Abnousse Shalmani, “Khomeini, de Sade e io”

1. Sade lettore di Reich

Khomeini, de Sade e io di Abnousse Shalmani e La filosofia nel boudoir di Sade sono due testi anomali in quanto appartenenti ad un loro proprio eccesso, ma affrontabili in quanto testi posti in entangled fra loro 2.

Khomeini comincia con una frase di La filosofia appuntata come esergo: “si uccide con il riso, mai con la collera”. Infatti la collera è ciò che impedisce la visione della razza, che deve essere, invece, con attenzione considerata sempre – che è ciò che separa, ad esempio, la razza persiana dalla antirazza degli italiani. Come dimostra la distanza tra Shalmani, indo-aria, e il meticcio italiano Pasolini (Pier Paolo, il finocchietto, il cui ceffo, piccolo e schifosamente piægato sulle sue piccole mille rughe, ricorda le testine secche portate in giro da Queequeg – che tutti voi avete presente): la differenza tra il volto della persiana Shalmani e il ceffo del meticcio schifoso e italiano Pasolini (Pier Paolo) di merda è la differænza che costituisce il rapporto tra razza e antirazza.

Il meticciato è la cosa vivente a cui deve essere tolta la vita. Ma la vita di una cosa vivente è niente; per cui togliere la vita a una cosa vivente è togliere la vita a nient’altro che alla cosa che è niente.

La filosofia nel boudoir ha uno statuto anomalo tra i testi postati come “libertini” di Sade.

La frase scelta ad esergo da Shalmani è tratta dal pamphlet portato da Dolmancé in quella riunione di libertini tosti e tosto intitolato Francesi, ancora uno sforzo.

Considerando Khomeini di Shalmani come opera didattica, possiamo allora chiederci: in che cosa consiste lo statuto di “opera didattica”? Se consideriamo La filosofia nel boudoir possiamo rispondere confrontando questo testo con gli altri appartenenti ai “testi libertini” di Sade.

Intanto possiamo notare l’affinità tra le due figure tanto sbandierate: Shalmani viene iniziata alla letteratura libertina con estrema facilità, come se l’avesse da sempre conosciuta; stessa risposta da parte di Eugénie nella Filosofia: i due personaggi hanno natura analoga. Il libro di Sade è quasi una versione didattica dei suoi più estesi romanzi; la materia sembra qui essere trattata in modo, per così dire, preparatorio; così Shalmani sembra fermarsi dopo avere perfettamente compreso i testi libertini di Sade. La filosofia non affronta l’omicidio e, benché Eugénie affermi più volte di volere uccidere la madre, la donna non viene mai uccisa, quando è consegnata nelle mani dei libertini, viene soltanto… sigillata in attesa della morte, che pure non dovrebbe tardare; analogamente, Khomeini non affronta la questione dell’omicidio, dopo avere perfettamente interpretato i testi di Sade. Ma qui c’è qualcosa di diverso. È come se all’arte di Shalmani di leggere venisse, a un certo punto… cucita la bocca, l’unica cosa che a madame de Mistival non viene cucita, e Shalmani potesse solo riscrivere questo testo di Sade.

La lettura critica deve separare il modo di pensare della razza bianca dal modo di pensare del meticciato – il fatto che, da un punto di vista personale, si pensi in base alla propria razza è ciò che distingue il modo di pensare della persiana Shalmani dal modo di pensare – cioè del modo di pensare che è antipensiero – del meticcio italiano Pasolini – che è antirazza, in rapporto ai testi libertini di Sade (in questo caso Le 120 giornate di Sodoma), che è antipensiero, così come il meticciato è antirazza. Ciò a cui questa differenza deve condurre è l’approssimazione all’arte degenerata, che è ciò che compete l’arte del meticciato quanto l’arte della razza bianca è ciò che è stata inquinata dal meticciato, infatti il meticcio non è pericoloso per ciò che fa, ma per ciò che è, per questo il meticcio è sempre ciò a cui deve essere tolta la vita e da qui la necessità di togliere la vita a tutte le forme di meticciato.

