quasi completamente una (quella degli orchi). La diversità delle razze è segnalata, in Tolkien, dalla successione entro i vari momenti dei movimenti della creazione, in quanto processo non cristianamente unitario, bensì di tipo polifonico, secondo uno schema – di tipo gnostico – che Il Silmarillion precisa. La grande battaglia tra le cinque razze (Orchi e Lupi, da un lato; Elfi, Uomini e Nani, dall’altro) lava la terra e la rinnova.
Ma ancora, per quanto riguarda le armi, è da considerare l’ultima freccia di Bard, quella che uccide il drago: la freccia proveniente «dalla fornace del vero Re sotto la Montagna» (p. 283) e dotata quasi di vita propria, mossa dalla vendetta nei confronti dell’uccisore del suo forgiatore.
Gli arrivi differiti presentati nel primo capitolo e nel capitolo di Beorn si ritrovano nella battaglia finale, con i rinforzi che giungono in momenti diversi: prima i nani, poi le aquile, infine Beorn in forma di orso. In questo ritrovarsi attraverso tappe differite c’è una sequenza essenziale, e infatti tale sequenza compare nei momenti fondamentali del libro: all’inizio, nella casa di Bilbo; verso la metà, nella casa di Beorn; alla fine, nello spazio della battaglia dei Cinque Eserciti. Gli “arrivi differiti” indicano la stretta nei confronti della razza inferiore, ghigno nella creazione, razza che deve essere eliminata, quando il modo di pensare dell’azione ne indica – finalmente – i tempi. Ma che meno che mai prevede il soggetto in quanto forma contenitore dell’azione.
«I canti tramandarono che tre quarti dei guerrieri degli orchi del Nord morirono in quel giorno [il giorno della battaglia dei Cinque Eserciti], e le Montagne ebbero pace per molti anni.» (p. 326). Così la soppressione delle razze inferiori rigenera la terra. Non a beneficio di tutti gli oggetti della creazione, ma solo di quello principale. Poiché la razza inferiore, secondo quando concerne un progetto che parte dallo gnosticismo e arriva a Miguel Serrano, non è il risultato dell’atto divino della creazione, ma del demiurgo demoniaco.
Allora propriamente, la domanda “che cosa ho in tasca?”, colta per errore come uno degli indovinelli nell’oscurità, può suonare nella forma più consona al rivolgersi della sua oscurità: “che cosa ho in mente?”

L’eco del romanzo popolare

È probabile che la carriera di romanziere di Umberto Eco abbia la sua origine negli studi sul romanzo popolare raggruppati infine nel volume Il superuomo di massa (I edizione parziale 1976, edizione definitiva 1978. Il nome della rosa è del 1980), che infatti ha come sottotitolo: Retorica e ideologia nel romanzo popolare. I romanzi di Eco ricostruiscono molto del romanzo d’appendice, si presentano appunto come l’eco del romanzo popolare in base alle caratteristiche esposte in quegli studi: la trama è avvincente, il protagonista è un “superuomo”, il bene e il male sono sempre divisi in base a quello che per la società dell’epoca in cui questi romanzi vengono scritti costituisce la demarcazione imprescindibile tra bene e male. Nel saggio Le lacrime del corsaro nero Eco distingue romanzo problematico e romanzo popolare soprattutto in base al rapporto che essi pongono nei confronti della divisione tra bene e male: nel romanzo problematico l’intera costruzione fa sì che tra bene e male sia possibile avvertire una leggera ambiguità, indipendentemente dalle posizioni dell’autore; nel romanzo popolare nessuna ambiguità è concessa: il bene è solo ciò che quella società ritiene essere bene, il male solo ciò che quella società ritiene essere male. «In una parola, il romanzo popolare tende alla pace, il romanzo problematico mette il lettore in guerra con se stesso. Questa la discriminante; tutto il resto può essere (e spesso è) in comune).» (U. Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, Milano 2005, p. 13). Nei romanzi di Eco non compare mai la minima ambiguità. L’accettazione della differenza tra bene e male, con il suo congegno di date, il suo richiamo a fatti e romanzi, segna la ricaduta in un progetto che si potrebbe definire di stampo patetico-politico: il bene è solo il buonismo che l’ideologia di una ormai blanda sinistra indica come bene, il male ciò che l’ideologia di una altrettanto blanda destra indica come bene. I romanzi del cattolico Tolkien, con il loro grande successo popolare, erano di gran lunga più proiettati verso il romanzo problematico di quanto non risultino essere i dottissimi romanzi dell’illuminista Eco. Essi infatti si limitano a confermare una situazione acquisita, non insinuano il minimo dubbio. Non solo: confermano che aderendo alla più pacchiana ideologia dominante si può ottenere il successo, fare un sacco di soldi e ottenere la fama di grande uomo di cultura indipendente.
La grande truffa del romanzo popolare è all’opera nella sua interezza.

