4 3logie

La narrativa è quel genere letterario che trova inciampo nelle cose più tanto lontane a ciò che riguarda la parola e la lingua, che sono, in questo caso, i personaggi e la trama – cosa che vale tanto per la stesura quanto per la lettura di un testo di narrativa: noi infatti non sappiamo più pensare o parlare di un testo di narrativa senza fare riferimento a quelle due cose che sono trama e personaggi; e non è un caso che gli esempi più maleodoranti, nella narrativa, li troviamo nella desolazione del meticciato: il Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio è finora uno dei più convincenti esempi di meticciato applicato all’abuso dell’arte narrativa – ma perché questo? perché viene lasciato libero di esistere il meticciato, che è invece ciò che deve essere abbattuto, in quanto selvaggina abbattuta per gioco di legge – gioco che, per un poco, meno che mai ci sarà, ma che gioco deve essere, cioè gioco del gioco mondo.

Il modo migliore per parlare di un testo di narrativa è mettere da parte intreccio & personaggi, spostando l’attenzione sul modo in cui il testo è costruito. Per quanto riguarda il personaggio non si pone passaggio da sfondo a primo piano, quanto discontinuità, dove la nostra abitudine porta a vedere la permanenza di un unico elemento inalterato, da sfondo a fondo – perché è quello che noi vogliamo vedere. Il personaggio è un’abitudine, così come l’intreccio, che però non hanno nulla a che vedere con la costruzione di un testo di narrativa, se si guarda con diversa attenzione. Accaniti lettori, riconosciamo noi allora trama e personaggi perché siamo abituati a leggere soltanto in un certo solo modo quello che altri hanno scritto soltanto in un certo modo; se solo sapessimo, noi, leggere e scrivere in un modo diverso non avremmo bisogno di ricorrere a trame o personaggi – che è poi quello che in un campo diverso, da quello della narrativa, si può imparare dalla misurazione quantistica – e questo vale tanto per la lettura quanto per la redazione dei testi di narrativa.

Se il punto fermo della nuova ideologia è che il meticciato è ciò che deve essere soppresso, noi non abbiamo una qualunque forma di narrativa che possa affermare questo in modo conforme a ciò che, come narrativa, possediamo né un modo di leggere che possa dedurre questo dai testi di cui disponiamo. Ma le strutture narrative che accantonano tale possibilità sono forme primitive di narrazione – forme volte alla narrazione come forma di un consumo tanto spicciolo, in quanto repertorio di luoghi comuni di facile accesso da cui attingere, perché noi abbiamo solo a che fare con un mare di narrativa di consumo che avanza, con la sua inconsistenza, con il suo meticciato, con la sua leggerezza, con la sua arroganza, con la sua vuotezza, con la sua maigretudine, con la sua negritudine, con la sua sciocchezza, con la sua stanchezza, con la sua inconsapevolezza, con la sua picaritudine, con la sua italianitudine, con il suo turno di tutto ciò che di inconsistente, afrofuturisticamente, ci chiama.

Che cosa diceva, Fredric Jameson, a proposito dell’unicità di Finnegans Wake? L’esistenza degli esseri ilici, pura immagine della forma divina che devono essere abbattuti, è il vertice del pensiero gnostico, alla quale, però, Philip K. Dick mai è stato dato accostarsi, perché non ha mai pensato il gioco del mondo fino in fondo, come gioco di dare forma al mondo basato sulla differænza tra chi spetti il diritto di vivere e chi spetti invece quello di essere abbattuto.

Che cosa hanno in comune queste quattro trilogie? niente se non il marchio del Gps – che qui però sta per GlasPerlenSpiel.

Noi sappiamo che il meticcio ha modi suoi di raccontare il modo di occupare il mondo, come ricaviamo da quello che è stato scritto dal meticcio italiano Dante e dal meticcio italiano Boccaccio, modi diversi da quelli della razza bianca, che invece è ciò che è chiamata ad abitare la terra; il racconto della razza bianca è un racconto che ha più a che fare con una tecnica di lancio di messaggi subliminali, mentre il racconto del meticcio è un racconto che deve illuminare in chiaro modo, dappoiché il cervello del meticcio è un cervello rozzo che vediamo funzionare benissimo nel modo di raccontare del meticcio italiano Boccaccio, se lo confrontiamo con i messaggi subliminali contenuti nel film Valis di cui tratta la Trilogia di Valis. Il meticcio, non ci si stancherà mai di ripetere, deve essere fermato non per ciò che fa, ma per ciò che è – che è ciò che mette fine al racconto, che è invece ciò che mostra quello che il personaggio fa. Al di là del modo subliminale di raccontare proposto dal film Valis, qualcosa dello stesso modo di raccontare compare in Finnegans Wake di Joyce. Ficchiamocelo in testa: esiste il meticciato perché esiste l’italiano di merda. La genialità degli italiani consiste nell’avere manifestato il nemico di razza in fantocci letterari improbabili come il commissario Maigret, Miss Marple e varie sagome altre, per nascondere il vero pericolo, quando il primo islamista della storia è stato il meticcio italiano Dante Alighieri, la prima sagoma, il primo paroliere, Dante al-Islām Alighieri, il multietnico, il primo vero e solo kamikazzo di Allah, sagoma fatta fugacemente per nascondere “la razza”, la razza sporca, l’antirazza: l’italiano di merda errante, l’italiano di merda eterno, l’italiano di merda.

Che cosa hanno in comune, queste quattro trilogie? Niente, se non il fatto di poter essere collegate attraverso un semplice fischietto Gps (Glasperlenspiel): quale gioco di perle di vetro allora porre? il tema fondamentale resta: “come si determina il personaggio?”. Costume è ciò che veste il personaggio, salvandolo dalla nudità a cui lo chiama il sogno: scrittore è colui che è stato lasciato nudo, solo solo fra le parole del mondo – quando i legami fra le parole non dicono più niente, e formicai di parole distrutti dicono che ciò che scrive, l’ego scriptor, si chiama ciò che colpisce lo scrittore.

Fantastic invasion suona l’algoritmo di parole che può essere dispiegato come Fantastic invasions nell’Apocalisse che ci pesa e pende sopra coppole nostre di shitalians e daghi & Spaghettifresser (che potrebbero essere resi come: “italiani di merda”, “merditali”, “daghingozzatori di spaghetti di merda”; volendo, a un certo livello, semplicemente: “italiani di merda”) giusto adesso (in tempo retto&ratto tratto now); da qui la necessità di determinare personaggi come il divino non è altro che uno straccio di modernità detta “strano”: ogni scrittore mediocre è sempre qualcosa di più di quel manovale cementatore fesso (idiota & sbilenco pure mi pare, giusto appena un italiano di merda) di graziosi mucchietti di parole che stato è Giacomo Leopardi nel suo tempo più che distorto, gobbetto ben nato malformato in quel di Recanati, gobbetto delle Marche, Gobbaccio cocchiere sempre all’assalto d’Europa già fatta secca dal meticciato di specie sua maledetta – mai stato poeta, quello, soltanto paroliere, soltanto giocoliere & cocchiere, saltimbanco disgustoso meticcio, furioso meticcio italiano per di più, italiano bastardo, cocca cocchiere ci ripicco io, picchiando fiso fisso punto su la stravagante invasione sua – “Fantastic invasion” è la definizione usata da Conrad, in Cuore di tenebra, per determinare lo sbadiglio tramite cui l’Europa s’è incuneata longa longa nell’Africa nera vera e lunga come notte di cuori e tamburi tanti tesi tra sponde battenti: non una invasione vasta e propria vera, ma una “invasione stravagante”, che comportava boomerang siffatto di parole vuote lasciate, solo parole, come si vede sempre adesso nell’apocalisse in cui siamo, cazzo, giusto adesso (in tempo now del cazzo), in cui ci stringiamo ad accantonare l’appunto casuale che compare in quel racconto: “Exterminate all the brutes!”, che permette di rileggere il racconto a partire da quel punto di estremità, no?, de la vista – ma che è l’algoritmo di parole che non deve più essere chiamato a pensare, come dimostra a noi il film, perché pensare il rapporto tra questa fantastic invasion e queste divine invasions è ciò che può essere adesso invece da chiamare a pensare. Il museo e il campo di sterminio sono i due modi in cui gli italiani possono passare all’immortalità scema, lo scempio che loro compete. Infatti gli italiani meritavano la stessa sorte toccata a zingari ed ebrei, questo è certo. Il meticcio è quella cosa, piena di vita, alla quale, la vita, deve essere tolta completamente, vita o soffio di vita che sia, al margine di una strada, come in un sogno, perché la razza è la stessa: l’antirazza.

Philip K. Dick sembra determinare la Trilogia di Valis secondo schema bruto di ’sto tipo:

  1. Ipotesi di una grande mente artificiale, che lancia segnali nella forma di segnali di informazioni.

  2. Ipotesi di una invasione divina a partire da un meticciato.

  3. Determinazione di un personaggio assolutamente umano (il vescovo Timothy Archer) che razionalmente richiede e si sottomette a l’invasione.

Questo schema è quello che si ritrova alla base della Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer, per cui la divina invasione è a questo punto la polifonia, già presente nella musica profana medioevale, ma che, dal Quattrocento, invade la musica sacra – tuttavia, i romanzi che accennano a questa divina invasione, sono tutt’altro che romanzi che richiamano la polifonia del romanzo come potrebbe affermare Bachtin, ma forme che richiamano invece l’appiattimento dell’arte del romanzo, che finisce con la narrativa di consumo, come dimostra – bastardo italiano che era quello – Giovanni Boccaccio, mentre in Neuromante è la soggettività ad aprire a nove unità.

Il termine di base di queste trilogie è l’invasione, che rompe l’equilibrio, e comporta l’effetto droga (come alluso mostrasi ne le spore che colpiscono la biologa di colpo nell’Area XAnnientamento, p. 19.) – che però si prolunga attraverso alcune razze umane: così alcune razze umane sono come droghe, che devono essere messe al bando – questo vale per il meticciato; il pericolo è ciò che pone il tema della selezione, ma ciò che pone la droga come tema è la soluzione posta dentro l’inclusione: vediamo che la droga è un elemento insistente in Valis e in tutta la Trilogia dello Sprawl, mentre risulta assente nelle due poste alle estremità, Trilogia spaziale e Trilogia dell’Area X.

Nel romanzo La neve di San Pietro (1933) di Leo Perutz il tema è il rapporto tra religio & periglio: il barone von Malchin vuole ricreare l’entusiasmo per la religione che c’era una volta, ma che, egli sostiene, era solo stato indotto da una sostanza allucinogena e niente di più, per cui, alla fine della storia, è ripagato con la stessa moneta – ma ricordare quello che diceva Eliade ne Lo sciamanesimo, secondo cui il ricorso a sostanze allucinogene indicava la mancanza di raggiungere lo stato di trance da parte dello sciamano a un certo punto dell’epoca in cui religione e sciamanesimo indicavano un rapporto tra terra e cielo, poi in via di interruzione, così il barone si trova a fronteggiare la rivoluzione comunista che egli stesso, con la sua somministrazione di droga ha chiaramente illuminato. Ma perché questo racconto non comunica il pericolo, avvertibile, invece, nel Richiamo del corno di Sarban? Il mito allaccia a la ciclicità, a differenza del semplice racconto fantastico, che si limita ad una esperienza posta al limite tra sogno e realtà.

