Marcello Veneziani, Nostalgia degli dei

Soltanto in previsione di un lungo periodo di guerre a venire, che, inevitabilmente, servirà a riportare alla rivalutazione dell’odio e del disprezzo tra i popoli, quanto poi di una comunità che accetti la nuova conformazione in base ai tempi, ma anche in base a ciò che riguarda la misurazione quantistica, si può pensare di scrivere, rivolgendosi a chi abbia finalmente chiara tale possibilità, altrimenti non si fa che ripetere cose perdute via via, strada lungo facendo; per cui sembra giusto partire dalla domanda: “qual è il conflitto?”, domanda che dovrebbe portare alla stesura di ogni nuovo libro, mentre la domanda che si pone adesso non è nient’altro che ciò che porta alla inadeguatezza di ciò che ci si ostina a definire come cultura di destra e cultura di sinistra.

Al di qua di questa possibilità, sembra stia giungendo la formazione di un centro destra culturale, che si conferma cultura come calma schietta sciatta scialla, che comporta la composizione di un libro quale opera di catechesi linda e blanda, mentre invece un libro non deve insegnare né tanto meno chiarire, quanto spandere energia dissonante attraverso la linea di un conflitto – infatti la serietà va bene solo quando riguarda la serietà del bambino che gioca, altrimenti è teatro, carnevalata, scherzo occasionale in costume, cioè salotto culturale.

Ma la questione che torna adesso è la composizione del testo, nei confronti di chi sarà chiamato a leggere il testo. Da quel maestro dell’analogia che era Novalis ricaviamo: «Il vero lettore dev’essere l’autore ampliato. Egli è l’istanza superiore che riceve la cosa già preliminarmente dall’istanza inferiore.», che è ciò che comporta la differenza tra Novalis, che vedeva nei lettori una continuazione dell’opera dell’autore, che è ciò che apre a Finnegans Wake, e l’intento di un libro che si ferma ad un intento di catechizzare.

Per il resto, il pensiero ordinato è ormai tanto di destra quanto poi di sinistra. Non lo avete mai notato? – ma questa è una cosa che non ci interessa e che facciamo bene a lasciare andare via al più presto.

Le regole sono sempre le stesse. Non potrà mai esserci il Nord come cultura operante finché esisterà il meticciato, perché esisterà solo qualcosa che identificherà la freccia che punta al Nord, che indica l’esistenza di ciò che è vita indegna di vivere, che è ciò con cui, prima o poi, qualcuno sarà chiamato a regolare i conti. Noi non sappiamo che forma potrà mai avere il nuovo pensiero, abbiamo solo la Freccia che punta al Nord, come aveva riconosciuto Heinrich Himmler nel modesto palazzotto di stile italiano reperito in terra germanica: un meticcio italiano può solo intrecciare storielle in un palazzetto tirato su altri da meticci italiani, come ha fatto il meticcio italiano Basile o il meticcio italiano Ariosto o, nell’ambito della musica, il meticcio italiano Monteverdi e così via via, strada lungo facendo; ma solo chi torna all’origine del pensiero della razza bianca può trovare, nel palazzotto tirato su dai mediocri meticci italiani, la Freccia che punta al Nord, che appartiene, alle parole che comprendono la nostra eredità, cioè le parole che abbiamo ricevuto in quanto nostra eredità, che è ciò che riguarda ciò che è giunto in eredità alla razza bianca, questo quando il pensiero torna a pensare il pensiero della razza bianca in quanto ciò che è da pensare, ma che non riguarda più ciò che è portato a nascere nel luogo in cui qualcosa ha la spinta di andare via da dove è nato andando nel mondo solo come terra dove andare – ed è per questo che è ormai tempo di passare dal bit al qubit, abbandonando la vecchia stratificazione della cultura. Il meticcio può fare giochi di parole, battute di spirito e raccontare barzellette in saloni bene illuminati dagli architetti del meticciato italiano, ma solo alla razza bianca spetta il compito di articolare l’arte del pensiero in ciò che il meticciato ha finora combinato.

Ma se vogliamo restare alla cultura di destra e di sinistra, alla cultura di destra compete allora il ricordo della razza bianca; mentre alle altre culture spetta invece il compito di cancellarne il ricordo; questo perché solo la razza può chiamare il poeta, che sarà allora il poeta della razza bianca, così come solo la razza può chiamare il compositore, che sarà allora il compositore della razza bianca, mentre il meticciato può avere soltanto un paroliere e soltanto un musichiere: il grande scrittore violenta la lingua, il piccolo scrittore è tanto se riconosce di avere a che fare con l’alingua come sua materia e fama e focaccia.

Ma rimane il concetto di Altro e di essere umano. Quello che l’andare per il mondo adesso consegna, è l’incontro con il meticcio: che deve essere separato da ciò che è l’incontro con l’altro, che allora è l’incontro con la terra. Noi pensiamo alla terra solo come terra dove andare, non pensiamo più alla terra come ciò cui spetti il diritto di stabilire chi abbia il diritto di abitare la terra; per cui pensiamo alla terra solo come terra dove andare, o come turisti, o come migranti, mentre ciò che comporta l’andare nella terra è solo andare nella Terra del Sacro, per incontrare la sacralità della terra, che è ciò che comporta colui che risponde alla nostalgia degli dèi, che deve allora incontrare ciò che, avendo avuto nascita nella terra del sacro, nel momento in cui esisteva soltanto terra, diventata poi terra del sacro, ne può redimere l’atto vergognoso di nascita, perché andare nella terra è allora possibilità di incontro con il sacro, che noi ormai non riconosciamo più come possibilità legata all’andare nel mondo, che questa recensione in negativo, una delle prime del genere, credo, tende ad esporre, nella forma di Dono della terra, che è l’incontro con l’Altro, che meno di tutto è l’altro come ciò che a caso si affaccia spaurito dal tientibene.

Così come il libro è allora ciò che sempre vuole vivere, tramite l’autore, che ne è soltanto tramite e letame, il mondo è ciò a cui si deve dare forma, perché la terra chiama il suo abitante, ma ponendo sempre la domanda: “Sono gli umani, adesso, in grado di dare forma al mondo, cioè la muova forma, di cui il mondo ha bisogno?”, così come la domanda che si presenta a chi si appresta alla composizione di un nuovo libro, perché è ciò che comporta, ad un tempo, le due cose che ne fanno una: struttura del libro e sacralità della terra.

Ancora una volta, “Incipit Zarathustra”: L’Europa alla razza bianca d’Europa! Restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa!

Marcello Veneziani, Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee, Marsilio, Venezia 2019

Ayatsuji Yukito, I delitti della Casa decagonale

Il romanzo poliziesco porta alle estreme conseguenze il concetto di narrazione, posto che si abbia intenzione di chiedersi che cosa si intenda, adesso, per “narrazione”, cioè posto che si voglia interrogare quella possibilità di collegare fra loro, strettamente, alcuni avvenimenti in modo da costituire una sola figura (forma, Gestalt) valida ai fini di ciò che è dato volgere, allora, come narrazione – così il romanzo giallo diventa un possibile meccanismo preciso, tanto da sostituire quel pacco di meccanismo al concetto di narrazione, e collegare il concetto di fine della narrazione prospettato da Byung-chul Han, per cui la questione riguarda la cosa che il romanzo giallo può chiamare in gioco, mentre la domanda riguarda ciò che esso può comportare, anche al di fuori del romanzo giallo; è bizzarro: se lo si guarda da un certo punto di vista, il romanzo giallo è quel genere di narrativa che ha a che fare con il concetto di vita indegna di vivere, ma il romanzo giallo è ciò che non nomina mai, esplicitamente, quella possibilità, cioè ciò che questa possibilità non piglia mai di petto, preferendo ricorrere al “gioco”, ma in quanto ciò che non si segna come ciò che è il gioco di dare forma al mondo, cioè il Grande Gioco; così il romanzo giallo, nonostante la sua propensione per il modo di pensare della maggioranza, deve essere indagato per la propensione strana che sembra volere indicare: trovare ciò che è solo vita indegna di vivere al fine di spiccare lì la vita, ma solo con l’aspetto di prendere parte a un gioco ben composto: il grande criminale impunito, il criminale che la legge deve lasciare libero, l’usuraio vecchio e inutile – tutto ciò che, nel mondo, costituisce e restituisce la comprensione di ciò che è la vita indegna di vivere; così un discorso critico sul giallo dovrebbe partire dal modo in cui – benignamente – si uccide, cioè dal modo in cui si stabilisce il modo in cui si trova del tutto giusto togliere la vita a quel tipo, o tipi, particolari di esseri viventi, che allora vengono identificati in quanto solo vita che è vita indegna di vivere. Per cui nel romanzo non c’è pensiero sulla eliminazione della vita indegna di vivere, ma costruzione di un congegno che porta all’abbattimento della vita indegna di vivere – vale a dire che il romanzo giallo è un gioco fatto per non pensare quello che invece è la cosa che dovrebbe tornare ad essere la cosa da pensare: cioè la vita indegna di vivere, la vita del pidocchio, la vita di ciò che non ha diritto di vivere.