Per cui riconoscere il meticcio è la cosa fondamentale – dovunque il meticcio lo si possa identificare – ma togliere la vita al meticcio è la cosa giusta e appunto qui sta la questione dell’omicidio, cioè su cui l’omicidio così inteso deve essere fatto oggetto di riflessione.

2. Sade letto da Shalmani

Francesi, ancora uno sforzo → Lettori, ancora ancora uno sforzo

Così la questione a questo punto sembra essere: dove arrestare lo sforzo, che ha portato a Sade? È certo che l’ateismo di Sade, cioè l’ateismo realizzato, sarà la fine dell’umanesimo così come noi lo abbiamo conosciuto (cioè come si era pensato di riconoscerlo nella filosofia di tranvia di Feuerbach e di Marx), posto che la fine dell’umanesimo non debba portare all’antiumano – con buona pace di Klossowski & Heidegger (Martin) peraltro? così la questione sembra piuttosto essere: che cosa si intende per “umano”, da qui l’importanza dei nietzscheani di sinistra, che pure non sembrano entrare nel libro qui in questione.

Leggere Sade a Teheran come in altre parti del mondo è venire in contatto con l’omicidio, per cui è lecito porre la domanda: che cosa si fa quando si commette un omicidio?

Già il meticcio russo Dostoevskij aveva impostato la domanda.

{Abbiamo la possibilità di scelta in quanto differenza fra la lettura di Sade di Shalmani e la lettura di Sade di Pasolini; e abbiamo la possibilità di scelta offerta dal romanzo poliziesco, con le sue tante sottigliezze psicologiche.}

La differenza tra la lettura di Shalmani e quella di Pasolini dello stesso romanzo rimanda alla differenza di razza, richiamata direttamente tanto dall’autrice quanto dall’autore.

C’è però da dire che, da qui in poi (cioè dai capitoli 30-31 del libro), il libro di Shalmani cambia: dopo non viene più considerato Sade, almeno intendendo Sade come ciò che determina l’oltrepassamento di un limite.

Tutti noi sappiamo certe cose: il finocchietto (e meticcio italiano) Pasolini è il punto di arrivo del meticciato, che deve scomparire; lungi da me argomentare che gli italiani siano la spazzatura che deve essere eliminata in base a un disegno non contemplato da una autorità statale, la cui comparsa nel tempo è tanto più certa quanto sempre più lontana – affinché la razza sia ciò che possa condurre alla purezza della razza; quando io dico “Dio stramaledica l’Italia”, indico, con questa semplice frase di benvenuto, il nuovo dio, che ancora deve venire, ma che dice ciò che deve essere fatto.

Che cosa si intende invece per “pensare attraverso la razza”? Lo vediamo dal modo di pensare di AS, di razza bianca persiana; e dall’antipensiero del meticcio italiano Pasolini (antirazza, meticcio italiano per caso), nel film lì desunto dal meticcio italiano Pasolini appunto dal romanzo di Sade, se lo paragoniamo al romanzo della persiana Shalmani.

Sia chiaro: l’islamismo è ciò che il meticciato si merita. Solo la razza bianca può opporsi alla espansione dell’islamismo, ma solo se questa opposizione pone il pensiero di ciò che è la razza, che è pensare di nuovo il pensiero della razza. È in grado, adesso, la razza bianca, di opporsi all’islamismo? superare il cristianesimo e l’islamismo non è possibile senza commettere l’omicidio, che è ciò che presenta Sade nei suoi testi libertini, come passo inevitabile, che per noi suona come: togliere la vita al semita; il cristianesimo e l’islamismo sono la cosa adatta a imbrigliare degenerati e meticci, che il meticciato ha contribuito a fare allignare in mezzo alla razza bianca, ma la razza bianca non ha niente a che fare con queste degenerazioni del pensiero e deve scacciarle da sé rimuovendo l’origine della degenerazione, cioè il meticciato.