La droga che impesta il mondo, adesso, è ciò che non viene più indicata come droga. Dobbiamo sempre ricordare che Scrittore non è il costruttore di trame e personaggi, ma colui, che, lasciato solo tra tutte le parole del mondo, pone la questione del rapporto fra il sé e tutte le parole del mondo. Così lo scrittore non deve mettere insieme storie complete, ad imitazione di quanto si vede nella realtà, ma deve essere colui che è definito da un rapporto diverso con le parole, che possono riguardare l’origine delle parole, se si tratta di poesia, o l’insieme delle storie diverse, se si tratta della saga, cioè della storia, che avrà allora forma di prosa lirica. Lo scrittore non è l’inventore di storie, quanto il conoscitore del rapporto tra le parole e le storie che, a partire da quei rapporti, si sono determinati. Ma l’origine delle parole è comunque ciò che unisce poesia e prosa in quanto ciò che costituisce la saga: La parola è poesia, per Heidegger, se risponde all’essere, ma questa parola potrebbe anche fare parte della saga, che è la storia, che – solo in quanto stabilito dalla letteratura – si oppone alla poesia in quanto prosa. La costituzione della poesia in quanto tale è puramente attinente alla letteratura. È possibile una constatazione della poesia al di fuori della differenza tra poesia e prosa. Il romanzo Hyperion di Hölderlin ha lo stesso peso delle poesie di Hölderlin, nonostante il giudizio negativo di Heidegger. La differenza tra la parola nella poesia e la poesia nella saga, che è la storia, è un tratto caratteristico della letteratura; è possibile una considerazione diversa della parola poetica, che sarà tale anche in quanto parola della saga. Così la questione è: perché la parola della saga ha così tanto tradito la sua natura da nascondere l’origine – ad essa comune con la parola della poesia?

Bisogna considerare l’odio verso la forma di cui non si ha alcuna responsabilità, che è ciò che determina la razza dall’antirazza, la razza chiama l’antirazza, Borges si rifaceva a Lovecraft; Ursula K. Le Guin definiva Dick il Borges d’America: alla radice di alcuni racconti di Borges c’è Lovecraft – è possibile collegare La biblioteca di Babele (1941) di Borges e L’ombra calata dal tempo (1934-1935) di Lovecraft, così come alla radice di Dick potrebbe esserci, invece, seduto il vecchio Borges, sul piedistallo dell’immondo Cthulhu, ad aspettare il suo tempo del ritorno.

Alla trilogia di Dick può rispondere la Trilogia dello Sprawl di William Gibson, secondo questo schema, che sembra porsi paro paro entro sparo sparo in paro modo:

  1. Ipotesi di una costruzione del cyberspazio come spazio parallelo al mondo reale al quale è possibile accedere attraverso particolari innesti chirurgici.

  2. Ipotesi di una invasione pseudo divina da parte di forme estranee al cyberspazio, quali i loa del vudu, che nessuno dei frequentatori del cyberspazio avrebbe voluto vedere.

  3. Determinazione di un falso personaggio, che è puro fantoccio, che prende qui il nome di “Monna Lisa”.

Philip K. Dick sembra aver impostato la sua trilogia sulla base della Trilogia spaziale di C.S. Lewis. Struttura della Trilogia spaziale come unione di fantascienza e fantasy: scienza → fantascienza → fatascienza. Infatti in Valis Dick richiama la trilogia di Lewis. Questi scrittori, detto tra noi, dico io, hanno avuto la fortuna di non essere stati italiani di merda, cioè di essere stati scrittori di razza bianca.

In Neuromante è importante la composizione del personaggio, e il sottoinsieme costituito da Wintermute. Però il nuovo tipo umano riguarda solo il personaggio con cui il protagonista ha a che fare, non il protagonista del romanzo, che rimane sempre il vecchio tipo di homo – l’aggregato che porta a Wintermute come sottoprogramma di colui che ha assoldato Case, ma ricordare che Wintermute è anche il nome di un traduttore dei rotoli in Dick.

La trilogia spaziale di Lewis sembra invece disporsi secondo due tempi: Primo tempo) un tempo che riguarda lo spazio, con il tempo veloce dell’invasione al suo interno; Secondo tempo) il tempo che riguarda la costituzione psicologica del personaggio, che sarà una coppia di personaggi. L’invasione è limitata al solo personaggio di Weston, che viene posseduto, cioè invaso, e soppresso poi da Ransom in quanto forma puramente materiale, ilica, forma che non ha niente a che vedere con ciò che è divino.

Ma la questione che queste trilogie sembrano porre è la domanda se l’essere umano vorrà essere ancora una volta essere il padrone del mondo – questione che apre alla questione di dare forma al mondo, decidendo a chi spetti il diritto di abitare il mondo, che allora vorrà dire accettare di sopprimere chi sarà stato giudicato indegno di abitare il mondo – e questo ci porta alla domanda iniziale: è l’essere umano, adesso, in grado di affrontare questo? la letteratura, così come la filosofia, sembra ignorare la questione.

Che cosa è, realismo, nella letteratura? la constatazione di una invasione, così Dante, mediocre non-poeta, cioè paroliere, fiorentino e fiorito meticcio italiano, ha messo insieme la Commedia quale constatazione dell’avvenuta islamizzazione dell’Occidente del futuro, cosa che riempiva di gioia il suo disgustoso pennino di meticcio italiano – Dante di merda, paroliere del meticciato italiano, conosceva senz’altro il discorso di Philip K. Dick dal titolo: Se vi pare che questo mondo sia brutto, o per averlo reperito online – con il pessimo audio evidenziato da Benjamín Labatut (La pietra della follia, Adelphi 2021, p. 11) –, o per averlo letto nella traduzione italiana di Gianni Pannofino (P.K. Dick, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli 1997, pp. 279-305); Joyce, poeta della razza bianca, ha scritto Finnegans Wake quale constatazione della degradazione dell’Occidente al falso mito della vera antirazza. Il meticcio è ciò a cui la razza bianca deve fare attenzione, perché è il tramite della divina invasione, che è la falsa invasione: la falsa invasione comporta il mito del realismo, come dimostra La trasmigrazione di Timothy Archer, come anche Monna Lisa Cyberpunk. Gli italiani non hanno impestato il mondo con mafia e spaghetti “made in Italy”, lo hanno impestato con Dante e Boccaccio, mad in Italy, perché lì siede e attende, immonda, l’arte degenerata; e non c’è arte degenerata senza razza degenerata che dorme in attesa sul piedistallo, per cui, per togliere dal mondo l’arte degenerata, bisogna togliere dal mondo la razza degenerata, cioè il meticciato, che ne è l’inevitabile suo fondamento – non c’è nuovo discorso sull’arte che non chiami l’arte degenerata e la razza degenerata, cioè che non destini ciò che aspetta al museo e ciò che aspetta al campo di sterminio, cosa che vuol dire far posto nel mondo al Museo e a qualcosa che noi non siamo ancora disposti a costruire, così come non siamo disposti a conoscere ciò che attiene al vero Museo.

Domando: come fare a meno di quei maledetti italiani, che hanno impestato tutto il mondo? Lovecraft indica il pericolo nel meticciato «italomongolosemita», che è ciò che noi accettiamo sempre più come nostro simile per quanto dissimile – da dove arriva, allora, l’invasione, ci si può chiedere, leggendo queste quattro trilogie? accettando il meticcio, si accetta il pericolo insito nel meticciato; il meticciato è meticciato perché deve impestare il mondo, altrimenti non sarebbe meticciato: gli italiani hanno impestato tutto il mondo perché questo era quello che dovevano fare, essendo italiani e nient’altro, essendo, cioè, meticciato e nient’altro. Domando: perché gli italiani hanno impestato il mondo? perché è stato permesso loro di vivere.

Le leggi razziali sono un modo per dare forma al mondo, infatti la questione non è essere padrone del mondo, ma dare forma al mondo – questo perché dare forma al mondo comporta il diritto di stabilire a chi spetti il diritto di vivere e a chi, tale diritto, stabilito dal cristianesimo, deve infine essere tolto. La sacralità della vita è un impiccio portato dal cristianesimo, perché la sacralità della vita non si rispetta permettendo ad ogni forma, in grado di vivere, di vivere, ma stabilendo a quale forma spetti il diritto di vivere e a quale altra spetti il diritto di essere interrotta. Tanto è ciò che divide la Trilogia spaziale di Lewis dai due libri di Tolkien: Lo hobbit e Il Signore degli Anelli. Nel romanzo Lo hobbit la riduzione del numero degli orchi, a seguito della grande battaglia dei Cinque eserciti, è considerata come fatto del tutto positivo. Che tipo di battaglia è la Battaglia dei Cinque Eserciti? «Allora il terrore piombò nel cuore degli orchi, ed essi fuggirono in tutte le direzioni. Ma con le nuove speranze la stanchezza lasciò i loro nemici, che li incalzarono da vicino, e impedirono alla maggior parte di loro di scappare. Ne spinsero molti nel Fiume Fluente, e dettero la caccia a quelli che fuggivano a sud o a ovest fin nelle paludi attorno al Fiume Selva; lì perì la maggior parte degli ultimi fuggitivi, mentre quelli che cercarono scampo nel reame degli Elfi Silvani furono abbattuti lì, o attirati nelle profondità del buio impenetrabile di Bosco Atro, per morirvi. I canti tramandarono che tre quarti dei guerrieri degli orchi del Nord morirono in quel giorno, e le Montagne ebbero pace per molti anni.» (J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, traduzione di Elena Jeronimidis Conte, Adelphi, Milano 1979 capitolo 18, Il viaggio di ritorno, p. 326). La Battaglia dei Cinque Eserciti è una battaglia che deve decidere quali razze, fra tutte quelle presenti sulla terra prima della Battaglia, abbiano il diritto di abitare la terra. Questa domanda non si presenta mai esplicitamente, e la forma in cui essa si manifesta è quella di uno scontro tra eserciti.

Il richiamo del corno di Sarban propone la caccia al meticcio, che è il gioco della selvaggina a disposizione, cioè l’uso dei vecchi tipi di socialità in conformità al nuovo ordinamento – che chiama il nuovo discorso sul subliminale. Ma il meticcio è ciò che deve essere segnalato per legge e la caccia al meticcio è ciò che deve essere regolamentata invece da parte di chi ha la legge dalla sua parte.

Vogliamo parlare della falsità brahmsiana? Vi dico che tempo fa ho sognato il Trio op. 8 di Brahms citato da Leo Perutz in un sogno – brahmsiano – che mi vedeva tornato in un Nord reso falso dall’invasione della maledetta Italia in quella terra del sacro – per cui, guai ad avere a che fare con sogni brahmsiani: come ha capito Cioran, bisogna fare una rapida scelta tra il sole e la nebbia; per cui, dico io, è il tempo di chiederci: “Era di razza bianca, Brahms?” – e il tempo in cui ci chiediamo queste cose è quando il pericolo che minaccia l’Europa è giunto così tanto vicino all’Europa. Brahms non era di razza bianca, era un degenerato razziale, tutta la sua musica ha quell’impronta decameroniana-zingaresca che non lascia dubbi; Brahms è la parte di ciò che si continua a definire “europea”, che invece deve essere strappata dall’Europa, scacciata con gioco di caccia attenta, via dall’Europa, in modo da avere sogni più tranquilli; noi abbiamo perso il sogno di dare forma al mondo – perché abbiamo perso quell’arte che avevamo appena imparato a conoscere: l’arte che era quella del genocidio, cioè di dare forma al sogno di un mondo stabilito in base a chi spetti il diritto di abitare il mondo e a chi di essere rigettato fuori dal mondo. Si potrebbe dire che Brahms fosse più wagneriano di Bruckner. La musica di Brahms ha lo stesso tono sfumato dei temi tipico che è in Wagner, cosa che invece nella musica di Bruckner non avviene mai; in Brahms tutto è in potenza, larvale stato soltanto, non c’è mai un tema delineato come nettezza, come invece è in Bruckner, ma tutto funziona come in Wagner – solo che il tipo di nebbia è diverso: il Concerto per violino è una danza di fantasmi abbozzata nella nebbia (Cioran ha scritto: «Bisogna scegliere fra Brahms e il Sole.», e il primo tema del Concerto per violino di Brahms ha le stesse figure della Quarta sinfonia di Brahms; se il luogo comune è il Nebelheim, in Wagner esso è comparso delineato con chiarezza fuori dalla nebbia, in Brahms è solo nebbia che avvolge l’ascoltatore; secondo Cioran (Sillogismi dell’amarezza) la musica di Brahms impone la scelta, l’ascoltatore è vittima dell’atmosfera che lo obbliga alla scelta: è la stessa situazione che invade lo spettatore di Bayreuth, sempre secondo Nietzsche, la musica invade, diventa aggressiva, si impadronisce del suo ascoltatore, ma poi, come niente, lo lascia – per cui la musica di Wagner non costituisce il grande pericolo. Che è quanto riferisce la narrazione della Trilogia dell’Area X.