Il giallo ha a che fare con la vita indegna di vivere, ma non lo ammette esplicitamente, essendo esso un genere di second’ordine, popolare, e un genere che nasconde questo suo modo di fare ricorrendo al gioco, che non è il gioco di dare forma al mondo, cioè il Grande Gioco del mondo, ma il gioco spicciolo del bambino del meticcio – così nel romanzo giallo, nonostante la sua propensione per il modo di pensare della più triste maggioranza silenziosa, deve essere indagato ciò che sembra indicare, quasi per gioco, ciò che non ha diritto ad essere fatto oggetto di indagine: la facilità del delitto, la facilità del meticcio, per cui togliere la vita a chi viene solo indicato come vita indegna di vivere, il grande criminale impunito, il criminale che la legge deve lasciare libero, l’usuraio vecchio e inutile – tutto ciò che, nel mondo, costituisce e restituisce alla comprensione di ciò che invece è vita indegna di vivere. Un discorso critico sul giallo dovrebbe partire dal modo in cui si uccide, cioè dal modo in cui si decide che valga la pena, ad ogni costo, di togliere la vita a quel tipo, o a quei tipi particolari di esseri viventi, che, via via, vengono identificati in quanto vita indegna di vivere.

Temo assai.

Tutto passa attraverso l’uomo criminale: solo pensando la soppressione dell’uomo criminale si potrà pensare, in un modo più libero, infine un mondo più libero. Se è vero che, nel romanzo giallo, agisce l’uomo criminale, che l’investigatore finisce per assicurare alla giustizia, è anche vero che, in quelle pieghe, prende posizione la possibilità di sopprimere l’uomo criminale – e infatti il giallo d’azione tende alla soppressione brutale del criminale, che è ciò che Leonardo Sciascia non tollerava nel “giallo d’azione”, soprattutto nella forma presa da Mickey Spillane, ma anche questo non va bene: pensare l’uomo criminale vuole dire pensare la razza la cui sola vita è un crimine, per cui fare i conti con l’uomo criminale vuole dire fare i conti con la razza che comporta la possibilità dell’uomo criminale, la cui sola vita è un crimine.

Leonardo Sciascia individuava nel romanzo giallo il genere che non richiede il pensiero da parte del lettore a sostegno di ciò che legge (egli infatti era solito leggere i romanzi gialli durante i viaggi in treno) – senza pensare che il romanzo giallo può portare a pensare ciò che, senza il richiamo al pensiero da parte del lettore, porta a pensare, chi, anche casualmente, legge un giallo.

Il gioco è appunto il punto bello di partenza, ma non illudetevi, perché di punti belli non ne avrete punto più: è il gioco che riguarda il rapporto tra autore e lettori, quando l’autore decide di riscrivere uno dei classici del genere romanzo giallo; e il gioco che riguarda il carnefice e le sue vittime, nel momento in cui il carnefice decide di mettere in opera il proprio gioco, cioè il Gioco del mondo, che è il punto in cui giace il GPS che alla fine lo incastra, posti certi parametri, se si accetta il gioco che è il gioco della letteratura, cioè il gioco della paraletteratura che ha comportato il gioco dei due romanzi di Agatha Christie, in quanto colpevole da non perseguire, in due modalità diverse, che è ciò che dimostra che il romanzo giallo nasconde qualcosa – perché altrimenti, dal gioco della paraletteratura, si sarebbe passati al gioco, ben più importante, della letteratura, che comporta l’altra lettura del GPS. Sappiamo che il “Giallo” ingloba la Gestalt, anche se manca uno studio sulla letteratura poliziesca, che consideri tale letteratura, o paraletteratura, da un punto di vista scientifico, come invece è avvenuto attraverso la letteratura, o paraletteratura, che riguarda quel genere simile che è la fantascienza. Il romanzo è quella cosa le cui piene potenzialità sarebbero pienamente visibili a tutti, se tale genere rinunciasse, una volta per tutte, alle due cose che nulla hanno a che fare con quel genere tanto spicciolo che sembra avere a che fare con il romanzo, tanto da essere spesso speso soltanto in trama e personaggi.

La questione è che manca lo stadio per la paraletteratura, ma così il romanzo giallo si pone su una soglia dove lo scoglio che non può essere oltrepassato è ciò che comporta la privazione della vita umana, che comporta allora la nuova domanda: ricordare che il personaggio Morisu Kyōichi è colui che spalanca la soglia della Casa decagonale davanti ai suoi ospiti, permettendo loro di avanzare nel Gioco – da lui preparato – apposta per loro sei.

Allora chiediamoci: “Perché il delitto spaventa così tanto?” Il personaggio di Morisu Kyōichi era portato a uccidere quei sei tristi personaggi perché quei sei avevano, indirettamente, condotto alla morte la donna che egli amava e dalla quale egli era amato, Nakamura Chiori. Ma perché togliere la vita, a chi si ritiene essere solo vita indegna di vita, costa poi così tanto, adesso, fino a spingere a confessare, poi, il delitto da parte di colui che lo ha commesso, come se la vita tolta in quei delitti fosse tutto, fuorché “vita indegna di vivere”? Questo è ciò che pone in una strana relazione i romanzi Delitto e castigo e I delitti della casa decagonale, passando attraverso il romanzetto Dieci piccoli indiani di Agatha Christie – romanzi che il personaggio Morisu Kyōichi doveva assolutamente ben conoscere, in quanto componente, egli, di un club del giallo – mentre però, ricordiamo, che, in Orient Express il delitto rimane santamente impunito; per cui bisogna interrogarsi sulla parte nella quale, concretamente, si colloca l’investigatore. È qui che interviene il pacco, cioè la spedizione del materiale, tramite posta normale o tramite messaggio in una bottiglia che arriva, comunque, sempre a segno al suo inconsapevole destinatario, tanto nella forma di caratteri vergati dalla mano assassina, quanto nella forma di mano recisa e che mai si è piegata a delitto alcuno.

In Dostoevskij si può fare sempre presente l’influsso del cristianesimo; ma questo non è più valido nei confronti di Ayatsuji Yukito, dove l’influsso del cristianesimo è minimo, mentre invece è importante considerare il planetario influsso della globalizzazione cristiano-occidentale, sì come noi la vediamo operare attraverso l’influsso del romanzo occidentale in Giappone (e così noi tutti conosciamo i tristi esempi dell’arte narrativa di Mishima e di Murakami Haruki), ma ancora di più, in questo caso, del romanzo giallo occidentale. È infatti da qui che bisogna partire.

Perché è così difficile uccidere, nei veloci tempi della velocità moderna – quando la cronaca sembra dimostrare invece tutta altra cosa?

A determinare i romanzi di cui qui si parla, è una domanda del tipo: “Che cosa costituisce quella cosa che fa l’essere umano?” In Delitto e castigo si può parlare dell’influsso del cristianesimo, che impedisce di toccare il pidocchio, nei Delitti della Casa decagonale c’è l’influsso di Delitto e castigo, e dei romanzi gialli occidentali, ricordati da AY subito all’entrata del romanzo in quanto epigrafe (= «a tutti i miei amati predecessori»), spalancando egli le porte come fa Van, ma la questione – che non viene pensata – è che l’essere umano è solo nient’altro che pallido concetto filosofico, che, in quanto tale, può facilmente cadere ed essere, nello stesso modo facile, facilmente posto a essere dimenticato, una volta che si impone un altro modo di pensare.

Se il romanzo giallo si presenta come il genere che dimostra il ripristino dell’ordine ad opera di un investigatore, allora almeno due romanzi di Agatha Christie mettono in crisi tale possibilità: Assassinio sull’Orient Express (1934) e Dieci piccoli indiani (1939). La possibilità è accennata come paradosso, non è mai affrontata a livello di novello pensiero sorgente, che vorrebbe dire mettere in discussione il rapporto tra delitto e castigo, cioè mettere in discussione il termine “delitto”, così come mettere in discussione il termine “essere umano”, che è ciò che chiama il castigo, che allora sarebbe appunto quello che deve essere chiamato solo come ciò che deve essere cancellato, per cui delitto e castigo sono le due opzioni che non devono mai essere collegate. Cosa che vorrebbe dire affrontare la questione della vita indegna di vivere, che questi romanzi appena sfiorano e poi gettano via.

Agatha Christie si muoveva a livello di quello che Leonardo Sciascia riconosceva come puro virtuosismo applicato a un genere appena di bassa letteratura, mentre AI si muove a un livello ben più complesso.

La questione che rimane: “Perché è così difficile uccidere – adesso –, anche solo a livello di testo letterario, tanto da richiedere, quando si uccide solo per finta, subito dopo, l’espiazione?”

Se tutto questo fosse una convenzione ereditata da vecchi testi meticci, come il vecchio romanzo del mediocre romanzo del mediocre meticcio russo Dostoevskij, dallo spicciolo titolo tutto russo di Delitto e castigo? Quello che è importante pensare è pensare la divisione che separa ciò che ha diritto di vivere dalla vita che non ha diritto di vivere, che è appunto ciò che la nostra contemporaneità non vuole pensare, tanto è vero che ne relega la possibilità in quel tipo di letteratura che non richiede il pensiero, perché richiede solo il sostegno di un niente più che un congegno.