Solo un facitore di parole

Mai dire di uno scrittore: «È nostro!» È sempre la gabbia che scatta intorno a tutti!
Il bello delle idee di un filosofo sta nella pericolosità. Tutte le idee dell’uomo hanno la bellezza di molte diverse pericolosità. Qualunque idea è pericolosa. L’appropriazione di una idea da parte di qualcuno fa perdere sempre qualcosa di questa pericolosità indefinita. Allora sopraggiunge la piattezza della interpretazione.
Uno scrittore, un filosofo, un poeta dovrebbe essere caratterizzato proprio a partire dalla sua insofferenza verso un sistema ordinato di uso delle parole.
Filosofia e poesia sono ciò che permette di sfuggire alla gabbia che condiziona la vita di tutti i giorni. Infatti, poesia e filosofia sono un inciampo nella vita di tutti i giorni.
Ma il filosofo e il poeta possono sfuggire alla gabbia che condiziona l’uomo comune proprio in quanto possono sfuggire alle leggi della psicologia comune. Che è quanto la critica di tutti i giorni tende loro a negare.
Il poeta rende vere le parole di una lingua quando, solo per gioco, in una luce che è appena d’alba polare, ne illumina l’aspetto di crepuscolo del gioco. È stato più volte detto che la parola usata dal poeta non è la stessa parola usata dal giornalista, nel momento in cui il giornalista usa quella stessa parola.
Il poeta è solo “un facitore di parole”, “ein Worte-macher”, per usare le parole lontane di Nietzsche.
Però niente deve ricordare la parola del poeta, perché poeta è colui che affida la propria parola al mondo che rigetta la memoria.
Allora uno scrittore non deve essere un punto dove tutte le linee di una personalità coincidono, ma un insieme teorico da cui serie sempre diverse si dipartono per disperdersi. La fantasia di una metodologia di questo tipo è stata applicata da Hugh Kenner nello studio L’età di Pound.
Da qui l’importanza del post-strutturalismo.
Tolkien è un comodo caso. Due esempi tratti da La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973 (Bompiani, Milano 2001):
Lettera 45: Tolkien scrive di aver cominciato a studiare germanistica «come reazione contro i “classici”» (p. 65). Continua accusando Hitler (la lettera è del 9 giugno 1941) di distruggere il vero spirito nordico.
Lettera 53 (al figlio Cristopher): Tolkien parla del mondo che sta diventando tutto uguale, e conclude: «Ad ogni modo, questo dovrebbe essere la fine dei grandi viaggi. Non ci saranno più posti dove andare. E così la gente (penso) andrà più veloce» (p. 76). Poco dopo dice: «non sono del tutto sicuro che una vittoria americana a lunga scadenza si rivelerà migliore per il mondo nel suo complesso piuttosto della vittoria di –».
Notare: che cosa si può lanciare a partire dalla frase “fine dei grandi viaggi”? La «reazione contro “i classici”» richiama la contrapposizione civiltà germanica/civiltà latina.
Quanto si potrebbe collegare partendo da queste frasi! La critica ha detto di Tolkien: “Questo è nostro!”. Oppure: “Questo invece è nostro!”
Ma anche Mishima suona al caso. L’era degli scudi non chiamava più la penna da portare con sé.
Questo quando parlare non è scambiare parole come monete, ma chiamare alla parola.
Come l’infedele secondo il Corano, il poeta è simile al ragno, che costruisce la propria casa nel vuoto.

          ich bin nur ein Worte-macher:
          was liegt an Worten!
          was liegt an mir!