Šostakovič è un aspetto del meticciato che non può essere che considerato come l’aspetto più ignobile del meticciato; così come Dante e Boccaccio sono altri ignobili aspetti del meticciato (Šostakovič & Dante & Boccaccio: rispettivamente piccolo meticciato slavo e piccolo meticciato latino). La Nona sinfonia di Mahler presenta quella capacità di fare musica attraverso una formula che è algoritmo di pensiero, che la musica del meticcio russo Šostakovič non è mai riuscita a ottenere, perché il meticcio è soltanto tanto di qualcosa di casuale e razionale, per cui io posso dire che il meticcio eterno con cui abbiamo a che fare è solo il meticcio italiano.

L’invasione compare sempre come secondo movimento della trilogia, dopo il primo movimento che riguarda lo stato di natura, mentre alla fine compare un tipo destinato a soccombere, che è ciò che costituisce il personaggio – e l’insieme è ciò che rimane del romanzo, forma da sempre intermedia. Nella Trilogia spaziale di Lewis il secondo volume comprende la diabolica invasione avvenuta, secondo il personaggio Elwin Ransom, durante il viaggio di Weston nel sistema solare: la Trilogia spaziale di Lewis comprende tre luoghi, Marte come terra della pluralità delle forme (paganesimo), Venere come terra del mito dell’Eden (cristianesimo), la Terra come luogo dello scontro finale, ma che non porta alla terra rigenerata, secondo la visione di Dumézil, perché la polifonia viene indicata da Lewis – e da Tolkien – come momento di crisi della Creazione, in cui una ipostasi demiurgica inizia un nuovo tema, a contrappunto di quello d’apertura, e il dio autentico mostra il risultato di quella intromissione – anche il Signore degli Anelli di Tolkien è una trilogia, dove il secondo movimento è quello eroico.

Nelle quattro trilogie c’è uno scontro tra mondi al tramonto: nella Trilogia spaziale rappresentata entro il sistema solare (Marte e Venere), nella Trilogia di Valis rappresentata dall’altro mondo rivelato dalla gnosi, nella Trilogia dello Sprawl rappresentata dal cyberspazio, nella Trilogia dell’Area X rappresentata dalla presenza stessa dell’Area X, che tende ad allargare il suo confine, invadendo lo spazio ad essa vicino. Vediamo che il nemico è il meticciato? Nella Trilogia dello Sprawl l’invasione sarà presentata dalla presenza dei loa all’interno del cyberspazio; nella Trilogia dell’Area X il nemico è presentato dalla presenza antica, non originaria, di ciò che poi diventerà la direttrice della Southern Reach e la psicologa, figura di riferimento della dodicesima spedizione, con l’intento di portare l’Area X alle sue estreme conseguenze distruttive, cioè l’eliminazione della presenza umana. In Lovecraft la terra è sensibile alla presenza delle razze che si trovano a stare al di sopra di essa, cioè sulla terra: ma solo la razza bianca abita la terra, mentre il meticcio occupa la terra, così come una pietra occupa una porzione di terra, oppure scorre la terra, così come un migrante scorre la terra, il meticcio occupa la terra come una pietra d’inciampo, che può essere allontanata, oppure come pietra che scorre la terra per una frana, che non è possibile allontanare. La vendetta del meticcio sarà anche la costante presente nella trilogia del Problema dei tre corpi di Cixin Liu: aiutare l’invasione extraterrestre anche nei confronti di una vendetta indiretta nei confronti del governo cinese.

In Dick e in Gibson il passaggio da un mondo all’altro è reso possibile grazie all’effetto di droghe: infatti i personaggi dei romanzi di cui qui si tratta fanno uso, più o meno costante, di varie sostanze allucinogene – e la droga è un elemento importante nel romanzo La Neve di San Pietro di Leo Perutz, dove la ricerca della possessione (= invasione) è affidata ormai solo alla chimica, da parte del personaggio che pensa di poter decidere, il barone von Malchin: la religione viene allora indicata come il risultato di una blanda reazione chimica che si compie all’interno del corpo umano, che un laboratorio può riprodurre, quando le componenti naturali, che avevano concorso a produrlo all’interno del corpo umano, non sono più disponibili direttamente in natura, si intende per effetto climatologico; quindi, in mancanza della droga spontaneamente assunta per effetto climatico, deve subentrare la volontà, da parte di colui che è venuto a conoscenza del fenomeno, di offrire la droga.

La Neve di San Pietro (1933) può essere avvicinato al racconto Il richiamo del corno (1952) di Sarban, come racconto dove in mezzo non c’è niente di concluso, in quanto racconto fantastico che si compie in un luogo chiuso, con possibilità che ne impediscono il collegamento perché in mezzo c’è la guerra che non ha concluso nulla (secondo quando giustamente indicato da Heidegger): l’avventura narrata nella Neve non ha la caratteristica dell’incontro con il pericolo che l’avventura del Richiamo, invece, presenta, per cui l’avventura della Neve si conclude con il protagonista che accetta di ammettere di avere vissuto quell’esperienza come un sogno indotto dalla febbre determinata dalle ferite riportate in quello che potrebbe essere classificato come nient’altro che un comune incidente stradale, oppure anche le conseguenze di una piccola rivolta a carattere sociale; mentre, nel Richiamo, il protagonista sa che è stato rilasciato solo per essere chiamato di nuovo, perché il mito è ciò che si rivolge solo a colui che può rispondere al mito nel mito (cioè colui che non nega, attraverso quell’esperienza, di essere entrato nel mondo del mito) – anziché solo nell’istante dell’incontro con il mito – la risposta del mito è ciò che costituisce il pericolo del mito come linguaggio che costituisce ciò che si basa sull’opposizione tra lingua e parola, per cui il racconto di Perutz è un esempio appena passabile di buona letteratura, mentre il racconto di Sarban è un esempio di geniale storia fantastica, perché solo l’essere umano può creare la struttura mitica che organizzerà la nuova forma come terra del cielo, degli umani e degli dèi, che comporta la scomparsa degli dèi e il pericolo per gli umani rimasti senza dèi e il pericolo dell’incontro che costituisce l’incontro con il ritorno del mito, che chiama i nuovi Dèi.

Nel Richiamo del corno e nell’Area X il ritorno dei personaggi è caratterizzato dal ritorno di copie, che hanno a che fare con coppie stabilite fra persone nelle quali il racconto si tinge di giallo, quanto si stinge e s’estingue il ritorno – cioè la madre, nel caso del protagonista del Richiamo; la moglie biologa, nel caso dell’Area X – che si accorgono di avere a che fare con copie (dice la madre del protagonista del Richiamo: «Ecco come stavano le cose per lei: “Loro” avevano rimandato indietro il suo corpo, più o meno sano, e con quel tanto di capacità mentali che gli permetteva di occuparsi dell’amministrazione quotidiana della piccola fattoria che suo padre gli aveva lasciato; ma si erano tenuti il resto. Che cosa gli avevano fatto? O che cosa lui aveva fatto a se stesso durante i quattro anni trascorsi in quel campo di prigionia?» (p. 6)) che sono state loro restituite o ritornate spontaneamente.

Se nell’Area X si ha a che fare con un sistema di replicazioni golemiche (le varie copie dei partecipanti alle spedizioni che tornano dall’Area), nella Trilogia spaziale di Lewis si ha a che fare con il vero e il falso Merlino, il vagabondo che viene sequestrato dagli emissari di Belbury per essere laggiù condotto a forza, mentre il vero Merlino trova da sé la strada per St Anne’s.

Quando, nell’area chiusa, l’esperienza con cui il protagonista ha a che fare è una esperienza che non richiama il mito, allora ciò che viene restituita è solo una copia golemica, una creazione automatica simile alle creazioni fornite dall’oceano di Solaris, che si appoggiano, per scarsità di informazioni a disposizione, a quello che è il dato psicologico (che nella chiave di lettura psicologica non può che coincidere con il ritorno del rimosso), e che è ciò che Stanisław Lem registra in quanto autore di quel piccolo romanzo; dove l’esperienza nell’area chiusa comporta il richiamo del mito, allora la copia che viene restituita è la coppia che attende la nuova vita, cioè il prossimo incontro con il mito, che sarà il richiamo alla prossima battaglia – situazione che non ha nulla a che fare con il dato psicologico, per cui queste copie muoiono, in coppia, di cancro (quando la questione è proprio questa: il personaggio nasce come esperimento finale) – così come il romanzo muore. Nel caso del Richiamo, ciò che attende di nuovo il protagonista è l’incontro con il mito sotto un’altra luna; nel caso dell’Area X ciò che attende il ritorno è spingere la moglie biologa a entrare nell’Area X, non per incontrare il mito, ma per farla finita con il mito – cioè con l’esecuzione di un progetto del tipo dissipatio h.g., che è ciò che muove da sempre il meticcio, che la direttrice della Southern Reach ha attentamente manipolato e attuato per proprio tornaconto, vale a dire per l’esecuzione della propria vendetta. Questo perché la stessa direttrice è un meticcio, mossa da quella forza che H.P. Lovecraft ha riconosciuto come in grado di mettere in pericolo la forma vivente sulla terra, aprendola a forme indipendenti da quelle presenti in quel momento sulla terra. Il meticcio è ciò che non abita la terra, ma occupa la terra; il meticcio non può riprendere la terra che non è mai stata sua, anche quando il suo scopo è riconquistare la terra che, secondo le rivendicazioni del meticcio, sembra gli sia stata strappata; allora il meticcio non ha altra possibilità che estinguere la presenza dell’essere umano sulla terra, in modo da rendere la terra vergine e frigida, preservata da ogni accesso. Chi determina, qui, l’incontro?, la psicologa, la direttrice della Southern Reach, il meticcio, la figlia di una nativa americana e di un bianco, che spinge la biologa dentro quella zona che ella, avendo occupato quell’area quando era bambina, aveva capito, quasi con cognizione da biologa, che, una volta costituitasi quella zona come “Area X”, quell’incontro avrebbe comportato l’incontro decisivo, cioè la dissipatio h.g., posto che ella (cresciuta in quanto psicologa) fosse stata in grado di inserire l’elemento in grado di innescare il processo che avrebbe comportato l’estinzione. La biologa era in grado di determinare l’estinzione della razza umana, così come il cinese della trilogia di Cixin Liu, la cosmologa Ye Wenjie, che lancia il segnale che dovrebbe permettere l’invasione della Terra da parte di una civiltà aliena, perché, alla base di entrambi i personaggi, c’è il desiderio di favorire l’estinzione della razza umana, cioè di percorrere la strada che porta alla dissipatio h.g., perché questi personaggi si riconoscono come meticciato, cioè ciò che deve essere eliminato, cioè si riconoscono come vita indegna di vivere, ma con la possibilità di vivere nella formula anodina che è la vita della terra una volta privata del genere umano, che è ciò che determina il meticciato. In Lovecraft la minaccia cosmica, che giace negli strati più fondi della Terra, addormentata, ma mai morta, è chiamata in vita dai tamburi del meticciato, battuti dai popoli, non di razza bianca, che hanno invaso l’America – canachi, mongoli, italiani, slavi, ispanici, negri, semiti, greci, allo scopo criminale di distruggere lo stato allora attuale di cose e richiamare ciò che ha preceduto l’essere umano sulla terra, quando ancora quello stato di cose non poteva essere definito come “orrore”, cioè quello stato che essi sentono come il loro naturale ambiente vitale in quanto terriccio che possono occupare – ma la questione da porre, adesso, è la questione del tipo: è in grado, adesso, l’essere umano, di diventare padrone del mondo, in quanto ciò che dà forma la mondo?