Ciò che la letteratura gialla sfiora non è il concetto di vita indegna di vivere, che è ciò che la nostra epoca moderna vuole invece rimuovere a tutti i costi; il concetto di “vita indegna di vivere” è appena relegato in una sottospecie di letteratura, di romanzi per la massa, che non devono essere considerati come cose cui valga la pena pensare, quello che la letteratura poliziesca, come non letteratura che, in quanto “non letteratura” invita a pensare, è invece la possibilità del delitto – e infatti nel romanzo giallo l’arte del delitto sembra l’arte, fra tutte le arti a disposizione degli umani, quella più semplice da applicare, ma allora la richiesta del castigo è come la specie della falsa firma al progetto appena completato, che comporta la morte da parte della vita indegna di vivere, che è invece ciò che deve essere posta sotto la vista della letteratura, anziché sotto la svista della paraletteratura, che l’appone in ciò che ben si ritrovava in quanto morte dell’autore – che è ciò che comporta il messaggio lasciato nella bottiglia, nei due romanzetti qui ricalcati.

Il gioco è il punto di partenza: è il gioco che riguarda il rapporto tra l’autore e i lettori, nel momento in cui l’autore giapponese decide di riscrivere, nell’isola, uno dei classici del giallo accidentale; e il gioco che riguarda il carnefice e le sue vittime, nel momento in cui il carnefice decide di mettere in opera il suo gioco, cioè il Gioco del mondo, che è il GPS che lo incastra solo in quanto sua precisa posizione di artefice del gioco, ma non di colpevole. In quel gioco, che è il gioco della letteratura, il gioco della paraletteratura ha comportato il gioco dei due romanzi di Agatha Christie, in un romanzo che pone il colpevole in quanto colpevole in posizione da non più perseguire, in quanto ciò che non può essere perseguito, o ciò che non deve essere perseguito. È evidente che il romanzo giallo nasconde qualcosa – per quanto non dica niente, perché ogni romanzo è nient’altro che uno scherzo infinito, così la bottiglia lanciata in quei due romanzi gialli deve avere nient’altro che la funzione di una bottiglia di Klein, mai aperta e mai chiusa, perché ogni romanzo è nient’altro che uno scherzo, scherzo di becchino, nell’arco del suo tempo di lavoro, in quanto scherzo infinito.

Scrivere è un modo più che modesto di organizzare parole: Georges Simenon è lo scrittore poveraccio tanto molto mediocre, che noi tutti conosciamo; l’arte di scrivere è il dono di graffiare la lingua, senza mai usare le parole per fare addormentare – così come Hölderlin scriveva graffiando la carta senza usare inchiostro alcuno; Leonardo Sciascia diceva di usare i gialli come lettura per i viaggi che gli capitava di dovere ogni tanto intraprendere in treno – ma la lingua è ciò che la letteratura deve identificare come ciò che deve essere distrutto, quando chi scrive ottiene il proprio statuto nel momento in cui, dalla parola, passa alla lingua. Lo scrittore mediocre feconda la lingua, il grande scrittore violenta la lingua.

Lento avanza diritto il meticcio italiano in tutta l’Europa; lento avanza, sicuro, in tutto l’Occidente, il meticciato: un Dio sia sempre pronto a stramaledire l’avanzare dell’Italia!

Pensavo di iniziare questa recensione con questa epigrafe, che ormai mi sembra giusto porre, appena appena, giusto appena più che alla fine della recensione; eccola dunque qui tutta incantata per voi: «Þá hljóp Egill at Grími ok rak øxina i höfuð honum, svá at þegar stóð í heila.» – Io me li ricordo, quegli italiani bastardi, che ormai sono più che marciti nelle loro tombe: Dio stramaledica l’Italia!

Ayatsuji Yukito, I delitti della Casa decagonale (1987), traduzione di Stefano Lo Cigno, Einaudi 2024