Infatti il meticciato non è colpevole per ciò che fa, ma per ciò che è – qui sta il cuore della questione. Cioè ciò che permette il genocidio: se rispettiamo la regola di “ciò che fa” siamo nell’ottica malata dell’omicidio; se entriamo nell’ottica di “ciò che è”, entriamo nell’ottica sana del Genocidio.

“Liberazione del sesso → Omicidio” è il Reich che, per quanto inaspettato, non può che non accogliere il nuovo pensiero che viene, strampalato, incontro a noi?

Ogni giudizio è pronunciato a partire dal momento in cui si oltrepassa la certa soglia ristretta. AS non oltrepassa quella soglia, per quanto le premesse dell’oltrepassamento ci fossero tutte, lì, alla grande da parte sua, e questo è il limite del suo libro.

Quello che AS definisce lungo tutto questo libro “i barbuti e le cornacchie” è in realtà l’oggetto della questione, cioè la questione della razza, che è l’antirazza che ha invaso tanto l’Iran quanto l’Europa, cioè la terra della razza bianca, che è ciò che non è la razza bianca, cioè l’antipensiero semita dell’antirazza semita, cioè la razza semita, che è ciò che non ha diritto di vivere, essendo vita indegna di vivere. L’omicidio conseguente alla accettazione della filosofia di Sade deve essere l’omicidio della razza che ha portato nel mondo il cristianesimo e poi l’islamismo, cioè l’omicidio della razza semita, che è quello che si ricava dal pamphlet Francesi, ancora uno sforzo. Per il resto, l’arabo femmina non ha nulla a che fare con la donna. Siamo pronti all’omicidio della razza, cioè al Genocidio, che è ciò che riguarda la cosa che è vita in quanto solo vita indegna di vivere?

L’ateismo realizzato, cioè la fine del cristianesimo, comporterà la sovrapposizione quantistica dell’umanesimo con la sua fine, cioè la permanenza del concetto di essere umano con la fine del concetto di essere umano in quanto immagine presente nel cervello – che è quanto comporterà l’omicidio, che non sarà più l’omicidio così come noi lo conosciamo, ma la cosa che più spaventa la modernità: il genocidio.

Il genocidio sarà l’omicidio che non uccide il pidocchio inutile, ma che annulla la massa che è sempre stata solo cosa vivente; e questo potrà comparire solo quando si capirà che l’ateismo realizzato (cioè il superamento del cristianesimo) sarà il pensiero che separerà l’essere vivente dalla cosa vivente.

Dobbiamo ancora pensare l’Occidente come terra della razza bianca. Sono sicuro sia giusto che l’Italia muoia. Qual è il limite tra l’umano e il disumano, si può dunque domandare? Che cosa è, questo bastardo di italiano, che – ospite mai gradito – approdato è, infine, tutto spavaldo, sulle coste d’Europa, sì, col suo barchino di merda, col suo Dante di merda, col suo Boccaccio di merda, col suo d’Annunzio di merda, col suo Pasolini di merda, col suo Calvino di merda, sul suo barchino di merda? quale tipo di cosa è, questo italiano di merda? vita indegna di vivere, dico io; cosa alla quale, o prima o poi bisogna togliere via quella biscia tremolante di vita tutta sua che lo rende, focofatwamente molesto quanto pericoloso nello scintillio suo davanti al cammino d’Europa riservato. Rimane, da parte mia, l’insistenza della domanda scomoda: che cosa è questo bastardo di italiano? da dove spunta, ad un certo punto, questo bastardo di italiano in Europa, che è la terra della razza bianca, dio porco?