Perché il mostro di Lovecraft, razionalmente descritto in quei racconti, è, adesso, così patetico? perché non è altro che una caricatura, la caricatura che noi adesso riconosciamo del tutto insufficiente per determinare l’ebreo, l’italiano, l’ispanico, il meticcio, che ha arrancato nella terra della razza bianca, ma forma ancora valida per ciò che rappresenta il pericolo: i mostri di Lovecraft sono caricature del meticciato che rappresenta la vera minaccia della razza bianca in ciò che è la terra della razza bianca, quando è invece chiaro che quel pericolo è proprio ciò che ci riguarda. Se il mostro è ciò che non meraviglia più, il canto dell’era del meticciato è il canto in cui ciò che non è meticciato verrà posto in un canto. La parola è la responsabilità che attiene l’umano, che può essere parola presente di volta in volta nella poesia o nella saga; se la parola tocca la responsabilità, allora la parola sarà parola della saga, che è la storia; se la parola tocca l’irresponsabilità, allora diventa letteratura della poesia e paraletteratura nella storia, cioè puro intrattenimento, che è letteratura di consumo.

Come si chiudono, le quattro trilogie? con la costituzione di un personaggio. Alla fine compaiono i personaggi ai due estremi: Mark e Jane Studdock e il meticcio Gloria Jenkins, ai due punti medi, Timothy Archer e Monna Liza – è appunto questo che dimostra l’avvenuta invasione, il sovrappiù del personaggio di Merlino lo dimostra, perché Merlino non rappresenta un problema come personaggio, sapendo subito, di suo, da che parte stare (sono semmai gli umani, da una parte e dall’altra, che hanno dubbi sulla sua collocazione).

Il nome Gloria, attribuito alla psicologa, rimanda al nome vero di bell hooks, (Gloria Jean Watkins), così come la disinvoltura della psicologa (di nome Gloria Jenkins) del romanzo nell’evitare i nomi propri, da parte delle componenti della dodicesima spedizione, rimanda alla decisione di segnare il proprio pseudonimo, stabilito come bell hooks, scritto con minuscole, da parte della scrittrice e attivista il cui nome proprio era “Gloria”, e infatti la Gloria del romanzo ha insegnato alla biologa a trasgredire, come la vera Gloria bell hooks insegnava.

Nella Trilogia spaziale di Lewis il volume conclusivo si chiude con i dubbi psicologici di Mark Studdock e della moglie.

Trovare il tratto comune tra le nove sinfonie di Mahler e le quindici inutili sinfonie di Šostakovič, di cui parlava Glenn Gould: con Mahler un nuovo principio spunta inutilmente nella musica occidentale, che viene sviluppato da Šostakovič, ma la questione da pensare è l’inutilità, perché con Mahler si entra nel campo della musica che simula un tema che non è più un tema, cioè si entra nel vuoto della musica, che, attraverso il vuoto, evidenzia la propria inutilità, che è quello che la musica di Šostakovič porterà, con le sue quindici inutili sinfonie, alle estreme conseguenze – così si può dire che la musica di Mahler è il carattere prezioso che un mediocre meticcio slavo duplicherà come completa assoluta totale limpida rimbombante rimbambita inutilità bombaloreggiante. Quando il tempo è limpido e lo sguardo spazia ritto, mi pare di vederlo, quel meticcio russo bamboleggiante di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, con la sua musichetta da quattro soldi, con l’organetto da suonare per la sua composta marching band da quattro soldi imprestata e imparaticcia, così come mi pare di vedere, poco distante, quel meticcio italiano, untuosamente bamboleggiante, di Giuseppe Verdi, sempre ben vestito, tirato a lucido per la sua ospitata sulla banconota da mille lire ormai schizzata via, bastardo di italiano con la sua musichetta da quattro soldi da sonare a ritmo zum pa pa con tacchi e piante, tutti e due, quei due meticci, il meticcio russo e il meticcio italiano, li vedo con le loro scimmiette strette aggrappate sulla spalla.

La complessità di cui parla Benjamín Labatut è la complessità che Miguel Serrano vede alla base del Cile, costituito a partire da un meticciato di base che non può essere eliminato. Lovecraft costruiva il racconto Il richiamo di Cthulhu in base a un richiamo del racconto La Horla di Maupassant da un punto di vista del meticciato, che avverte il richiamo del mostro non umano, che dorme e attende il risveglio, mentre la razza bianca considera quel richiamo uno sguardo non voluto sull’orrore cosmico da cui è necessario distogliere lo sguardo. Labatut costruisce il libro sugli opposti Scienza (come insieme di ipotesi inquietanti) / Follia – ora meno che mai è il momento di spiegare, ora più che mai è il momento di fare propria l’oscurità che non si comprende in ciò che è scienza.

Incontrare il personaggio, che è ciò che comporta il tempo finale di queste trilogie, vuole dire mettere in risalto ciò che ha sempre costituito l’inconsistenza della sua costruzione (messa in risalto da Nietzsche e da Musil) e mettere in mostra la menzogna del romanzo, che ha sempre presentato la propria forza nell’intreccio e nei personaggi; il personaggio è ciò che si incontra nella parte finale di queste trilogie, come personaggio problematico, che è il problema che stringe il personaggio. Il personaggio è stato di recente confuso con una manifestazione della psicologia, per cui il personaggio è diventato applicazione della psicologia, ma in realtà si tratta di altra cosa. Il personaggio può essere determinato da un insieme di parametri che hanno ben poco a che vedere con la psicologia.

Nietzsche e Musil hanno affrontato la questione del personaggio da punti di vista simili in tempi ovviamente diversi. Nietzsche: «Quando si dice che il drammaturgo (e l’artista in genere) crea veramente caratteri, ci si abbandona a una bella illusione ed esagerazione, nella cui esistenza e diffusione l’arte celebra uno dei suoi trionfi involontari e, per così dire, eccessivi. In realtà noi non comprendiamo molto di un vero uomo vivo e generalizziamo molto superficialmente, quando gli attribuiamo questo o quel carattere. Ora il poeta corrisponde a questa nostra assai imperfetta posizione rispetto all’uomo, facendo diventare uomini (in questo senso “creando”) abbozzi tanto superficiali, quanto è superficiale la nostra conoscenza degli uomini. C’è molto abbaglio per questi caratteri creati dagli artisti; essi non sono affatto corposi prodotti della natura, bensì, a somiglianza degli uomini dipinti, sono un po’ troppo sottili, non sopportano di essere guardati da vicino. Quando poi si dice che il carattere dell’uomo vivo ordinario si contraddice frequentemente e che quello creato dal drammaturgo è il modello che la natura ha tenuto presente, si afferma una cosa completamente falsa. Un uomo reale è in tutto e per tutto qualcosa di necessario (anche in quelle cosiddette contraddizioni), ma noi non sempre conosciamo questa necessità. L’uomo inventato, il fantasma, vuole significare qualcosa di necessario, ma solo agli occhi di quelli che intendono anche un uomo reale solo secondo una rozza e innaturale semplificazione: sicché un paio di tratti forti, spesso ripetuti, con molta luce sopra e molta ombra e penombra intorno, soddisfano completamente le loro esigenze. Essi sono, cioè, subito pronti a trattare il fantasma come uomo reale e necessario, perché sono avvezzi a prendere, nell’uomo reale, un fantasma, un’ombra, un’arbitraria abbreviazione per il tutto. Che poi il pittore e lo scultore esprimano l’“idea” dell’uomo, è vana fantasticheria e inganno dei sensi: si è tiranneggiati dall’occhio, se si dice una cosa simile, perché quest’ultimo, anche del corpo umano, vede solo la superficie, la pelle, mentre il corpo interno fa altrettanto parte dell’idea. L’arte figurativa vuol rendere visibili i caratteri epidermici; l’arte poetica adopera la parola allo stesso scopo, essa disegna il carattere nel suono. L’arte muove dalla naturale ignoranza dell’uomo circa la sua intima essenza (come corpo e carattere): essa non è fatta per i fisici e per i filosofi.» (Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, in Id., Opere complete, IV/2, versioni di Sossio Giametta e Mazzino Montinari, pp. 127-8). Musil: «In fondo i personaggi di un libro vengono creati soltanto per essere riempiti di sentimenti, pensieri e altri valori umani che poi vengono tirati nuovamente fuori quando i personaggi si fanno agire.» (Robert Musil, Sui libri di Robert Musil, in Id., Saggi e lettere, 2 volumi, a cura di Bianca Cetti Marinoni, traduzione di Andrea Casalegno, Einaudi, Torino 1995, vol. 1, p. 8).

Il problema è vedere il rapporto tra personaggio e psicologia, e poi stabilire con che cosa sostituire la paccottiglia “psicologia”. Perché il mostro di Lovecraft è così ridicolo, così come compare nei racconti che oggi leggiamo? Il meticcio può solo imbastardire. La vita artificiale, che è non vita, sognata dall’amebico schifoso italiano Filostrato in Quell’orribile forza, è la proclamazione di un sistema di vita che è non vita, così come la nativa americana Gloria Jenkins (Trilogia dell’Area X), il meticcio figlio di una nativa e di un bianco, che diventerà poi la Direttrice della Southern Reach e la leader detentrice in quanto leader dei Lieder del lancio della dodicesima spedizione, vedeva un progresso nell’estinzione del genere umano e, in accordo a quest’ottica, fa in modo di spingere l’invasione dell’Area X, che avrebbe comportato l’estinzione del genere umano, inoculando il germe rappresentato dalla biologa: in entrambi i casi è il meticciato che mira all’estinzione del genere umano, cosa che può prendere la forma sbilenca di un meticcio italiano (la forma più disgustosa del meticciato, dico io, per quanto forma d’entrata nel meticciato sia sempre la forma più disgustosa di meticciato) quanto la forma massiccia di un meticcio nativo americano, perché la cosa che dorme alla base è la stessa – cioè il meticciato; in Filostrato (lo schifoso italiano di merda creato da C.S. Lewis) il problema è creare la forma di vita assolutamente depurata da ogni scoria, in Gloria il progetto si tinge di ecoterrorismo (restituire alla terra la sua innocenza, che il genere umano ha turbato con la sua sempre più ingombrante presenza), in Cixin Liu il progetto è solo quello di aiutare il genere umano a fare quello che, da solo, esso non sarebbe in grado di fare. Il nome “Gloria” rimanda al nome proprio sonante “bell hooks”, Gloria Jean Watkins della realtà, così come l’ostinazione della psicologa, Gloria Jenkins nella finzione, nell’evitare nomi propri da parte delle componenti della dodicesima spedizione, rimanda alla decisione di segnare il proprio pseudonimo, stabilito come “bell hooks”, con le minuscole, da parte della scrittrice il cui nome proprio era Gloria Jean Watkins, che potrebbe essere divenuto Gloria Je(a)n (Wat)kins nel romanzo, ed il cui compito era insegnare la trasgressione: insegnare alla biologa il modo di trasgredire – per ottenere poi tutta un’altra forma (che sarebbe stata, a quel punto, una forma non-umana). Mentre rimane da considerare la questione delle trilogie di per sé: «L’affermazione che gli ultimi tre romanzi di Dick, sotto molti (importanti) aspetti così divergenti, debbano essere letti come una “trilogia” è irritante, almeno per me. Come romanzi non costituiscono alcuna trilogia, punto e basta (e per di più Divina Invasione non è al livello degli altri due), eppure questa definizione gli si è ormai appiccicata; qui Dick dimostra un inconfondibile investimento su sé stesso. Da un lato bisogna ricordarsi che sulla scia di Star Wars e di Tolkien quella che gli editori chiamavano “fantascienza” godette di un breve, misterioso boom che trasformò in scrittori di best seller alcuni degli autori che, come Dick, avevano vissuto vita grama e che lui poteva definire suoi pari – Robert Silverberg, Philip Jose Farmer, Frank Herbert e altri – e che quasi tutti i loro successi commerciali erano in forma di dichiarate “trilogie” (anche se in alcune di queste comprendevano quattro o più romanzi). Perché non sfruttare questa miniera d’oro? Dall’altro qui c’era una mente tutt’altro che restia a vedere le cose interconnesse fra loro. Dick aveva cominciato a vedere il lungo scaffale delle sue precedenti opere che formava un unico arazzo significante. Perché queste ultime non potevano essere anch’esse connesse fra loro?» (P.K. Dick. L’Esegesi, Fanucci, Roma 2015, traduzione di Maurizio Nati, n. XVI di Jonathan Lethem, p. 929), nel contempo viene lì escluso che si tratti di una vera trilogia, mentre il disegno va visto nel movimento complessivo dei tre libri che costituiscono la trilogia.