Antonio Iovane, Il carnefice, Mondadori

Fatto a noi forse solo torna ora dire che Erich Priebke falso fu tutto simbolo uno, tombolo che, a modo di vampiro, attirato, ha, dico io, Erich Priebke, noi non sappiamo cosa sia il meticcio italiano – il meticcio italiano? il meticcio italiano porco e tanto sporco: noi che men che meno Nemo sappiamo cosa sia il meticcio italiano; “meticcio italiano” è sintagma che ci può osservare o anche no – da parte una e altra –, fautori e nemici, a falsa insegna, appunto, “falso simbolo”, cioè tutto quanto senso che falsità di “Erich Priebke quale falso simbolo”, è descrizione che vien su creata da epoca a cui non viene delegato privilegio di detenere più che mai il simbolo, ma che vuole creare stracci & stralci, simboli, stretti da parte una et altra, in quanto simbolo che le conviene creare, dico stracci & strappi & stralci su tralicci – e in questo caso il simbolo di nazismo, come simbolo di ciò che le conviene, punto creare, per cui Priebke era allora simbolo passibile & in tutto perfetto portatile, per quanto mai palesemente posticcio, perché inventato? l’incontro con il nazismo è quello che non avviene tramite la caccia al nazista Erich Priebke perché l’imprigionamento di Erich Priebke porta, come giustamente AI stesso richiama, all’intervista con il vampiro alla fine, battaglia perduta, intervista non concessa, a differenza dell’intervista concessa dal vampiro, ma questo per gli italiani è tutt’altro che ostacolo, simbolo del nazismo, non essendo mai possibile collegamento tra la grigia personcina di Erico Priebke a Bariloche beccato braccato e imbracciato verso su maledetta Italia il nazismo in quanto ideologia di foco e sangue, ma solo collegamento uno con epoca di vuoto & voto, che la maledetta Italia e gli italiani di merda, sua carogna infilata in quel posticiattolo perfettamente incarnata con tutti suoi ebrei capitanati, in cotanta sporca per caso porca occasione di un viaggio allucinante, dal ringhieggiante Riccardo de li Pacifici, porco italiano pastasciuttaro, orangutan pallido meticcio italiano che ringhia & scotesi, italo scatenato, come forchettata de li umani da Pierre de Boulle narrati & schiaffati in ristretta gabbia gabbietta a schiattare, non c’era niuna battaglia, a reclamare verità sovra falso straccio & simbolo, questo perché l’epoca che non ha simbolo è l’epoca del vuoto (ma l’italiano di merda è ciò che vince sempre nel vuoto) – per cui il libro di Antonio Iovane sona allora sì simbolo di come si possa legittimamente compilare romanzo sovra cotanta spirale di vuoto voto vacuo fatto sfatto sfratto sfruttato pure, in occupazione di tempo, giacché solo l’epoca de lo vuoto ha clamato, infatti, libro compilato, puntualmente, (cioè a partire da punto 1, spunto voto vuoto fatto or or di placca tanto nova) allora dall’autore Antonio Iovane, perché l’epoca del vuoto è l’epoca che non possiede più simbolo, perché se simbolo è ciò che non è mai ciò che viene dominato, ma ciò che domina li umani esseri tutti quanti in batteria, ma appunto proprio questo è ciò che deve essere riconosciuto, sembra caso di asserire, nonostante Jung & Lévi Claude di Strauss, stesi a nova definizione di loco tanto passivo di soggetto quanto uno, nel mondo momento in cui viene riconosciuto dominio tale e tale, instaurando così pericolo di dominio di simbolo mille e mille, che è ciò che vediamo essere stato presente nel nazismo, mentre ciò che vediamo nel romanzo Il carnefice di Antonio Iovane è ciò che sembra avere autorizzato a definire Erich Priebke attraverso il solo sintagma “il carnefice” da parte di AI, in quanto autore in tutta estensione di romanzo suo più che men che prolisso, (per ben sei volte nei titoli di capitoli porchi suoi, leggiamo: “Il carnefice a Roma / Il carnefice spara / Il carnefice in Argentina / Il carnefice in Italia / Il carnefice a processo / Il carnefice muore”) posso dire, senza mai presentare giustificazione per tal trito & triste sintagma in piazza tengo tango a dire, puro sintagma intensivo, per quanto tale triste & abusato epiteto non sia mai comparso nella definizione del personaggio in quel là dato romanzo – infatti Antonio Iovane non presenta mai Erich Priebke quale personaggio di romanzo, cosa che comunque sarebbe stata inopportuna, proprio perché AI è ciò con cui non vuole avere a che fare, in quanto presentare Erich Priebke come protagonista di romanzo avrebbe voluto dire smascherare il vuoto su cui ’sto personaggio del picchio reggesi in pacchia di avversari appena (“io lavaplatos”, ma bisogna pure salvare il sogno delle parole dal romanzo?), che è lo vuoto che regge tutti gli scribacchini/becchini che picchi picchiano a la maledetta & stramaledetta Italia di merda porta a porta (= Dante di merda = Boccaccio di merda = d’Annunzio di merda, cazzo, li avrete sentiti nominare, no?, questi bastardi di italiani?), tale da essere gratificato da questo epiteto, quanto meno all’interno di un genere di romanzo, ma tale tratto a carro tramoggia tra tanti strutti stratti termini è ciò che tenta compilatore AI, che si move nell’epoca senza simboli, bove asinino, a presentare tristo traino trito stretto suo protagonista di malora cotanta triste figuranza che è porca sua (Dio stramaledica l’Italia!), che pon carro tramoggia innanzi a tanti bovi miti tutti quanti che li rimangono (Dio stramaledica l’Italia!), mentre nel romanzo non devono essere personaggi a parlare, ma la lingua a creare i personaggi lungo il procedere de lo romanzo tutto allora intenso (Dio stramaledica l’Italia!); ma come organizza, AI, il suo romanzo-inchiesta?, eludendo zum pa pa possibilità di “antiromanzo” (niente antiromanzo, per l’italiano di merda, semmai romanzo, per lui, en la forma di romanzo di Murakami Haruki), pure utilizzata da Laurent Binet in HHhH, suo romanzo, che vuole dire giustamente tramite polifonia interna a genere di “romanzo”, che porta romanzo quello a farsi falsa polifonia tutta di autentico richiamo paulausterianamente steso a coinvolgere propria sua figura & pure propria famiglia in sporca impresa di maledetta Italia (così AI richiama i suoi nonni durante svolgimento di romanzo tutto suo stracciato), il quarto volume del Romanzo Einaudi contiene saggi due, uno a nome di Richard Maxwell, titolo: “Manoscritti ritrovati, strane storie, metaromanzi”; uno di Alessandro Baricco, dicolo titolo: “Dracula”, che permettono di collegare figura di Erich Priebke, come vista da AI in tratto di suo romanzo-inchiesta, a figura di Dracula conte presente minaccioso nel romanzo Dracula di Bram Stoker e dei Protocolli dei Savi anziani di Sion; perché, secondo Richard Maxwell, il manoscritto non è tanto ritrovato quanto “costruito” a scotto pezzotto dopo pezzotto: Dracula potrebbe dominare la intera razza umana gente, a meno che non si intervenga per eliminarlo, per cui la ricerca scientifica (qui volta a la messa in luce del vampiro sì quale personaggio) diventa strumento privilegiato di igiene sociale; invece Alessandro Baricco collega la figura di Dracula Conte a quella di don Giovanni, per cui Dracula come romanzo è caratterizzato da una strana difformità: Dracula, a cui è intitolato il romanzo, non è il vero protagonista del romanzo, infatti egli è molto poco in scena, e dopo la prima parte, quella relativa a Jonathan Harker, sparisce e fa solo fugaci apparizioni, mentre gli altri personaggi, sono letteralmente ossessionati da lui – un altro testo ha una struttura simile, egli fa presente: Don Giovanni di Mozart e Lorenzo Da Ponte – ma la questione è che è stato visto in Dracula il nemico di razza, che è quello che non può più essere considerato, poi, come dimostrano i casi di questi due tardi e tosti romanzi: Io sono leggenda (1954) di Richard Matheson e Il pianeta delle scimmie di Pierre Boulle (1963), cioè la questione, antecedente a tutti romanzi del mondo moderno, di dare forma al mondo, eliminando ciò che non ha diritto di stare nel mondo e ciò che invece deve essere eliminato dal mondo (eppure qui non si pensava, coscientemente a “dare forma al mondo”, tutt’altro); Dracula e don Giovanni possono essere accostati in base a comune una caratteristica: perché essi occupano un pertugio pesto, quello del desiderio scatenato, che rischia di travolgere tutti coloro che hanno a che fare con loro; una società è così minacciata da una forza terribile (don Giovanni, Dracula); per sconfiggere il nemico, che è il nemico di razza, la società non può usare le sue solite armi, ma deve allearsi con il sovrannaturale; così don Giovanni sarà ucciso da uno spettro, i nemici di Dracula dovranno accettare l’esistenza dei vampiri e usare le armi sovrannaturali per annientarli: la scena si presenta anche più che ambigua: le vittime sono travolte dalla forza oscura, l’accettano, non se ne ritraggono, almeno di primo acchito, è tutto un baratro che si apre e che rischia di travolgere la società razionalmente costituita, perché si ha lo sprofondamento nel dionisiaco, e in Dracula è soprattutto presente l’aspetto della repressione del sesso, tipica dell’epoca vittoriana, le donne rischiano di sprofondare nel buco dal quale colui che occupa lo spazio del buco le chiama, e di trascinare con loro i rispettivi mariti, Dracula è quindi la personificazione dello scatenamento di queste forze, sopprimere Dracula vuole dire impedire la trasformazione delle donne in creature selvagge e primitive, folli per il sesso; ma, tornando al romanzo di AI, che conosce tanto Don Giovanni di Mozart/Da Ponte, quanto Dracula di Bram Stoker, il paradosso è questo: che Erich Priebke non soni mai come simbolo di nazismo, perché il nazismo ha rappresentato il pericolo che Jung ha ricordato nell’archetipo collettivo, mentre gli italiani sono a tutti gli effetti simbolo del meticciato, la cosa più schifosa che esista al mondo, che è che ciò che mai e poi mai è chiamato a stornare, perché (noi siamo ciò che siamo chiamati ad avere a che fare con la strategia di ragno di meticcio italiano, come direbbe Van Helsing – “Dio stramaledica l’Italia!”, dico, chiamando, qui, non il dio höldeliniano, indicato là giustamente come il dio del nemico, ma il dio della razza bianca) dubbio a voi viene che questo romanzo sballo di gruppo gestito è da Simon Wiesenthal Center pure? (Dio stramaledica l’Italia!) – “Se fai come Simone, non puoi certo sbagliar” – tempi sono ormai così messi che, o trionfa la giustizia proletaria o trionfa giustizia come solo Klossowski ha saputo indovinare definendo Sade colui che ha visto nell’ateismo realizzato la fine dell’epoca dell’umanesimo, che è quello che il finocchietto italiano e comunista Pasolini mai ha potuto comprendere di Sade in lettura sua di giornate 120 su pellicola – ma è un peccato che il finocchietto italiano e comunista Pasolini non abbia stiracchiato fuori un romanzetto da propria sua versione su pellicola di Salò stertoroso, così come ha tirato fuori un romanzetto da sua pellicola stertorosa Teorema, perché sarebbe venuto fuori un romanzetto forse importante, così come io penso che Teorema sia un romanzetto importante nel panorama della letteratura del disgustoso meticcio italiano, ma con ben altri finocchietti, il finocchietto Pasolini ha avuto a che fare – quando, leggendo un testo del finocchietto italiano e comunista Pasolini, si viene irretiti in quella strana considerazione sull’agire del proletariato, cui il finocchietto italiano e comunista Pasolini subdolamente voleva condurre a sesso duro, a cui non avevamo mai ancora pensato, per cui i concupiti uccelli proletari, che la giustizia proletaria avrebbe dovuto fare fucilare come proprietà privata oppure stabilire in quanto bene collettivo, da quel finocchietto italiano e comunista fatti fotografare in impeccabile targa steampunk vaporante, bisogna sempre allora sempre chiedersi: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano, in Europa?”, per poi subito rispondere: vuole italianizzare, vuole meticizzare l’Europa, così AI è il folle per trovare la giustificazione per eliminare di brutto vecchio Erich Priebke, per cui non è possibile carpire il romanzo inchiesta Il carnefice di AI se non si ha presente il romanzo Dracula di Bram Stoker, e così Resistenza è il vuoto che marca voto che tanto lega il disgustoso meticcio italiano (= monstruo, cazzo, lurido schifoso bastardo meticcio cretino italiano di merda che in tutto sona lurida bava d’Italia, che balla e sballa, che mai deve avere terra, perché mai ha avuto zolla, terra e sangue), che non ha ragione manco una, dico appena una, di esistere, con sue teorie di scimmie boulleane, mai booleane – questo per niente; per cui questa può essere pure versione breve di recensione lunga di istesso ben uno romanzo, quello appunto di AI, che potrebbe ugualmente tanto essere stesa in intensa forma quanto estesa in distesa forma, ma che dovrebbe allora comprendere pur ben 335 frasi (Dio stramaledica l’Italia!), separate da punto uno, una per ogni carcassa di maledetta carcassa di meticcio italiano bastardo separata appunto da sparo uno paro paro (pum!, via un italiano; pum!, via un altro italiano; pum!, via un altro italiano cacciato sopra quell’altro), Dio stramaledica l’Italia!, e pure versione mediana di 335 frasi tutti uguali, una per ogni bastardo di italiano in quelle Fosse cave, ma devo dire, questo perché gli italiani non mi sono mai piaciuti per niente (cazzo! – Dio stramaledica l’Italia!), anzi, a dirla tutta, devo dire che, tutti gli italiani, mi hanno sempre fatto schifo, tanto assai e sono ben contento di questa lontana & pur remota occasione da me nel tempo che ha permesso, in tutta legalità, di farne fuori ben trecentotrentacinque – dico e godo 335 italiani di merda, sempre troppo pochi, trecentotrentacinque italiani di merda ma sempre meglio di niente (in fondo e frodo, che è, che definiamo romanzo, se noi siamo ciò che rimane, 11 picciol cose da dire e poi ridire?) – così questo post è scritto e detto in segno di aspro disprezzo verso disgustoso meticcio italiano di merda, quanto mi fanno schifo gli italiani, e le italiane pure, col loro Dante di merda, così gli antifascisti in Scarpetta conclamati, che han sì difeso Priebke Erico (Erich), in sui ultimi giorni, partivano dal principio che “il nazismo è ormai più che men che niente”, contrariamente invece a quello che invece deve essere considerato, cioè lasciato cadere il “pericolo” che è sempre presente nel richiamo al nazismo, che è quello che invece ha indicato Jung, nonostante il giudizio negativo di Miguel Serrano, che è ciò che deve ritornare – poi l’intervista col nazista, che chiama la bolsa falsa intervista con nosferatu da parte di Dame Anne Rice, vanhelsingianamente stiracchiata in parte, contro il quale è giusto ciò che allora stato è compilato in rapida fretta tutta, affinché mai si dimentichi il disprezzo, ciò che ha smesso insieme meticci italiani + qualche ebreo di fretta pure piatta con patta fatta mano morta matta, cioè la lista lesta – ma il guaio è che le carcasse degli italiani possono sempre chiamate esser posson come “zombie” a comparire, a Lestat empire voto e i meticci italiani de le Fosse Ardeatine sono sempre solo italiani di merda & trecentotrentacinque italiani di merda, zingari africani, scarafaggi africani, italiani di merda sono semper pronti a balzare freschi & frischi da fiaschi Klein chianti frizzanti da Fosse Lambrusco Ardeatine sì quale patatine fish & chips fritte da bottiglie Klein di un manico dispiegato, malpagate, ad anfora su da Fosse Ardeatine di merda per partecipare a gran ballo di gruppo di negro bianco sbiancato Michael Jackson sonato da gran lovecraftiano falso magro John Landis di sogno in filmato suo di negro tutto blek all horror macigno balocco in chiave haka, sempre in lutto, uno a volta che a italiano di merda surge in la mente su di porca sua di italiano (cazzo di italiano di merda, mille volte, ti dico io di qui quo qua, italiano di merda, al lazzo, cazzo t’allaccio: 335 italiani di merda) di dire che stata è compilata completa & completata, cosa mai mai? – cosa cosa mai mai, mi domandi?, di allora: te lo vomito dritto addosso su quella tua brutta testa di italiano di merda, italiano di merda, nient’altro che nova lista