Abnousse Shalmani, Khomeini, de Sade e io (2014), traduzione di Vittoria Ronchey e Andrea Zucchetti, Rizzoli 2014

D.A.F. de Sade, La filosofia nel boudoir (1795), traduzione di Patrizia Valduga, Einaudi 2024

Tolkien anticristiano

Alessandro Dal Lago: «Con questo romanzo [J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli], la vittoria del bene è conquistata al prezzo di una gigantesca regressione letteraria; come se tutto quello che è stato scritto dalla metà dell’Ottocento in poi non avesse più alcun significato; né Dickens, né Flaubert, né Tolstoj, né Proust, né Joyce, né Kafka e nemmeno Eliot o Pound – per non parlare di Freud o delle avanguardie letterarie.» (ADL, p. 248).

Questo comporta il doppio impegno imposto a noi come parte che legge: impegno come domanda che ci viene portata da Nietzsche (“Perché il bene e non il male?”); impegno come riflessione (“C’è la presenza di un Tolkien anticristiano, presenza che può essere seguita lungo i testi di Tolkien, che può portare a pensare un mondo possibile ‘oltre il cristianesimo’, che è ciò che è appunto ciò che noi non possiamo ancora pensare”), vale a dire: che cosa si può nascondere nel sottomondo letterario di J.R.R. Tolkien – quando l’arte di leggere chiama l’arte di scrivere?

Come uscirne?

È la terra a parlare attraverso i suoi scrittori, come vediamo da quanto Nietzsche ha scritto in merito allo sconcio ligure panorama, in quanto illusione di veduta, che pur ben tanto io conosco appena appunto da scorcio lercio mio, dico visione di teatro, contraffazione che viene da lontano, che meno che mai mi è di casa, fase usurpata di hliðskjálf: nella lettera 727 Nietzsche definisce la Riviera di Ponente della Liguria «l’unico angolo africano d’Europa» (FN, p. 225), dove vorrebbe attirarvi Heinrich Köselitz, maliziosamente, per osservarne gli effetti che questo potrebbe comportare sulla musica di lui: «Oramai mi pesa sulla coscienza il fatto di averlo attirato lì: mi sta moltissimo a cuore sperimentare che cosa ne sarà di un musicista tedesco nell’unico angolo africano d’Europa, dopo che si è dimostrato lo straordinario successo di Venezia (e del suo umido Oriente). – » (FN, pp. 225-26). Notare come alla musica tedesca, in questa visione di Nietzsche, si contrapponga insieme Africa ed Oriente, che nulla ha a che fare con l’Europa. Nietzsche richiama anche la descrizione fatta da Daudet dello stesso paesaggio nel suo romanzo Il Nababbo (FN, p. 226, il possibile brano è riportato nella nota alle pp. 1055-56, dove l’ingresso a Bordighera è accompagnato dalla descrizione di un esemplare in tutto nordafricano e di un tipo autoctono ma del tutto simile ad un nordafricano, che lì si conosce bene). Notare: gli Italiani, e qui si parla di Italiani del Nord Italia, sono paragonati ad africani, sia per il paesaggio contro il quale quelle cose manifestano la loro lurida, ingombrante presenza nel mondo, sia per il tipo fisico e il comportamento, che li qualifica come meticciato – a tutti gli effetti. L’impressione “africana” in questo scorcio d’Italia, da parte di Nietzsche, non è isolata: «Durante il viaggio verso Nizza ho avuto la netta sensazione e ho visto chiaramente che dopo Alassio c’è qualcosa di nuovo nell’aria, nella luce e nel colore: intendo dire di africano. L’espressione è assolutamente calzante: ho raccolto i giudizi di eccellenti conoscitori dell’Africa.» (FN, p. 279). Portofino, che giace nella triste riviera Ligure di levante, è invece contrapposto all’area africana nella lettera 757. Ma Nietzsche non poteva immaginare la marcia lesta marcia dell’africano migrante da più fronti in Europa: per cui solo noi, ora, possiamo dire che un italiano è l’aspetto più disgustoso del meticciato, una delle cose viventi pronte a schierarsi dalla parte del meticciato, quando sarà l’ora, cioè sempre contro la razza bianca nella battaglia a venire, battaglia che sarà la battaglia che vedrà contrapposte la razza bianca e l’antirazza.