Sia chiaro: all’Italia ci cago sopra.

 

 

Le quattro trilogie:

C.S. Lewis, Trilogia spaziale (Lontano dal pianeta silenzioso, traduzione di Germana Cantoni De Rossi, Adelphi 2014. Perelandra, traduzione di Germana Cantoni De Rossi, Adelphi 2014. Quell’orribile forza, traduzione di Germana Cantoni De Rossi, Adelphi 2014

Philip K. Dick, La trilogia di Valis, Fanucci 2013 (Valis, traduzione di Delio Zinoni. Divina invasione, traduzione di Vittorio Curtoni. La trasmigrazione di Timothy Archer, traduzione di Vittorio Curtoni)

William Gibson, Trilogia dello Sprawl, Mondadori 2017 (Neuromante, traduzione di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli. Giù nel cyberspazio, traduzione di Delio Zinoni. Monna Lisa Cyberpunk, traduzione di Marco Pensante)

Jeff VanderMeer, Trilogia dell’area X (Annientamento, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2015. Autorità, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2015. Accettazione, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2015)

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Lovecraft: Mitologia di Cthulhu

Indirettamente, le opere di H.P. Lovecraft possono servire a indicare quanto i pregiudizi guidino, ancora adesso, il modo di pensare, nascondendosi a noi proprio in quanto pregiudizi; così noi giudichiamo “pregiudizi” quanto in quell’opera cataloghiamo come esempi di razzismo e di intolleranza dovuti all’epoca nella quale quell’opera è stata scritta, senza accorgerci che, proprio in questo nostro modo di pensare, noi non facciamo altro che soggiacere ai pregiudizi della nostra epoca – e che tutto ciò che, per noi, è fondamentale per la vita degli umani, per un’altra epoca, anche prossima, potrebbe essere cosa da considerare appena con un accenno di sorriso, che è tutto quello a noi dovrebbe invece indicare un altro modo di scrivere, pensare, leggere. Che io sappia, Hegel e Nietzsche hanno avuto questa abilità di scrivere ciò che, in quello che si scrive, preme per vedere oltre ciò che si scrive.

Leslie S. Klinger (Prefazione a “Edizione annotata H.P. Lovecraft”, in H.P. Lovecraft, Edizione annotata, a cura di Massimo Scorsone, Mondadori 2014, pp. 19-84) fa notare la falsità della formula “Mitologia di Cthulhu” per indicare il tratto comune che collegherebbe alcuni racconti di Lovecraft nella formula comunemente attribuita a Lovecraft, ma in realtà, secondo quanto egli sostiene, da attribuire al solo August Derleth.

Anche se H.P. Lovecraft non ha pensato un sistema coerente di mitologia per la propria opera, o per una parte di essa, analogo a quello utilizzato da Tolkien per la propria, Lovecraft ha lavorato su principi costanti attraverso diversi racconti; così questo sistema comprende due stati diversi che hanno a che fare con la terra: 1) Gli strati più lontani occupati dai nativi d’America, che hanno impresso alla terra particolari vibrazioni, che la rendono tanto facilmente occupabile quanto difficilmente abitabile, a seconda di ciò che si pone a sostare sulla superficie, stando in contatto costante con quelle vibrazioni; 2) lo strato che rende tali vibrazioni avvertite con favore dal meticciato, che tendono a favorire il risveglio di ciò che giace nel profondo addormentato ma non mai morto, mentre viene avvertito come orrore da scampare, entro una terra maledetta, da parte della razza bianca, per quanto, razionalmente, sia poi visto come ciò che è destinato a ritornare. Il meticciato, secondo H.P. Lovecraft, riguarda la degenerazione di quella parte d’Europa che non è più l’Europa della razza bianca (comprendente gli ammassi spagnoli, italiani, francesi, greci, slavi, che hanno invaso l’America costituendola spazio ideale del melting pot); mentre la razza bianca riguarda il nucleo autentico d’Europa, che è l’Europa della razza bianca (riguardante i popoli tedeschi, scandinavi, olandesi, celti, che ha costruito l’America, che è allora l’America della razza bianca).

Maisha L. Wester (The Gothic and the Politics of Race, in Jerrold E. Hogle (ed.), The Cambridge Companion to the Modern Gothic, Cambridge University Press 2014, pp. 157-173) nota la componente dei toponimi indiani presente in molti racconti di Lovecraft come marchio in grado di segnare la terra in quanto terra maledetta, ma non procede oltre. Indipendentemente dalla questione legata a Lovecraft, Miguel Serrano ha indicato la direzione rispetto alla terra, cioè in cui la terra va pensata: «La terra è un essere vivo, animato; ogni zona ha il suo proprio magnetismo e le sue proprie vibrazioni, attraverso cui essa agisce sugli esseri che l’abitano, modificandoli, trasformandoli.» (Miguel Serrano, Il Cordone dorato. Hitlerismo esoterico, traduzione di Nicola Oliva, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2007, p. 85). Che la terra possa diventare protagonista di una storia è la situazione che H.P. Lovecraft ha esposto nel breve racconto La strada (pubblicato nel 1920), dove la terra pronuncia e infine esegue la condanna a morte nei confronti di un gruppo di meticci slavi, che, ad un certo punto, si sono trovati ad occupare il tratto di terra su cui sorge la strada protagonista del racconto, progettando un grande attentato terroristico. Il meticciato può occupare la terra; il meticciato non abita mai la terra; il meticcio occupa la terra in quanto occupante, sempre abusivo, sempre appena tollerato, mai bene accolto, così come una pietra occupa una porzione di terra; oppure il meticcio scorre la terra in quanto migrante, così come una frana scorre attraverso un tratto di terra, distruggendola anche solo parzialmente; questo perché il meticcio non abita mai la terra, perché il meticcio non è mai ciò che la terra chiama come suo abitante.

Il toponimo indiano è ciò che, in diversi racconti di H.P. Lovecraft, svela la terra tanto agli occhi di un osservatore esterno quanto agli occhi del lettore, rendendo il personaggio consapevole riguardo a ciò che quella terra occupa e obbligandolo a delle scelte, oppure a ciò che quella terra abita, cioè a ciò che è il meticciato oppure la razza bianca; nei racconti di H.P. Lovecraft la terra occupata dai nativi americani, di cui rimangono i toponimi, è la terra segnata dagli orrori che coinvolgono la Miskatonic Valley, entro cui sorge Arkham, sede di incursioni e attacchi diretti da parte di ciò che non si conosce, la valle del Pawtuxet che è al centro della vicenda del racconto Charles Dexter Ward, della foce del Manuxet, dove si svolge la vicenda del racconto La maschera di Innsmouth.

Compito dello scrittore, in quanto cellula del destino della razza, è indicare il cammino che porta a riunire quanto è terra della razza bianca d’Europa a quanto è razza bianca d’Europa – che è ciò che ha portato a costituire l’America come qualcosa di europeo, nel momento in cui l’Europa non è più la terra degli europei.

Il cosmo è gelido sguardo indifferente alla sorte umana dentro quello che ha scritto Lovecraft, (ma nulla a che vedere con quanto diceva, nei suoi vecchi mucchietti di parole, il vecchio Giacomo Leopardi, paroliere giocoso, saltimbanco gibboso, marchigiano pulcinella, già sghembo meticciato italiano), ma proprio per questo terreno del gioco del mondo, che attende il pensatore della razza bianca, ruolo che nei racconti di H.P. Lovecraft non compare mai, perché la scienza perde anche lì la propria credibilità, per quanto il racconto di Lovecraft si basi proprio su una insistita razionalità e Lovecraft basi i suoi racconti su personaggi, quando invece, scientificamente, appare come siano le teorie a creare i personaggi, basati così, questi, su nient’altro che un niente: così vediamo che Leopardi è un paroliere del meticciato; mentre Lovecraft è uno scrittore della razza bianca – perché il meticciato ha solo parolieri, e la razza ha lo scrittore in quanto detentore della parola, che si rende allora parola della poesia o parola della storia, cioè della saga, che porta alla lingua.

Michel Houellebecq ha notato la scomparsa del tema del razzismo nello sviluppo della mitologia di Cthulhu ad opera dei continuatori di quella mitologia: «Tra gli scrittori più direttamente legati all’orbita lovecraftiana, nessuno ha mai ripreso le fobie razziali e reazionarie del maestro. È anche vero, però, che questa strada è pericolosa e offre uno sbocco molto limitato. Non è solo una questione di censura e di impopolarità. Probabilmente gli scrittori del fantastico sentono che l’ostilità a ogni forma di libertà finisce per generare ostilità alla vita. Lovecraft lo sente quanto e meglio di loro, ma, essendo un estremista, non si ferma certo per così poco.» (Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Bompiani, Milano 2001, traduzione di Sergio Claudio Perroni, p. 65) – perché appunto non si tratta di «fobie razziali e reazionarie», tantomeno di ostilità alla vita, ma di restituzione di ciò che è della razza bianca alla razza bianca d’Europa.

A differenza del dio della scienza, perché di due dèi si tratta, quello dello scrittore gioca a dadi – perché lì egli avverte, lì, il campo del suo divertimento, si tratti di Europa o di America; ma perché la terra della razza bianca non deve essere terra per il nemico della razza bianca, che è la degenerazione della razza bianca; così noi vediamo adesso la terra solo come terra dove andare, terra da occupare con insediamenti dettati dal capriccio, oppure terra da trascorrere in quanto migranti, per andare in altre parti della terra, e non vediamo mai la terra come ciò cui spetta il diritto di scegliere il suo abitante, perché non abbiamo più la parola della saga che lancia i suoi há-sæti fuori dal bordo quando formula il suo pensiero, per attendere il momento di andarli a rintracciare, là dove noi siamo stati chiamati.

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Realismo

Il realismo in letteratura è una teoria che sostiene l’esistenza di un fatto che una serie ordinata di proposizioni di senso compiuto viene chiamata a rendere conto, cioè testimonianza, relativamente a quanto accaduto; una tendenza non realistica della letteratura svincola il senso compiuto da un fatto e organizza un insieme di eventi possibili a partire dalle parole coinvolte nella frase, che sarà allora una frase lunga non collegata più ad un fatto – queste due tendenze della letteratura sono solo due mondi antitetici di vedere come le cose possono stare insieme: cose diverse stanno insieme se qualcosa di comune ne permette la vicinanza, vale a dire il passaggio dall’una all’altra; cose diverse stanno insieme in base ad autonome regole di accostamento, che non ha nulla a che vedere con un tratto comune che si pone come tratto di passaggio.

Fino a questo punto il realismo in letteratura ha somiglianza con il realismo nella filosofia della matematica, che sostiene l’assoluta esistenza nel mondo di ogni ente matematico. In Joyce il realismo ha avuto, in un primo tempo, l’aspetto di una epifania. L’epifania è allora ciò che manifesta una situazione bloccata, come accade in Dublinesi. Il realismo è qui un punto di partenza, che successivamente sembra nascondersi in modi sempre più complessi come sarà dato vedere in Ulisse e poi in Finnegans Wake – ma la nuova formazione della frase rimane contenuta soltanto in Finnegans Wake, che è ciò che indica il nuovo modo in cui le cose del mondo sono portate a stare insieme, con questa differenza fondamentale: il modo in cui le cose stanno insieme, che è il modo in cui la frase dice il modo in cui le cose del mondo possono essere fra loro collegate, può avvenire solo senza la presenza del luogo comune nel mondo che si pone come luogo di scambio fra una cosa e l’altra, e che è solo adesso ingombro del mondo vecchio del romanzo. Sembra essere il luogo comune ad essere giunto al suo termine – nel senso che lo stesso concetto di individuo potrebbe rivelarsi nient’altro che un errore.