 

 

Antonio Iovane, Il carnefice. Storia di Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, Mondadori, Milano 2024

Egils saga Skallagrímssonar, Íslenzk fornrit 2, Reykjavík 1933

Danilo Kiš, Enciclopedia dei morti

Enciclopedia dei morti (1983), dello scrittore “jugoslavo” Danilo Kiš, è una raccolta di nove racconti in cui manca, programmaticamente, qualunque brivido metafisico, brivido spesso presente nei racconti di Borges, intendo nei suoi migliori racconti, pienamente presente nel racconto La biblioteca di Babele (1941), racconto certamente presente a DK nella stesura del suo racconto L’Enciclopedia dei morti, presente in quella raccolta. La mancanza del brivido metafisico è trovare la grigia realtà dove invece doveva esserci il sublime, anche se il sublime come esperienza del terrore. Ho sempre pensato che il racconto di Borges derivi da uno dei migliori racconti di Lovecraft, L’ombra calata dal tempo (The Shadow Out of Time), scritto tra il novembre 1934 e il febbraio 1935 e pubblicato nel 1936. In questo racconto di Lovecraft, come negli altri suoi migliori, c’è il brivido di un tempo colto come tempo che non può essere misurato con gli strumenti maneggiati dagli umani, perché non appartiene al tempo umano, bensì esposto, logicamente, alla piena estraneità di quella esperienza, e che per questo porta il brivido. Che cosa presenta, invece, qui il colto racconto di Kiš? soltanto la biografia di una persona qualunque, nella cornice metafisica di un racconto che rimanda soltanto al racconto di Borges in quanto rimando colto affidato all’ombra della persona qualunque che legge la lettura di una notte qualunque a Stoccolma, ad una luce molto incerta, molto oltre l’orario di apertura della biblioteca, di un libro incatenato allo scaffale. Questa tecnica (se si può parlare di tecnica) si ritrova poi ripetuta nel racconto finale.

Di sicuro Borges conosceva – e, a suo modo, stimava – l’inimitabile arte di Lovecraft, come dimostra il suo racconto There Are More Things del 1975, inserito nella raccolta Il libro di sabbia.

Torniamo a Kiš. Colleghiamo l’ultimo racconto, I francobolli rossi con l’effigie di Lenin, al racconto l’Enciclopedia dei morti, presente nella stessa raccolta: il tema comune è la storia banale che non può essere fatta oggetto di racconto alcuno, conducendo esso solo ad una più che mediocre narrazione, a causa della banalità, ma che, tramite uno spicciolo di stratagemma, può essere proposta come cosa che vale ancora la pena raccontare ancora volta per volta. I due racconti hanno tratti comuni: sono in forma di lettere redatte da donne: una figlia che vuole ricordare il padre preservandone i tratti suoi più banali, indifferenti, comuni, di vita comunque qualunque di lui; una donna che ricorda l’amante, un grande poeta, poi coinvolto nell’ala turbinosa della dissidenza sovietica, infine vittima di quel potere, volta a preservare la mediocrità di tante parole scambiate dalla ineluttabilità della critica letteraria occidentale; in entrambi i casi, il racconto, ridotto al suo nucleo, non dice niente, perché non c’è niente da dire, ma solo la cornice, in cui esso viene posto a gravitare, è in grado di garantire, di volta in volta, la parvenza di un nuovo contenuto, e quindi a riproporlo.

Bisogna distinguere sempre l’arte dello scrittore di razza bianca, che oltrepassa i limiti della forma che trova all’inizio della propria attività, come ciò che gli viene consegnato per ottenere una forma assolutamente diversa, che è però la piena realizzazione di quello che egli aveva ottenuto, dalla falsa arte (che è arte degenerata, e quindi ciò che non va assolutamente da nessuna parte) del meticcio, che è sempre ciò che è per razza, cioè solo un meticcio, che è lì perché sta lì, così come, in alcuni casi, va via da lì. Ma non vi sembra che questa frase «Nelle vaste biblioteche che essi avevano accumulato c’erano testi e raccolte d’immagini in cui erano compendiati gli annali della terra: storia e descrizione di tutte le specie che erano o sarebbero esistite, con la loro arte, scienza, lingua e psicologia.» (H.P. Lovecraft, In Id. Edizione annotata H.P. Lovecraft, a cura di Leslie S. Klinger, Mondadori 2022, traduzione di Giuseppe Lippi, pp. 982-83) sia calata dal tempo di Lovecraft a Providence dritta addosso al tempo impettito di Borges a Buenos Aires? Dico che, per quello che mi riguarda, il vero obiettivo è sempre la mentalità del meticcio.

Sulla stessa linea, da precisare non è la comparsa dei Protocolli (racconto dal titolo Il libo dei re e degli sciocchi della raccolta) nel mondo, ma la stupidità, che ha fatto sì che quelle cose apparissero tutte come degne di attenzione. Quello che invece deve essere affrontato è la semplicità, che riguarda ciò che non può più essere ritenuto in quanto tale, cioè il fatto che non si possa discutere di ciò che ha diritto di vivere, dividendolo da ciò che invece deve essere soppresso. Perché, allora, stupirsi dei campi di sterminio, quando si ha solo a che fare con “cose” – cioè cose che sono state, cioè semplicemente eliminate, congedate, tolte dickianamente dalla falsa circolazione imposta dai falsari?

L’interpretazione del mondo, che coinvolge il racconto dedicato allo gnostico Simone il Mago, così come il racconto dedicato alla formazione del testo conosciuto come Protocolli dei Savi anziani di Sion, è ciò che le parole, comunemente riservate per la rappresentazione del mondo, non valgono più, che è quello che accomuna il racconto sulla Enciclopedia a quello sui Francobolli con l’effigie di Lenin. DK avrebbe dovuto considerare, che, ciò che fa lo scrittore, è selezionare le tante parole che gli si presentano a disposizione, fra tutte le parole del mondo, che è invece ciò che non ha fatto, creando così quest’opera effimera, dove non può che mancare il richiamo alla razza. Il meticcio deve sapere di essere di un tipo di razza che non è razza, perché è antirazza. Questo è ciò che dimostra l’arte del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio: Stefano Jossa ha giustamente definito lo stile del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio come stile del “superuomo umile”, che però deve essere distinto dal “grande stile” di Nietzsche, che è ciò che riguarda la differenza tra lingua e parola.

Essere chi scrive è, in ogni caso, essere signore delle tante parole giunte anche, per caso qualunque, a sua disposizione; ma sta sempre a chi legge, ricomporre poi il testo che gli è capitato di leggere, anche se solo per un caso qualunque, perché lì sta la differenza.

Danilo Kiš, Enciclopedia dei morti, traduzione di Lionello Costantini, Adelphi 2001.

Philip K. Dick, L’uomo nell’alto castello

I molti mondi di PKD

Quello che, da parte di Philip K. Dick, può essere ricondotto alla teoria dei molti mondi riguarda la possibilità di una pluralità di mondi, oggettivamente organizzati da una mente divina, come si evince dal testo “Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro” (in Philip K. Dick, Mutazioni, conferenza del 1977 reperibile anche su You Tube), ma a beneficio di chi, possiamo adesso chiederci? – ora possiamo dire che PKD è stato tradito dal suo stile sempre trasandato, che ha fatto sì che non si guardasse giammai le spalle dai falsari orecchini di appena qualche Gide/25, come invece aveva fatto Lovecraft, scrittore a lui di gran lunga superiore – visto che PKD si è limitato a scrivere tanti spiccioli romanzetti idioti quanto spicciolamente democratici.