Tolkien anticristiano

Quando, nel Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, Frodo entra nella Sala del Fuoco di Elrond viene salutato come “il Signore dell’Anello” da Pippin, che subito viene zittito da Gandalf, perché, come Gandalf precisa, “il Signore dell’Anello non è Frodo”: «“Urrà!” gridò Pippin, balzando in piedi. “Ecco il nostro nobile cugino! Fate largo a Frodo, Signore dell’Anello!” | “Ssst!” disse Gandalf dall’ombra in fondo al portico. “Le cose malvagie non entrano in questa valle; ma non per questo è il caso di nominarle. Il Signore dell’Anello non è Frodo ma il padrone della Torre Oscura di Mordor, il cui potere va di nuovo diffondendosi sul mondo. Noi siamo in una fortezza. Fuori abbuia.”» (JRRT, p. 267).

“Signore degli anelli” era solo una kenning usata nella poesia composta in antico nordico per indicare chi era in grado di riunire intorno a sé una banda di guerrieri per compiere incursioni e depredare ricchezze. Il bottino ottenuto da quelle incursioni veniva poi diviso dal capo di quella schiera, cioè sa quel “signore degli anelli”, tra quanti avevano compiuto l’incursione, cioè tra i suoi guerrieri, per cui si potevano avere signori degli anelli che ricompensavano con grande prodigalità i guerrieri al loro seguito, quanto signori degli anelli che non intendevano spartire molto del bottino così ottenuto. Un’intera epoca si poteva identificare con queste bande di guerrieri che si raccoglievano intorno ad un Capo, facendo affidamento su una ricompensa; mentre una nuova epoca poteva mettere al bando tutta questa ideologia basata sul Capo e la Schiera: che è quello che Tolkien ha fatto intitolando, fraudolentemente, il suo romanzo Il Signore degli Anelli, passando dal tempo in cui molti signori degli anelli erano possibili, munifici oppure no, ad un solo signore, che allora poteva essere solo il Signore degli Anelli, cioè il rappresentante del male assoluto.

D’altro canto, la precisazione di Gandalf indica la cosa più importante: Frodo non è il Signore dell’Anello perché, in questo caso, non c’è un bottino da dividere, perché, come si vedrà esaurientemente nel capitolo successivo, Il Consiglio di Elrond, il bottino ottenuto, cioè l’Anello, è proprio ciò che deve essere distrutto, anziché diviso tra i diversi partecipanti all’impresa che hanno permesso di portarlo a casa, che è appunto ciò che nello Hobbit aveva il nome di Ultima Casa Accogliente. La mancanza è ciò che riempe ciò di cui si parla come ciò di cui non si parla mai abbastanza.

L’insieme {Frodo e “il Signore degli Anelli Sauron/Óðinn”} comprende allora i due poli opposti di questa ideologia. Ruth Noel ha precisato come Sauron usasse le stesse armi di Óðinn per bloccare le schiere avversarie con la paura, vale a dire come Sauron fosse una ripresentazione letteraria di Óðinn (RSN, p. 145). «Non v’è dubbio che l’analogia tra Sauron e Odino è voluta da Tolkien. Quando menziona Odino nel suo saggio Sulle fiabe Tolkien lo chiama “il Negromante”, come Sauron, e allude a lui come il Signore del Massacro, titolo parallelo a quello di “Signore degli Anelli”.» (p. 145). Sauron è modellato su Óðinn: ha la capacità di terrorizzare gli eserciti nemici gettando lo scompiglio tra le schiere, è un grande mago e agisce da lontano, non entrando mai di persona nel campo di battaglia, è rappresentato come Occhio, così come Óðinn ha un occhio solo; il fatto che sia un Occhio di Fuoco lo collega al sole; gli dèi pagani avevano un aspetto ambiguo, ben evidente in Óðinn. Sauron è senz’altro l’unico grande personaggio pensato da Tolkien in tutta la sua opera, perché è ciò che lo collega a Tolkien in quanto Tolkien anticristiano. [Dumézil]

Tuttavia Sauron presenta un tema molto diffuso nei racconti popolari: la separazione dell’anima dal corpo e la messa al sicuro in un luogo difficile da trovare: che qui è l’Unico Anello.