Una successione di eventi fra loro collegati determina una storia nella forma di una successione di momenti della giornata che possono essere isolati per costituire una storia: che sarà allora una storia della notte, oppure una storia del tempo libero; oppure questa successione di eventi determina la storia in quanto racconto che un gruppo pensa di poter determinare a proprio beneficio, che si determina allora come la storia solo in quanto storiografia, che è allora la storia che solo un meticciato può arrogare come proprio atto d’orgoglio di fondazione, per quanto miserabile, esso poi sia nei fatti – che è ciò che collega l’Eneide al romanzo La storia di Elsa Morante, cioè il canto dell’era del meticciato. Questo ci porta al meticciato dello sprawl di William Gibson (il cyberspazio intravisto da William Gibson è il viaggio psichedelico in uno spazio che perfettamente si adegua all’attuale obiettivo dell’occidente multiculturale e multietnico che ha come obiettivo la consegna dell’Occidente al nemico di razza), ma che lucidamente pone l’uomo di fronte al costrutto postumano – il quale rimanda a quanto si vede nelle pecore elettriche di Philip K. Dick, perché quando William Gibson, in Neuromante, usa questo nuovo modo di impostare i personaggi, solo per i personaggi secondari e mai per quelli principali, ricade nella situazione di esseri umani che devono affrontare aggregati macchinici, mentre in assoluto manca il superamento integrale del concetto di “umano”, che è per l’appunto la pietra d’inciampo sopra la quale si era formato Philip K. Dick, essendo il dilemma uomo/robot, fondamentale, ad esempio, nelle Pecore elettriche, che non implica mai lo sguardo oltre l’umano, quanto semmai un riguardo nostalgico verso l’umano – che è quello che non deve più esserci, almeno pensando una nuova forma narrativa intenta a mostrare il modo in cui tante cose stanno insieme – questo perché l’uomo, come già è stato detto, ma attende ancora di essere pensato, è qualcosa che deve essere superato. Il tempo riservato all’intrattenimento è ciò che caratterizza la nostra epoca e il romanzo è comunque parte di questa divisione della giornata, perché noi non possiamo pensare la nostra epoca senza il romanzo.

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Paul Auster, Baumgartner

 

La questione del personaggio Baumgartner, protagonista del romanzo Baumgartner dello scrittore Paul Auster, si pone a partire dalla domanda: “come parlarne?”. Si può rispondere al presente, cioè richiamando il tempo presente: Baumgartner è quello che, in questo momento, il personaggio che è Baumgartner fa, che è quello che vediamo / possiamo dedurre dalla prima riga del romanzo. Le considerazioni su quello che il personaggio Baumgartner fa, sono le considerazioni su quello che il romanzo Baumgartner è come truffa del romanzo, volendo impostare il discorso sulla letteratura. Il romanzo Baumgartner si può considerare come variazione della messa in gioco del personaggio nei romanzi di Paul Auster e di “Paul Auster” come personaggio che entra in scena nei romanzi di PA a fianco di altri personaggi interamente da lui creati.

Baumgartner come romanzo si determina secondo una struttura articolata in cinque capitoli che si svolgono secondo un andamento a zig-zag:

  • Capitolo 1: i piccoli incidenti che capitano in una giornata qualunque al qualunque protagonista che ha nome Baumgartner.

    • Capitolo 2: la telefonata dall’aldilà indirizzata al personaggio Baumgartner alla fine del capitolo.

  • Capitolo 3: la Svolta che coinvolge il personaggio Baumgartner.

    • Capitolo 4: indietro nel tempo, nei rami della razza – del personaggio Baumgartner.

  • Capitolo 5: l’attesa, da parte del personaggio Baumgartner, dell’ospite che deve arrivare.

Il capitolo 2 e il capitolo 4 si presentano come rilancio della storia nell’improbabile (la telefonata dall’aldilà, le speculazioni di Baumgartner sul suo nuovo possibile matrimonio); il punto di svolta è rappresentato dal capitolo 3, che rappresenta il centro di una asimmetrica dispari architettura e rappresenta il punto di svolta, così come i capitoli 4 e 5 rappresentano la liquidazione del materiale portato alla memoria da parte del protagonista, mentre i capitoli 1 e 2 tengono insieme la costruzione del semplice personaggio Baumgartner, cioè la sua definizione.

I primi due capitoli si riferiscono ad avvenimenti del tempo presente; gli ultimi due capitoli comprendono un richiamo ad avvenimenti del tempo passato e un richiamo ad avvenimenti che si rivolgono a quanto potrebbe svolgersi nel tempo futuro, ed usano il presente solo per “ingannare il tempo comune”; il capitolo 3 funziona così come punto di svolta tra i due blocchi.

Il romanzo Baumgartner si compone come collegamento fra quello che il romanzo Baumgartner può dire del personaggio Baumgartner e l’inclusione di materiale eterogeneo, scritto prevalentemente da un altro personaggio (la moglie di Baumgartner) e poi dallo stesso Baumgartner – in quanto finzione di personaggio. È tutto materiale a cui Baumgartner accede solo in quanto materiale a cui ha adesso accesso. Questo comporta la messa in gioco, anche in questo romanzo, del personaggio “(Paul) Auster”, che nei romanzi di Paul Auster entra spesso in gioco, tra gli altri diversi personaggi del romanzo.

In questo romanzo questo conduce in un primo tempo alla sindrome dell’arto mancante (considerata nel capitolo 2 di quel romanzo), vale a dire ciò che conduce dagli incidenti come conseguenza della vicinanza alla teoria dell’altro come arto mancante – e quindi alla Svolta che è mostrata nel capitolo 3 del romanzo. La questione riguarda la funzione dell’altro. Il romanzo contemporaneo è di tipo piattamente minimalista, a differenza del romanzo precedente, che era di tipo serioso & massimalista per quanto riguardava le relazioni tra i vari individui di una stessa famiglia. Così l’individuo risulta atomizzato – mentre il romanzo meno che mai si avventura nella composizione subatomica, che è ciò che invece costituisce la Nuova Composizione Letteraria, basata sulla misurazione quantistica per quanto riguarda la determinazione dei personaggi. Il romanzo antecedente al modernismo poneva una griglia di vicinanza/lontananza tra i personaggi, mentre il romanzo postmoderno non pone griglia alcuna, affidandosi alla vicinanza tra tutti gli individui tratti in gioco – atomizzati – che è ciò che costituisce la società moderna.

Sindrome dell’arto mancante = sindrome di Calandrino. La questione di prendere la terra: ormai non è questione di prendere la terra, quanto di rilasciare la terra da una presa malandrina. Il meticciato è ciò che ruba terra. Qualunque presa della terra sarebbe stata allora tutto, fuorché rilascio della terra; questo perché, nell’epoca in cui non vi era più presa della terra, cioè nell’epoca in cui la presa della terra poteva solo essere articolo di pensiero, la terra non è stata presa. “La fine” è la storia con cui ha a che fare ciò che è rimasto, che determina chi è rimasto.

Per questa ragione il personaggio Baumgartner si definisce, nel primo capitolo del romanzo Baumgartner, come albero i cui rami vanno a sbattere contro altri alberi in una foresta diventata aliena per diversi motivi in quel tratto di terra a una classe di personaggi che il romanzo Baumgartner non considera, ma per i quali il personaggio Baumgartner si trova ad essere in vicinanza, e che, nell’ultimo capitolo, va a sbattere contro un albero con la sua automobile, quando un cervo, individuo animale autoctono in quel luogo considerato dal romanzo Baumgartner, gli sbarra sull’istante la solida sua stretta strada. Fra i due estremi si pone la Svolta, che è ciò che porta il personaggio Baumgartner a riflettere sulla propria origine allogena rispetto a quel luogo – perché da una struttura che considerava la possibilità di sopravvivenza di un albero isolato si passa allora al giardino che contiene l’albero. La prima metà del nome è ciò che definisce la funzione del personaggio; il totale delle due metà è ciò che definisce il romanzo, che corrisponde al caso del cognome fatto protagonista; mentre nel romanzo il punto di svolta è un capitolo redatto al presente, nel nome il punto di svolta è un punto irrazionale che separa solo due sole sorgenti differenziate.

L’albero non è l’albero che si trova nella proprietà del narratore, ma è l’albero che il narratore raggiunge facilmente allontanandosi da casa.

Questo romanzo parte da piccoli incidenti del caso che coinvolgono tante cose e persone a partire dal personaggio Baumgartner, ma il romanzo Baumgartner non è l’epica del rapporto tra le cose e le persone, bensì la relazione di ciò che lega un simpatico individuo colto a caso e coinvolto a forza in questa relazione, tra tante cose e persone qui, per caso, di nome Baumgartner – per questo si può dire che il romanzo è, per costituzione sua propria, proprio niente più che una truffa bella e buona.

Il romanzo Baumgartner ribalta la messa in scena del personaggio “Paul Auster”, presente in altri romanzi di Paul Auster, presentandola come messa in scena di una famiglia di nome “Auster”, che il protagonista Baumgartner, a un certo punto, nel corso del romanzo, si trova a dover chiamare, come famiglia dalla quale egli proviene dal lato materno (e che non impone al personaggio “Paul Auster” una entrata in scena – perché la questione che chiama in causa non è tanto il nome proprio dell’autore, quanto l’autore in quanto nome comune).

L’arte del racconto nasce dall’inciampo di luoghi comuni diffusi, come mostra il Decameron del meticcio italiano Boccaccio, forse il libro più brutto mai impastato a forza tutto insieme con la volontà malefica di trarre fuori un libro qualunque sia, un libraccio, un libro nero della razza, che è l’antirazza; l’arte del racconto è poco più che un’arte del pettegolezzo impastato a forza tutto insieme – ma l’arte del racconto è ciò che è – a questo punto – perché Boccaccio, che era un meticcio (un meticcio italiano, se proprio vogliamo precisare), a un certo punto è entrato nel gioco: e potremmo dire che cosa sarebbe, adesso, l’arte della narrazione se non fosse stata inquinata dal meticciato?

Ciò che il romanzo Baumgartner chiama è l’inutilità della letteratura, ma ogni romanzo ben riuscito deve chiamare l’inutilità della letteratura, che è ciò che chiama la forma “romanzo” in quanto ciò che la mette in dubbio.

Il problema è la frattura nell’arte del racconto, che determina la profondità dell’arte del romanzo. Heidegger, che ha riconosciuto in Hölderlin la possibilità massima della poesia pensante, non ha mai riconosciuto la possibilità di una prosa pensante, che è ciò che pure costituisce Hyperion di Hölderlin, così come non ha mai considerato i saggi scritti da Hölderlin, per quanto la letteratura debba collocarsi come qualcosa che coinvolge la Dichterberuf – in qualunque caso – e quindi la parola che nella poesia ha la sua massima esaltazione, ma che chiama la lingua come tesoro della razza, per cui anche la prosa come parte del tesoro della razza. Per questo ci troviamo, una volta di più, ad avere a che fare con i meticci, che sono ciò che impesta il mondo.

La storia di Baumgartner, che è la storia di Baumgartner, può essere raccontata a partire dalla sindrome dell’arto mancante, che porta alla ricerca dell’altro come sostituzione della mancanza, che è la costituzione della mancanza, cioè dell’arte venuto a mancare, per poi passare alla ricerca che porta all’inabissamento nella propria linea familiare, per poi rispondere a una nuova insperata chiamata dell’altro, che porta a sbattere contro l’albero, per non andare a sbattere contro il cervo.

Ciò su cui il romanzo Baumgartner ruota intorno è la messa in scena dell’inutilità della letteratura; ciò su cui il romanzo ruota attorno è ciò che il romanzo chiama: ogni romanzo ben riuscito chiama l’inutilità della letteratura – il congegno, la storia bene organizzata è ciò che, salvando l’inutilità della letteratura, insieme svela la storia come congegno inutile, se si considera il personaggio Paul Auster, che è sempre andato a caccia di storie (come nel caso di Auggie Wren a proposito della possibilità di un racconto di Natale come lavoro proposto a caso allo scrittore Paul Auster). Così la letteratura si determina come congegno e la storia come rispetto della storia in quanto congegno: ogni testo della letteratura è infatti un gioco, che è il gioco delle perle di vetro, vale a dire il giochetto di una storia più che ben congegnata.