1. Dare forma al mondo

Modulare la scala di Dick Maggiore è modulare la scala di Dick (PKD) in modo maggiore rispetto a quanto da lui impostato, nonostante l’Esegesi (cioè la parte pubblicata da Pamela Jackson e Jonathan Letham con questo titolo), che è senz’altro la parte più alta da lui composta. Se un romanziere si limita a raccontare storie non fa che perdere tempo, evitando di fare il proprio mestiere. Il nazismo ha presentato la questione di dare forma al mondo, che è la questione che allaccia cosmogonia e cosmologia, cioè dare forma al mondo e pensare la forma che il mondo “potrebbe avere se…” – ma che è appunto la cosa che PKD non ha mai pensato, come si evince dal modo in cui egli ha posto il nazismo, quale vincitore della Seconda guerra mondiale, a base del suo romanzetto L’uomo nell’alto castello. PKD ha così intagliato un mondo di fantasia in cui il nazismo ha vinto la guerra, con la logica dell’arte dei nativi della Costa del Nord-Ovest, che forse aveva intravisto, senza avere mai pensato la possibilità di un mondo in cui il nazismo abbia davvero vinto la guerra, così come non aveva mai pensato un altro modo di vedere, poiché era solo uno scrittore mediocre, senza la bellezza che ha permesso a quei nativi americani di intagliare quello che adesso si vede solo nei musei etnologici dall’Alaska alla California e in Canada. Il tono di dare forma al mondo è ciò che apre al mondo, cioè alla comprensione del mondo in quanto unico mondo disponibile. Il romanzetto in questione si apre col modesto individuo Robert Childan quando apre il suo negozio, che è il migliore di quel settore, cioè il negozietto “Manufatti artistici americani”, specializzato in oggetti di antiquariato/modernariato ad uso quasi esclusivo di un pubblico giapponese, nella città di San Francisco, presente solo a causa della vittoria di Giappone, Italia (la maledetta Italia, come mi diverto sempre io a chiamarla, perché sempre quella è rimasta) e Germania dopo la Seconda guerra mondiale, che ha diviso il vecchio territorio degli Stati Uniti in due grandi zone a partire dalle Montagne Rocciose: zona occidentale sotto il governo del Giappone, zona orientale sotto il controllo della Germania. Il modesto e impacciato commerciante Robert Childan rappresenta il tentativo di composizione di questa frattura, perché cerca di essere in ottimi rapporti con i giapponesi, senza rinunciare alla sua origine americana – origine di cui egli sembra sempre, comunque, andare in cerca. Ma il meticciato è solo meticciato. Dare forma al mondo è il gioco che collega l’arte di Tolkien alla forma d’arte di PKD; mentre l’arte di dare forma al mondo è ciò che allontana questi due più che lontani scrittori. E infatti Tolkien ha salutato la vittoria sul nazismo, che sempre si è augurato, in un modo che, come dovrebbe sempre fare uno scrittore, chiama al pensiero, non decidendo: «[…] non sono del tutto sicuro che una vittoria americana a lunga scadenza si rivelerà migliore per il mondo nel suo complesso piuttosto della vittoria di –» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, traduzione di Cristina De Grandis, Bompiani, Milano 2001, p. 76). Il trattino di Tolkien indica appunto ciò che è da chiamare di nuovo, a partire dalla rovina che deve spingere alla nuova ripresa della battaglia, che sarà sempre la ripresa della battaglia per il mito. PKD scrive il suo malaugurato romanzetto interamente dopo la sconfitta del nazismo (prima edizione del romanzetto: 1962). Il nazismo ha cercato di dare forma al mondo. Dare forma al mondo comportava stabilire chi ha diritto di vivere e chi deve invece essere soppresso. La soppressione di zingari ed ebrei era solo il primo passo verso la composizione della nuova Europa, che era il vero compito del nazismo, compito che avrebbe comportato la soppressione del meticciato presente nella vecchia Europa, rappresentato dal meticciato slavo, di tipo mongolide, e dal meticciato latino, di tipo negro-semitoide, e la cui scomparsa avrebbe aperto al Nuovo inizio dell’Europa, cioè l’Europa della razza bianca, per cui il nazismo si poneva come ciò che era stato chiamato a restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa. Ma il nazismo ha rappresentato il pericolo, da parte di ciò che è umano, con l’incontro con il mito, che è appunto ciò che il nazismo presenta come ritorno del mito. E che gli umani non sono più in grado di avere a che fare. In questo romanzetto, PKD nasconde tanto questo pericolo quanto questo incontro, che è quello che vediamo come Hitler in quanto continuazione del mondo classico, e Himmler in quanto fautore del nuovo inizio, che deve riportare integralmente il mito nel mondo. È importante stabilire a questo punto il collegamento con Tolkien: il mondo viene dotato di forma, ma si stabilisce chi ha diritto di abitarlo e chi deve essere escluso, cioè soppresso. Gli Orchi sono le forme viventi che, nell’opera di Tolkien, devono essere soppresse. Ricordare come, secondo Tolkien, gli orchi sono stati ottenuti. «Gli orchi sono degenerazioni della forma umana degli elfi e degli uomini. Sono (o erano) tozzi, larghi, con il naso piatto, la pelle giallastra e bocche larghe e occhi obliqui: una versione in brutto dei tipi mongoli meno gradevoli a vedersi (per gli Europei).» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi, Milano 2001, lettera 210 a Forrest J. Ackerman, giugno 1958, p. 309). Giunge il momento in cui nella Terra di Mezzo compaiono gli Elfi. Melkor ne è al corrente e fa in modo di irretirli. Ne rende alcuni schiavi e, dopo vari tentativi, crea la razza degli Orchi: «Fu forse questa l’azione più abietta di Melkor, e la più odiosa a Ilúvatar.» (p. 55) e a p. 326 si dice: «[…] gli sconci Orchi che sono contraffazioni dei figli di Ilúvatar» (J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, a cura di Christopher Tolkien, traduzione di Francesco Saba Sardi, Rusconi, Milano 1986). La pura contraffazione della forma divina è ciò che lo gnosticismo riconosceva nella forma degli esseri ilici, che devono solo essere forme vuote destinate alla soppressione. Johan Chapoutot ha precisato l’importanza che le rovine avevano nella costruzione dei monumenti durante l’epoca nazista. «Da tutto questo si ricava l’impressione che ciò che importava a Hitler, sin dall’inizio, fosse meno la vita che non la morte: non la realtà effettiva, le opere e i giorni, in breve l’amministrazione di un Reich millenario, ma la memoria e le rovine di un impero, preoccupazione estetica, memoriale, addirittura metafisica più che politica.» (Johan Chapoutot, Il nazismo e l’antichità, traduzione di Valeria Zini, Einaudi, Torino 2017, pp. 397-98). L’alternativa è paradossale: «[…] ciò che è costruito nell’edificio, è la distruzione dell’edificio stesso» (pp. 398-99). Questo è perché il nazismo si costituiva in quanto nuova battaglia, ma che era ancora tutta da venire, vale a dire: mito. Mito che deve ritornare per chiamare alla nuova battaglia. Ciò che può costruire qualunque cosa, nella stessa ideologia dominata dal meticcio, è solo il richiamo alla nuova battaglia, che sarà possibile solo con l’edificazione delle nuove rovine, che, soltanto, erano in grado di chiamare alla nuova battaglia. Questo è ciò che apre alla possibilità dell’entrata in gioco dei falsi, che è ciò che chiama l’arte del falso, che sarà ciò che può mettere in pericolo l’impresa di Robert Chindal fino a spingerlo, verso la fine del romanzetto, a cambiare genere di oggettistica trattata dalla sua impresa. Comunque la si pensi su questo mediocre romanzetto di PKD, questo mediocre romanzetto è di gran lunga superiore al “romanzetto”, più che falso, di quell’autentico meticcio italiano che è stato il meticcio italiano Umberto Eco (ve lo ricordate, quel meticcio italiano?), parlo del romanzo Il cimitero di Praga, perché il fatto di scrivere un romanzetto è ben diverso dal fatto di scrivere anche lo stesso “romanzetto” con la convinzione di scrivere un romanzetto – e comunque un meticcio italiano ha quella particolarità che lo costituisce, nella sua più che parca porca autenticità, sempre in quanto arte di un falso in grado di imporsi a dispetto di ogni originale, perché ciò che costituisce la differenza è ciò che determina, appunto, il meticciato, ossia ciò che distingue ogni volta il disgustoso meticcio italiano, che ha la sua specificità di “razza” (= antirazza), che ne determina l’autenticità nella falsità, che è autenticità, che sempre deve essere rilevata, che è poi la puzza di esistere che sempre lo contraddistingue, vale a dire ciò che ne costituisce, proprio grazie alla sua falsità, l’inaudita, irrimediabile e sinistra, disgustosa galleggiante falsa autenticità. Vale a dire: la puzza di esistere. Non si è sempre detto che, per distinguere l’arte, ci vuole naso? Così possiamo dedurne che Glasperlenspiel è allora il GPS adatto per muoversi in campi di questo genere. Se, per voi, che leggete qui, leggere una terzina del disgustoso meticcio italiano Dante Alighieri non vi dà nausea di alcun genere, io non ci posso fare niente, perché vuole dire che l’immunità contro l’arte degenerata non vi è pervenuta come immunità dalla nascita. Ciò che il nazismo si è sempre posto come fine è stato restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa – che è ciò che determina il verso della relazione, alla quale, a quanto pare, voi non appartenete. Scrive PKD sui lettori di fantascienza: «Eppure… la SF è una forma d’arte sovversiva e ha bisogno di scrittori e lettori con pessime abitudini, come quella di chiedersi “perché?”, “come mai?”, “chi l’ha detto?”. Questi interrogativi nei miei scritti si sublimano in: “è reale l’universo?”; “siamo tutti davvero umani, o alcuni di noi sono solo macchine dotate di riflessi?”.» (“Introduzione a ‘The Golden Man’”, in Mutazioni, pp. 116-7). Per cui la domanda da porsi, per uno scrittore di fantascienza che vuole scrivere un romanzo sul nazismo, come identificato da PKD, dovrebbe essere del tipo: “… e se i nazisti avessero avuto ragione?”. PKD ricorre, per pubblicare i suoi scritti, a ciò che adesso si definisce “paraletteratura”, romanzetti di fantascienza; ignorando ciò che è, a dirla con Hölderlin, Dichterberuf. Ma qual è il rapporto tra i due tipi di parole che noi conosciamo (paraletteratura, Dichterberuf)? Ciò che apre non è qui ciò che chiude, perché è ciò che chiama al ritorno, cioè alla ripresa della battaglia. Chapoutot ha indicato come i monumenti nazisti venissero pensati come ciò che, in quanto futuro ammasso di rovine, avrebbero chiamato alla nuova battaglia. Il richiamo alla nuova battaglia è sempre il ritorno del mito, in quanto ritorno del mito in quanto mito che, in questo caso particolare, è stato al potere. Così il mito può imporsi, adesso, solo in quanto pericolo del mito, e il nazismo è stato il pericolo del mito in quanto pericolo del ritorno del mito, cioè del mito al potere; ma quanto, di tutto questo, entra nel romanzetto di PKD, cioè entra in esso in forma di mito? PKD confonde nazista e antinazista in un unico atteggiamento: «Anche gli ebrei tedeschi parlavano tedesco… e ricordatevi che un fanatico sionista ruppe una mano a un violinista ebreo con una spranga di ferro perché il musicista aveva osato suonare un brano di Richard Strauss durante un concerto in Israele… È o non è, questo, un comportamento identico a quello delle camicie brune negli anni trenta?» (“Il nazismo e ‘The Man in the High Castle’”, in Mutazioni, p. 152). Questo è ciò che del nazismo entra nel romanzetto di PKD L’uomo nell’alto castello. Quello che PKD rappresenta nel mondo alternativo del romanzetto L’uomo nell’alto castello è la decameronizzazione del mondo, che ha vinto, costituendo il mondo vero, il mondo dove il meticciato ha vinto e domina, ma ciò che veramente ha vinto, nell’Asse rappresentata da Germania, Italia (la maledetta Italia), Giappone, è l’Italia del meticcio italiano Giovanni Boccaccio e della decameronizzazione, che è sempre quello che si vede negli aspetti peggiori dell’arte narrativa, anche nella più che mediocre arte narrativa di PKD, poiché PKD non sa di essere un personaggio di un suo mondo inventato. Non vedete il finocchietto Pier Paolo Pasolini, quel disgustoso meticcio italiano (finocchietto), che vi sorride e vi fa l’occhiolino di entrare? La grossolana arte del finocchietto Pier Paolo Pasolini, quel disgustoso meticcio italiano (ribadisco io), era la stessa grossolana arte utilizzata dal meticcio italiano Giovanni Boccaccio, e prima ancora dal disgustoso meticcio italiano Dante Alighieri, perché un meticcio può solo imbastardire. E gli italiani sono solo bastardi che possono solo imbastardire tutto il mondo, se lasciati liberi di andare in tutto il mondo.

2. I personaggi che non hanno importanza

Qualunque forma di incontro, in Europa, con un portatore di caffettano deve dare il voltastomaco, la stessa cosa che, nel Mein Kampf, viene presentata come il primo incontro con un portatore di caffettano a Vienna, che, in quel periodo, non poteva che essere un ebreo, si presenta adesso in forma diversa in tutta Europa; il meticciato è il portatore eterno di caffettano, si tratti di un ebreo, di un arabo o, come adesso, del più sempliciotto e striminzito italiano di merda, è sempre il meticcio mediterraneo, la cosa che non si doveva lasciare allignare in Europa, ma che si incontra sempre più frequentemente in tutta Europa, con sempre più diritto di ascolto. Il meticcio italiano è la cosa che, formalmente, non indossa il caffettano, quindi non può essere definito “portatore di caffettano”, ma solo dal punto di vista della forma, perché, dal punto di vista della sostanza, l’italiano è il perfetto “portatore di caffettano” della nostra epoca, cioè la cosa che, pur non indossando il caffettano, si comporta come il “portatore di caffettano” della nostra epoca, cioè la cosa che deve essere scacciata dall’Europa. Quando si incontra un meticcio italiano in Europa, comunque il meticcio si comporti, non rimane che porsi la domanda silenziosa: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano (cioè questo nuovo portatore di caffettano, riconoscibile appunto in quanto non portatore di caffettano), adesso, di nuovo, in Europa, per ripetere quello che una volta faceva il portatore di caffettano? Vale a dire: Che cosa vuole, questo bastardo di italiano, in Europa?”. Vediamo che, nell’arte dubbia e primitiva, quanto si vuole, di PKD, i personaggi non sono importanti. Eppure i personaggi sono la cosa fondamentale di quell’arte gretta e spicciola (pulp, denominata appunto) di cui egli è diventato presto la sgradevole icona. I personaggi non sono importanti perché il grado due nella scala tonale non è molto importante. I personaggi devono invece richiamare la misurazione quantistica come modo superiore di interpretazione. I personaggi di Dick sono appena abbozzati, per questo bisogna scavare a fondo, non solo nelle rughe della psicologia, per andarli a trovare, ruga per ruga. La divisione delle tre forme di esistenze secondo i valentiniani: spirituali, psichici, ilici. Gli ilici rappresentano l’aspetto più interessante. La sola immagine della divinità non è sufficiente a garantire la sacralità della figura umana, ma anzi dimostra la sua mancanza di divinità, essendo, essa, pura immagine, qualcosa come una carcassa. E chiama la distruzione di quella contraffazione della divinità. Ma questo è pensare proprio al di là di Dick. Il romanzo è un genere fatto per occuparsi solo di individui, perché è un genere che non sa come occuparsi della razza. Ci vuole una nuova forma di romanzo che comprenda ciò che deriva dalla Storia (Geschichte, secondo la terminologia di Heidegger) e non più dalla storiografia (Historie, secondo la terminologia di Heidegger) – questo è ciò che dico e ridico da sempre in questo mio sito, dove sparo a vista sul disgustoso meticcio italiano. Perché finché un solo italiano si troverà in Europa, l’Europa non sarà mai la terra della razza bianca.

3. I due libri

Due libri sono ricorrenti nel romanzetto del tutto inutile di PKD dal titolo L’uomo nell’alto castello: I Ching, che rappresenta la sincronicità di un istante dell’universo; La locusta si trascinerà a stento attribuito a Hawthorne Abendsen, che rappresenta la possibilità di una coesistenza di universi paralleli. Questi due libri rappresentano il mondo nella forma di Intensione/Estensione. Rappresentano la possibilità della distinzione tra grado maggiore e grado minore. Che però, nel romanzetto, che è qui il romanzetto del modesto scrittore PKD, contenente il romanzetto di Abendsen, vengono abilmente presi e confusi. Quasi tutti i personaggi del romanzetto di PKD consultano l’oracolo del romanzetto di Dick, (che però è un libro autentico) mentre solo alcuni personaggi, nel romanzetto di Dick, leggono il romanzetto, in esso contenuto, La locusta si trascinerà a stento. L’oracolo viene consultato, mentre il romanzetto viene leggiucchiato, oppure letto in tutta fretta, coma fa Juliana, che pure trae, da quel modesto romanzetto, il massimo che esso, come romanzetto, poteva offrire, cioè il rimando agli altri libri, ma che qui è solo il Libro dei Mutamenti. Due libri sono appunto ricorrenti nel romanzetto L’uomo nell’alto castello di PKD: il Libro dei Mutamenti, libro reale, che, stando allo stesso romanzetto, fornisce le risposte; La locusta si trascinerà a stento, libro immaginario, che fornisce la domanda. Ma la domanda da porsi è chiedere perché, un piccolo scrittore così mediocre, come PKD, sia riuscito a imporsi, fino ad essere ritenuto uno degli scrittori più importanti e influenti della sua epoca, che in parte si profila ancora come la nostra epoca. Questo porta alle due parole, parola in quanto parola “anonima” di un best seller, parola in quanto Dichterberuf consegnata ai testi della letteratura. Che è ciò che porta a distinguere i due modi: il modo maggiore della letteratura e il modo minore della paraletteratura. Infatti, rispettando questa modalità è possibile, adesso, contrapporre PKD a Murakami Haruki, che, volendo, è un PKD che ha solo imparato a scrivere. Comunque, meglio avere a che fare con un giapponese ignorante come Murakami Haruki che con un italiano bastardo, almeno come la vedo io – mentre PKD deve sempre essere tenuto lontano da un vero scrittore come invece era H.P. Lovecraft.