Consideriamo Auggie Wren: lo scrittore è a caccia di una storia, cioè di una gabbia per singole parole delimitate allora bene (in questo caso relative a un “racconto di Natale”), che deve portare a un effetto preciso, perché non crede nella lingua come tesoro della razza, che è ciò che costituisce la verità delle parole, che è ciò che lo attraversa lungo tutta la vita; ma quando un informatore gli offre una storia “come lui la voleva”, non può che porsi, alla fine, la domanda sulla verità di questa storia in quanto storia realmente accaduta: la storia esiste come storia o è ciò che viene confezionata come “storia” da parte di colui il cui obiettivo era solo raccontare una storia a colui che, non solo chiedeva una storia, ma chiedeva anche che venisse soddisfatto il suo preciso concetto di “storia”, cioè di racconto, in questo caso di “racconto di Natale”? Quindi l’informatore ha inventato parte del racconto che trasmette come pura verità. Lo scrittore pone la domanda sulla veridicità, ma non pone la domanda sulla razza che ha posto la questione sulla veridicità, che è la questione sulla razza, che è invece ciò che proprio la sua scomparsa deve portare in scena.

I giovani che si incrociano adesso nelle città del sud dell’Europa (limite che è ciò che non ha a che fare con la razza bianca) rispondono sempre più al modello latino americano, che non ha nulla a che vedere con la razza bianca. Ma questo dipende dal fatto che si è lasciata vivere l’Italia, cioè che si è dato spazio al meticciato (= che si è permesso al meticciato di vivere), che per sua natura è il nemico della razza bianca. L’uomo non sarà mai padrone del mondo finché non avrà accettato il gioco del mondo, che consiste, di volta, nell’assumersi la decisione relativa a chi spetti il diritto di vivere e a chi spetti il diritto di scomparire. L’uomo non sarà mai padrone del mondo finché non avrà deciso a chi spetti il diritto di vivere e a chi di scomparire. Questo è ciò che è chiamata la razza, per cui l’andare nella terra è solo l’inciampo.

Le strategie del racconto determinano ciò che, nel racconto, è di volta in volta stato reso possibile. Il congegno è ciò che, nella letteratura, non deve più porsi come ciò che deve essere per mantenere quel tipo raggiunto di congegno del racconto.

Consideriamo il caso di un’arte del romanzo tesa alla più estrema forma sintetica: Lovecraft, il Commonplace Book; Orrore, da una parte; Caso, dall’altra. È possibile collegare Lovecraft e Paul Auster? forse tramite Il taccuino rosso di Paul Auster, che è una specie di Commonplace Book di Lovecraft; ma è una possibilità comune pensare la svolta di un’arte narrativa verso l’aforisma, dopo la svolta vecchia massimalista; a separare è la documentazione, che coinvolge entrambi gli scrittori, – ma ora si può dire che Kafka aveva visto giusto. Nel germe della letteratura c’è il nucleo; al nucleo dell’individuo c’è la razza. Quindi nessuna evoluzione.

Il discorso su Lovecraft come autore deve essere impostato come tipologia di tre diversi sistemi di composizione del testo (escludendo l’epistolario e la saggistica): prosa (i racconti per cui è generalmente conosciuto), poesie, appunti confluiti nel Commonplace Book; la prosa sviluppa a livello di congegno un nucleo basato sul puro orrore, a cui la razionalizzazione indica il percorso attraverso un sistema di passaggio da un momento all’altro; la poesia non ha bisogno di razionalizzazione: infatti esprime il momento del massimo orrore escludendo i vincoli narrativi; il Commonplace Book si presenta come quaderno di appunti, che richiama l’aforisma, ma la prossima forma che attende il romanzo sarà la forma del romanzo aforistico, nella quale siamo già implicati, e che butterà all’aria la forma del romanzo come noi la conosciamo. La Nuova Composizione Letteraria metterà la storia di un linguaggio, che – casualmente – crea personaggi, al posto di una storia di personaggi su cui è basata ancora oggi la narrazione, per cui possiamo seguire la storia di Baumgartner come storia della sindrome mancante che cerca la sua soluzione.

Il paroliere usa solo slogan. D’Annunzio è un esempio di uso degli slogan nel modo di parlare degli italiani, che non è una lingua. Ma ogni paroliere del meticciato italiano (impropriamente chiamato “poeta italiano”) usa le parole, che sono la sua forza, perché il poeta usa la lingua, non si piega mai all’umiltà delle parole, che è ciò che usa lo spettro contraffatto del poeta del meticciato, cioè il paroliere, perché il meticciato non ha mai un poeta perché non ha una lingua, ha solo un paroliere, così come il meticcio non ha un compositore nel campo della musica, ma ha un musichiere: Dante, Boccaccio, d’Annunzio sono stati i parolieri del meticciato (meticciato italiano, in questo caso), così come Vivaldi, Rossini, Verdi sono stati i musichieri del meticciato (meticciato italiano, in questo caso). Questo deve essere detto, in una volta, in segno di disprezzo verso il meticcio italiano Dante Alighieri e verso il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio, in una volta detto in più in segno di disprezzo verso queste due cose, e verso il meticciato italiano – che è un insieme di tante cose che non dovrebbero più essere lasciate essere, perché è ciò a cui dovrebbe essere tolta la vita: questo perché si deve riconoscere ciò che non ha diritto di vivere.

Paul Auster, Baumgartner, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2023.

 

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Pierino. Un monumento

L’eroe nazionale d’Italia è, da sempre, stato Pierino: la sua nascita è nel campo di battaglia della barzelletta; trovato sotto un cavolo, l’etimologia della parola italiana “barzelletta” è incerta; cosa figlia di nascita incerta, Pierino presenta appieno il carattere nazionale della maledetta itala razza dalle molte sue vite deformi, che è in pieno ciò che costituisce una volta antirazza: ignoranza, estroversione, cosa comparsa per caso, possibilità di essere ciò che si sente consegnato all’ignoranza in quanto ciò che segue la vocazione dell’ignoranza, cose tutte che hanno il precedente illustre entro Calandrino del Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio. A chi è lasciato solo tra le parole, si oppone Pierino, che ha solo parole per fare il gioco suo delle tre carte per imbrogliare chi si trova a passare lì per caso. Questa è l’Italia. L’Italia non c’è mai stata, e l’eroe, in Italia, non c’è mai stato e mai può esserci. La differenza tra comprendere o no la musica consiste nel sapere che cosa verrà dopo – che è questione di tautologia, bene stabilita da Wittgenstein. L’Italia è il monticello di spazzatura che trasforma ciò che vi si posa in triste barzelletta, è per questo che io non racconto mai barzellette, perché odio il monticello di spazzatura, altrimenti da qualcuno nominato Italia, ove un becco di cicogna qualunque mi posò, destinazione fagotto da me non indicato – la narrazione è sempre un falso. “Barzelletta” è parola che lega ciò che è italiano alla sua origine? L’Italia è un piccolo tetro tutto sporco teatrucolo qualunque tratto appassito su senza palco, senza quinte, senza sipario, meno che mai adatto a chi voglia trarsi in mostra. Quando parliamo di favola, non dobbiamo dimenticare la maledetta Italia – ma sia chiaro che, ai cosiddetti “crimini di guerra nazisti in Italia” (bim bum a quel di Marzabotto, bim bum bam a quel di Sant’Anna di Stazzema), io ci cago sopra. Il monumento mai realizzato a Pierino quale eroe della maledetta Italia nella maledetta Italia si gemella con il monumento dei bulli nella via Pál a Budapest; il monumento non realizzato a Pierino si oppone a quello realizzato da Eugenio Baroni alla spedizione dei Mille maledetti spartiti in Genova Quarto dei Mille, che rappresenta la resurrezione dei martiri italiani (italiani = scarafaggi africani) che si raccolgono intorno alle ali di Garibaldi (italiani = scarafaggi africani), il monumento a Pierino (italiani = scarafaggi italiani) deve invece rappresentare la penetrazione nella terra da parte di ciò che non esiste, cioè la maledetta Italia una volta per sempre per tutte (italiani = scarafaggi africani): la penetrazione nella terra da parte del progettato monumento a Pierino è in realtà il buco nell’acqua nato morto, storto strozzato tutto al quale il monumento non realizzato a Pierino si oppone a quello realizzato da Eugenio Baroni alla spedizione dei Mille maledetti, mille volte italiani di merda, che rappresenta la resurrezione dei martiri italiani (italiani = scarafaggi africani) che si raccolgono intorno a don Garibaldi José (italiani = scarafaggi africani), il monumento a Pierino deve invece rappresentare la penetrazione nella terra da parte di ciò che non esiste (italiani = scarafaggi africani); là dove d’Annunzio, nella sua celebrazione a Quarto, parlava di un monumento-nave pronto a slanciarsi e salpare un’altra volta (n’âtra vòtta) dallo scoglio maledetto di Genova che poi diventerà “Quarto dei Mille”, liscio in mare violato da color viola a color d’oliva (Italiani bastardi). Ogni spostamento degli italiani nel mondo è un modo per impestare il mondo; l’Italia può solo impestare il mondo, infatti da qualche parte devo avere letto: “un bastardo può solo imbastardire”, ma, min kappa, non ricordo più dove. Gli italiani hanno impestato il mondo. Mosso una volta in movimento, il resto ti move buono incontro da sé. L’ignorante chiede solo ignoranza come posto suo proprio dove stare, che è solo ambiente, perché non ha mondo. Il monumento a Pierino è allora la rappresentazione della realizzazione di un piccolo buco nell’acqua. L’ignorante chiede solo ignoranza dove poter stare, le vibrazioni lasciate nella terra che avvelenano la terra sono l’occupazione della terra da parte di ciò che, per specie sua, non è mai chiamato ad abitare la terra (italiani = scarafaggi africani). È l’Italia la barzelletta che non deve più fare ridere, cioè avere loco ove scampare – questo perché noi abbiamo a che fare con la cosa fissa che è il meticcio italiano nel mondo e anche Žižek ha affidato il suo pensiero alla nuvoletta di una barzelletta.

Ci muoviamo tra bluff e considerazione dell’altro – ma la questione dell’altro la dice già lunga. È come ciò che nasce con il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio. Il bluff è maschera. D’Annunzio era un bluff; non c’era un poeta, ma c’era un meticcio, ben consapevole della questione del meticciato. Cioè della nuvola. Per comprendere d’Annunzio bisogna porsi dentro la questione del meticciato. Gli italiani sono solo meticciato, non meno dei cileni di Miguel Serrano. Ma gli italiani sono la verità del meticciato – quindi d’Annunzio, in quanto pupazzetto bluff, ha rappresentato la verità su quella cosa bluff che è il “popolo” italiano. Una razza ha un poeta, che indica il destino della razza nella lingua di quella razza, che è il tesoro della razza, a cui solo un poeta ha accesso; un meticciato non ha un poeta, ha soltanto dei parolieri, che vanno avanti facendo man bassa di parole. Per me il meticciato è una cosa viva, è per questo che parlo di far morire il meticciato. D’Annunzio è stato il grande paroliere del meticciato italiano, ben consapevole di essere questa pessima cosa – leggetelo in questo modo e d’Annunzio sarà chiaro.

Con le sue antenne attente di scarafaggio (tin-tin-tàn), il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio ha l’umiltà di ciò che non si sente chiamato in nessun punto del mondo (per lui, niente mondo, bara ambiente). Il meticcio italiano è ciò che le parole non possono mai trascorrere, perché il meticciato è ciò che non ha lingua – laddove la lingua è, invece, il tesoro della razza – per il resto valgono le antenne di uno scarafaggio di cui ogni meticcio italiano viene fornito. Gli italiani, in quanto meticciato, sono quella cosa che nel mondo non deve mai essere data la possibilità di esistere. “Dante_Go_Home” è allora la parola da cesso che non ha bisogno d’esser chiesta, per cui ribadisco io: Dante, porco Dio, vattene via. Ma l’uomo non sarà mai padrone del mondo – perché di questo si tratta – finché non considererà a chi spetta il diritto il vivere nel mondo: dietro Dante c’è il meticciato semita (altrimenti detto islam); dietro quello che scrivo io, c’è la razza bianca. L’eroe chiocciola come eroe italiano che deve schiacciato, affinché non ritorni mai più il mito di Enea galuscio giunto giovane già d’Africa.