4. Genette

Affinché vi sia il mito deve esserci un modo comune di parlare, che deve portare alla domanda circa il mito e il suo ritorno. Perché ci sia il mito come dominante, deve esserci una preparazione del mito, che riguarda la sottodominante, per cui, dopo, ci sarà solo il mito. Questo è ciò che è ciò che qui riguarda la Dominante. Infatti la letteratura fornisce la possibilità di una voce diversa, che legge la letteratura da un punto di vista diverso. (Gérald Genette, “Verosimiglianza e motivazione”, in Id., Figure, I, traduzione di Franca Madonia, Einaudi, Torino 1972, pp. 281-305.)

5. L’arte come dominante

Il tema “Dare forma al mondo” è il mito, che in PKD non compare mai, perché il mito è ciò che non compare mai nei romanzetti di qualunque tipo essi siano, compreso il romanzetto L’uomo nell’alto castello; per quanto il “romanzo” Le vergini delle rocce del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio tratti proprio di un mito di questo genere molto assai stravagante. Il prosciugamento del Mediterraneo e la soppressione dell’Africa sono i punti fondamentali di questo romanzetto di PKD, ai quali non si è fatto caso. Ma proprio PKD non aveva intenzione a svolgere questa possibilità. «Per questo mi piace la SF, amo leggerla e scriverla. Lo scrittore di SF non intravede semplici possibilità, bensì possibilità bizzarre. Non un banale “e se…?”, bensì un “oddio! E se…?” in preda alla frenesia e all’isteria.» (“Introduzione a ‘The Golden Man’” in Mutazioni, p. 125). Qui si vede la distanza fra PKD, mediocre scrittore di romanzetti di fantascienza e il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio. Dei tre aspetti viventi contemplati dallo gnosticismo, gli ilici sono l’aspetto più interessante. La sola immagine della divinità non è sufficiente a garantire la sacralità della figura, ma anzi dimostra la mancanza di divinità nell’immagine, essendo, essa, una cosa relativa a una pura immagine. E proprio per questa ragione, cioè essere solo un’immagine della divinità, gli ilici meritano la totale distruzione. Per questa ragione mandare via gli italiani dal mondo è restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa.

6. Il fantasma della terra

Rudolf Wegener è il nome del personaggio che, nel romanzetto di PKD in questione, chiama una nuova teoria della composizione della terra, cercando di salvare il Giappone dal complotto che lo voleva annullare, nello stesso modo in cui aveva fatto Alfred Wegener con la teoria della deriva dei continenti? Che cosa fare della “terra” nella terra che è stata occupata dal meticcio, dopo che il meticcio è stato cancellato da quel luogo, e quindi dopo che il concetto <terra> può essere riproposto come cosa da pensare di nuovo? Nel romanzetto di PKD si parla di un Mediterraneo completamente prosciugato e di un’Africa in via di completa desertificazione. Malgrado questo, PKD non aveva capito niente di quello che era il progetto nazista, visto che PKD era solo un mediocre scrittore di piccoli e spiccioli romanzetti idioti (qualcosa come il meticcio italiano Umberto italiano con i suoi romanzetti). Il disprezzo è conoscenza in quanto dà accesso a ciò che è il meticciato, che è quanto si rivela nella sua più pura boccaccesca pseudonatura, perché noi conosciamo il meticciato solo grazie all’“arte” – che è arte degenerata – come arte giunta, fra gli altri, dal meticcio italiano, e mediocre scrittore, Giovanni Boccaccio, arte che, senza il disprezzo, non si potrebbe mai conoscere nella sua vera natura, perché si conoscerebbe solo il concetto di “uguaglianza”, imposto dal cristianesimo, che non prevede l’arte degenerata, che chiama ciò che è razza degenerata – per cui, adesso, possiamo dire che esiste l’arte degenerata solo perché esiste la razza degenerata – che è la vita indegna di vivere, ma che pure viene lasciata in vita. La desertificazione dell’Africa, appena accennata da PKD nel suo romanzetto, che pure è il tratto più vivo, nel suo plumbeo romanzetto di fantascienza, deve includere: la soppressione delle forme meticce (generalmente definite “umane”) presenti nel luogo impropriamente definito “terra”; la soppressione delle forme “animali” presenti nel luogo impropriamente, fino ad allora, definito “terra”; la soppressione del luogo stesso, fino ad allora, impropriamente definito “terra”, che era servito come sostegno per le forme meticce e animali; lo sprofondamento della piattaforma impropriamente, fino ad allora, chiamata “terra”. Queste tre forme di annullamento si collegano alle tre forme dell’essere umano secondo lo gnosticismo. Dare forma al mondo, a questo punto sarete d’accordo, è cancellare le brutte forme del mondo del meticciato dal mondo. Il mondo della scarsa narrativa di PKD è infatti una non-terra che, in quanto tale, non chiama mai il suo abitante. La terra, nei romanzetti di PKD, è solo pallida squallida superficie dove alcuni individui possono essere latori di un messaggio di salvazione, prendersi cura di animali elettrici, ma dove mai, in nessun caso, la terra è qualcosa che può scegliere il suo abitante.

7. Sensibile alle storie

Il romanzetto L’uomo nell’alto castello di PKD comporta diverse storie più o meno simultanee: la storia dell’operazione Dente di leone, che comporta la storia di Baynes/Rudolf Wegener; la storia di Juliana, che comporta l’uscita dal romanzo, con la scoperta che l’oracolo ha scritto il romanzetto perché è vero; i due mondi (Tempo fuor di sesto) e il mondo unico (L’uomo nell’alto castello): niente via d’uscita, perché nel mondo unico non c’è il mito; la storia del romanzetto La locusta si trascinerà a stento scritto dal Libro dei mutamenti; la Via del centro mobile, che è la via che permette a Juliana di porre la domanda all’oracolo: perché hai scritto il romanzetto La locusta si trascinerà a stento? Domanda alla quale l’oracolo risponde: “Perché è vero”. Juliana lascia la casa degli Abendsen e pensa a come tornare al motel. Il mondo vero, in cui è stato pensato e scritto il romanzetto L’uomo nell’alto castello, è il mondo vero, in cui Germania, Italia e Giappone hanno perso la guerra; il mondo nel quale si muovono i personaggi del romanzo L’uomo nell’alto castello è un mondo di finzione, in cui Germania, Italia e Giappone hanno vinto la guerra. La domanda che allora si pone è: “Da dove viene la risposta dell’I Ching?” e come può influire in rapporto ai personaggi del romanzetto L’uomo nell’alto castello? Ragle Gumm in uno dei due mondi concentrici, aveva la possibilità di passare dall’uno all’altro, anche grazie agli aiuti che gli permettevano di “ricordare”, giungendo così a decidere in quale mondo vivere – egli infatti finirà di scegliere di vivere nel mondo più che esterno a quello creato per lui, unendosi ai ribelli della colonia sulla Luna, che lanciano razzi sulla Terra. In presenza di due mondi, il centro è unico: RG è l’unico centro del suo mondo, perché tutto quel mondo è stato creato intorno a lui, ma senza un centro stabilito, il Centro è un punto mobile che chiunque deve trovare per conto proprio, è la Via che Childan, Tagomi, Juliana inseguono. Juliana torna nel suo mondo, e infatti, appena uscita dalla casa degli Abendsen, cerca un mezzo qualsiasi per tornare al motel. Differenza tra Tempo fuor di sesto, che prevede due mondi concentrici. L’uomo nell’alto castello prevede un solo mondo, quello in cui Germania, Italia e Giappone hanno vinto la guerra, e un centro estremamente mobile, che rappresenta la Via, e che diversi personaggi del romanzo cercano di attirare dalla loro parte per poter vivere nella condizione di centro del mondo. La questione è la funzione della narrativa, anziché della spicciola “letteratura”, che è ciò che lega la parola alla lingua in quanto Dichterberuf. La scelta di Ragle Gumm come scelta che comporta la scelta di combattere contro la propria razza – quando la razza è solo ciò che non richiede scelta. La storia come punto sensibile che porta alle storie rivela il gruppo di personaggi implicati nella sporca storia (storia spazzatura), che è la storia della espansione del meticciato nel mondo. Ma quello con cui dobbiamo fare i conti adesso sono gli zombie ardeatini, dobbiamo affrontare gli zombie, le sporche carcasse che schizzano su dalle Fosse Ardeatine. So che, ogni volta che tornerò a casa di notte, rischierò sempre di trovarmi davanti le carcasse-zombie di quegli italiani di merda schizzati su dalle Fosse Ardeatine, luride carcasse di merda di italiani di merda, zombi caracollanti come nel filmato del negro bianco Michael Jackson, e infatti, da allora, sto sempre chiuso in casa: se io fossi vissuto in epoca nazista, col cazzo che avrei fatto parte della Resistenza di voi, bastardi italiani di sinistra. Sarei stato dalla parte dei nazisti, cioè della razza bianca. Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Fine. Come? Fine.

 

Philip K. Dick, L’uomo nell’alto castello, traduzione di Marinella Magrì, Mondadori, Milano 2022

Philip K. Dick, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, a cura di Lawrence Sutin, traduzione di Gianni Pannofino, Feltrinelli, Milano 1997