L’Italia è tutto quello che, ciò che è di razza bianca, dovrebbe odiare, prima di tutto: l’Italia è quella cosa verso cui, ciò che si ritiene di essere parte d’Italia, non deve avere memoria, al massimo appena un museo vicino al punto dove è avvenuta la fine di ciò che, malauguratamente, fino ad un certo punto, è stato, per un certo tempo, la maledetta Italia. L’Italia non deve essere ricordata con monumenti. Se c’è bisogno di un monumento, allora non si parla di maledetta Italia, ma di altro, come l’indagine degli antropologi alieni nelle parole di Jameson che cercano di capire la Terra in base al luogo dove erano capitati loro malgrado: Auschwitz lì per caso in quel caso del cazzo che ha comportato loro l’atterraggio. Infatti qui non si tratta di “mettersi in gioco”, affidamento facendo su l’Io, ma di impostare il nuovo gioco del mondo, che sarà fare del mondo il soggetto del gioco del mondo, dove non tutti, fra quelli che sono al mondo, devono avere l’aparte. Vediamo meglio: un monumento a Pierino (italiani = scarafaggi africani) potrebbe essere un misto del Manneken-Pis locato a Bruxelles con l’abito armatura di un artista di strada qualunque, che all’improvviso schizza turisti quando li ha intorno a lui tutti con piscio che è vivo solo in quanto più che vera Skräpkonst, cioè come ho creato io la parola – ma in segno di disprezzo verso il meticcio italiano. Questo è il meticcio italiano nel mondo.

La possibilità di un eroe nazionale dovrebbe segnalare non solo la possibilità di ciò che deve essere continuato, ma anche di ciò che deve essere fermato, cioè abbattuto (non so in quale altro modo dirvelo). Solo così l’eroe ha la sua completa funzione nella comunità che rappresenta. Avere soppresso degli italiani nel corso di una guerra è una cosa deve essere piuttosto elogiata, piuttosto che condannata (porco Dio, con gioia dico io! In culo a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema).

Pierino non ha loculo porco suo, così come l’Italia non ha spazio porco posticcio suo nel mondo porco che, in quanto meticciato, quello ha contribuito a creare, ma l’Italia è quella vecchia porca mille volte camuffata cosa che può essere indicata, vecchio mucchietto di pietre porche che la macina della cosiddetta “letteratura italiana” può in un batter d’occhio trasformarti in vecchi mucchietti ammanniti di parole (Oplà, noi campiamo!), così come un vecchio dito pesto posto presto sopra mappa può indicare ciò che c’è, non essendoci però stato mai; così come Pierino è ciò che è sempre stato non essendoci mai stato mai (Italiani = scarafaggi africani).

Pierino è l’eroe porco trasversale, che da Calandrino del pessimo Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio (scarafaggio africano), porta ai pessimi film con Alvaro Vitali e del finocchietto Pasolini (bastardo di italiano), attraverso quello spazio che non c’è – la pessima Italia di tutti gli scarafaggi africani buttati nel gioco della fama (Italiani = scarafaggi africani), infatti, non può riconoscersi in una letteratura nazionale, perché comunque l’Italia è quella cosa che non esiste, ma che pure esiste come massa che non dovrebbe esistere, carcassa gonfia giunta a scoppiare che, in time-laps, sembra tornare a respirare come viva: Lovecraft ha presentato questo stato della terra come il contrattempo della terra occupata dai nativi americani o dai coloni europei non di razza bianca (il meticciato italiano, il meticciato spagnolo, il meticciato greco, il meticciato slavo), cioè dal meticciato che ha da sempre infestato l’Europa e poi ha infestato l’America; la terra così occupata è la terra infestata dalle vibrazioni che hanno il buio di mille soli chiusi bui sprigionati nello sgabuzzino buio, prima che il bagliore di mille soli sorti insieme la chiamasse al lampo d’annullamento, bomba, per cui l’Italia ha la particolarità della Miskatonic Valley di attirare il grande male assoluto, ad Arkham, dove le larve dei primi maledetti occupanti di quelle zolle desolate (italiani = scarafaggi africani), tristemente galleggiano.

Ma quello che manca – porco Dio di un’Italia, mormoro io – è l’odio nei confronti di ciò che è italiano, cioè l’odio nei confronti del meticciato: l’Italia, questo rozzo spunzone della mal Africa, ha spuntato all’Europa molto di ciò che era vera Europa; l’Italia è quello sputo d’ambiente malamente tratto tra Africa ed Europa – non è Europa e non è Africa, ma è più Africa che Europa: se Pierino è l’Italia, allora l’Italia è Pierino che imita il Professore, come segna Lem con straccio suo di sagoma scritta nel bicorpo stretto nell’Eden di suo straccio di pianeta ben marsupiato in straccio di commento di Jameson. Per cui il monumento a Pierino nella maledetta Italia è il monumento a Pierino che imita il Professore, cioè il monumento al bicorpo indicato dal romanzo di Lem nel triste suo Eden suggerito.

Pierino è l’unico personaggio, italiano maledetto, che permette di collegare tutto ciò che è italiano per maledizione sua; contrattempo: Pierino non esiste come personaggio letterario, così come non esiste la maledetta Italia di cui io parlo sempre come nazione, ma appunto per questo il maledetto personaggio <Pierino> può rappresentare la maledetta cosa che si dice <Italia>, pur non esistendo, ma che tutti possono indicare su qualsiasi carta geografica sopra mettendoci appena piccolo loro duro ditino lungo rigido: cioè indicando l’Italia con lo spillo di un punto su una mappa, che è quello che la maledetta Italia è sempre stata ferma lì apposta, tra Africa ed Europa (a indicare quel ciocco di sputo che gli italiani sono sempre stati: Italiani = scarafaggi africani), così come non esiste la barzelletta, se non bavetta di ciò che non esiste (questa è la ragione per cui io non racconto mai barzellette), ma esiste la maledetta Italia – che mille dèi, sorti insieme nel cielo, stramaledicano la mille volte volte da me maledetta Italia creatura del buio assoluto.

Pierino è il cervellino minuscolo di un meticcio italiano di tipo antropologico suo, creato per giammai pensare di progredire, e mai è infatti progredito: stoppato lì, essere fatto fugacemente, Pierino è il cervellino che è soltanto venuto al mondo, non è mai stato da nessuna parte, non ha mai letto un libro, non ha mai pensato un pensiero, ha solo stoccato in sé piccole tante nozioni che snocciola veloce quando appena gli arriva il comando: il baccello che rivela gli invasati – Pierino è il punto fantasma che indica la maledetta Italia sulla mappa, per cui il monumento a Pierino dovrebbe essere il monumento idiota che non c’è, vale a dire il monumento che attira l’attenzione del turista o della persona che ritiene quel “monumento” punto interessante che merita il suo avvicinamento – che implica inglobamento assoluto, come il cambio di gravità in un buco nero, quindi un anti-monumento, che potrebbe anche essere il Monumento al Nulla – ma può mai essere pensato, dico io, un monumento di questo tipo? Pensiero d’Italia, pensiero di mafia, pensiero alla barzelletta?

Noi sappiamo di un mondo dove esiste il meticcio italiano e lo possiamo indicare sopra qualunque piccola mappa del cazzo che ci venga squadernata davanti a vanga. Porco Dio. Il più piccolo meticcio italiano del cazzo è per noi Pierino. Pierino è ciò che muove Pin sulle creste come folle partigiano che corre da qui il richiamo alla illusorietà di scienza sua del cazzo. Pierino/Pin (Partigiano del Pin) è ciò che deve essere abbattuto con un colpo preciso da un cecchino, lontano da lui chilometri (italiani = scarafaggi africani); l’eroe non è una illusione perché la scienza stessa è illusione: infatti noi possiamo parlare di Pin de la Carcassa (della maledetta Italia), anziché di Pin l’Eroe (della maledetta Italia del cazzo). Chiunque, in Italia, può conoscere un Pierino del cazzo del porco Dio d’Italia (dell’Italia del cazzo). Infatti l’Italia è solo un caso della Miskatonic Valley di Lovecraft, perché intorno all’eroe tutto diventa tragedia, e intorno all’antieroe tutto diventa romanzo – mentre intorno al dio che è imbecille tutto diventa ambiente del meticciato, del disgustoso meticcio italiano prima di tutto (Italiani = scarafaggi africani), cioè del nostro Pierino, che qui rivela, a quanto pare, (bastardo di italiano) la sua pretesa al monumento (italiano bastardo).

L’Italia non ha mai creduto nell’eroe del romanzo perché non ha mai creduto nella poesia, cioè nel gioco della parola attraverso la lingua che porta al gioco delle perle di vetro – che è il grande gioco. Perché una cosa come Musil non è stata possibile nella maledetta Italia del cazzo? Purtroppo l’Italia ha avuto qualche genio nella letteratura (porco Dio, dico io), ma questi non hanno mai capito cosa fare di quel talento giunto loro lungi tanto per caso da qualche parte – cioè senza terra dove allignare.

Questo perché l’Italia è solo meticciato. Essere meticciato è il modo peggiore di buttare via le cose solo per battere soldi in cassa. Un paese di meticci non ha eroi, perché non solo non è un paese, ma nemmeno ha abitanti reali, solo “esseri fatti fugacemente”, come li chiamava il mio amico Daniele Paolo Scherebba. Nessun italiano ha mai creduto nella poesia, così come non ha mai creduto nel romanzo. Considerate la tratta Hölderlin – Musil: il caso di Manganelli dimostra che, quando dentro la maledetta Italia si nasce dotati, meglio battere grano, chiudere cassa; mai pensare di tornare a completare ciò che si è lasciato non finito e infatti giustamente Eco ha ribadito da qui sempre la sua: “Io sono l’Eco, e voi non siete un cazzo” – ma questo è già di per sé la barzelletta del meticciato da cui tutto tratto ha l’iniziamento tanto storto suo (e che io non racconto, perché non racconto barzellette), perché se il meticcio italiano esiste solo così, come Eco, che è l’eco, è perché Eco è solo la triste eco del meticciato, che ha sempre impestato il mondo (italiani = scarafaggi africani), cioè l’eco di un’eco che doveva già essere spenta e gli scarafaggi italiani sono solo ciò che ha impestato il mondo con Dante e Boccaccio, che è solo arte degenerata, perché esiste l’arte degenerata solo perché esiste, e viene lasciata esistere, la razza degenerata, che è ciò che deve essere tolta dal mondo.

Ohibò!, un monumento a Pierino sarebbe il monumento all’Eco che si affievolisce sempre più in eco dell’Eco (italiani = scarafaggi italiani – che è quello che non si può più dire). L’Italia deve riconoscersi in un personaggio di barzelletta (e io non racconto mai barzellette). Solo in una barzelletta un italiano può pensare di essere eroe, che sarà in quella occasione il vero eroe: tutti sanno che gli italiani sono per natura vigliacchi, che hanno la flatulenza cauta che scatta nell’essere nella storia solo nel punto che scatta nel momento di una fughetta improvvisa, che giusto può comportare appena la storiella (= barzelletta) ma non può fare la storia di ciò che è italiano, così come non si può fare la storia della flatulenza (per quanto quel naso di mediocre meticcio africano che era Agostino avesse, a Roma, annusato il bel dio suo di flatulenza), questo perché l’Italia non è mai esistita, ma il problema che resta è ancora fare in modo che quel qualcosa, cautamente definito da qualche parte come il meticciato italiano, cautamente, non debba mai più esistere – dico da ora per sempre. Sei sicuro di quello che dici?

La barzelletta che Pierino non racconterebbe mai: Cosa disse, Dio, il grande Fornaio, quando creò il primo negro? Niente, lo tolse dal forno e lo mise da parte con un sospiro. Cosa disse, Dio, il grande Fornaio, quando creò il primo italiano? “Porco Dio, è il secondo che mi si brucia!”

Stefano Jossa, Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, Laterza 2015

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