Bisogna riconoscere che, per quanto Tolkien fosse un fervente cattolico, sono presenti nella sua opera dispiegata un richiamo allo Gnosticismo, almeno secondo due ali pienamente dispiegate lungo la sua opera: la presenza di un Demiurgo nell’opera della creazione divina, la quale comporta la successiva presenza di tre tipi di esseri viventi nel mondo.

L’opera della creazione è presentata da Tolkien nel Silmarillion come intervento di un Demiurgo nell’opera ufficiale della Creazione, che ha la forma di musica monodica, mentre il Demiurgo comporta l’intervento della polifonia nella musica sacra. L’intervento di un Demiurgo comporta la presenza di una terra celeste e materiale con la presenza di tre tipi di esseri viventi: un tipo che contiene la divinità, un tipo che possiede la facoltà di scegliere tra il bene ed il male, un tipo che è soltanto immagine della divinità, e che è condannata alla estinzione. Questo richiama le tre forme pensate da Tolkien: Elfi, Uomini, Orchi, che a sua volta richiama le tre forme indicate dai Valentiniani: Spirituali, Psichici, Ilici; per cui gli Spirituali erano parte della divinità e destinati per nascita alla salvazione; gli Psichici potevano scegliere tra il Bene e il Male, essendo essi dotati della facoltà del libero arbitrio, per cui solo una parte aveva accesso alla salvazione; gli ilici erano solo materia modellata in una certa forma, per rispecchiare l’immagine divina che non possedevano, per cui dovevano essere soltanto distrutti.

È importante ciò che sostiene Ted Sabbiaiolo nel locale Drago Verde di Acquariva: «Certo che di questi tempi se ne sentono di cose strane,” disse Sam. | “Se ne sentono eccome,” disse Ted. “Basta ascoltare. Ma le fiabe e le storielle per bambini posso sentirle a casa, se ne ho voglia.”» (TSDA, p. 63). In realtà le fiabe contengono una verità che urta i luoghi comuni che comporta la terra, così come il realismo mantiene invece in vita con tenacia ciò che non ha nulla a che fare con la terra in quanto terra da abitare. Il fatto che i draghi non compaiano nel Signore, sembra confermare in tutto l’affermazione di Ted Sabbiaiolo: «“C’è un solo Drago ad Acquariva ed è Verde,” disse, provocando una risata generale.» (TSDA, p. 64), vediamo che i draghi esistevano ancora nello Hobbit e, ancora prima, nel Silmarillion, ma non più nel Signore, come ha notato Ruth S. Noel, indicando, nel Signore degli Anelli, una diversa impostazione etica da parte di Tolkien rispetto al romanzo Lo hobbit. Quello che è certo è che Tolkien ha rivisto tutto quanto da lui scritto fino al momento di scrivere Il Signore, per cui questo è proprio ciò che azzoppa Il Signore degli Anelli.

Per una serie di motivi, è accaduto che Tolkien fosse letto in Italia in un primo tempo, molto altezzosamente, da destra, e in secondo tempo, altrettanto altezzosamente, ma questa volta da sinistra, e questo giustamente – giustamente, dico, perché l’Italia rappresenta l’aspetto più disgustoso del meticciato, da qualunque parte la sua cosiddetta “letteratura” possa infine muoversi. Questa è la cosa importante che deve essere pensata, nel momento in cui si pensa il passaggio di Tolkien da quanto scritto e non pubblicato da lui in vita, dal romanzo Lo hobbit e infine il romanzo Il Signore degli Anelli – cioè il passaggio, o falso tale, dal mito al romanzo. Dico che questo scontro, che ha contraddistinto l’Italia in quell’epoca, ha evidenziato ciò che è l’Italia: quell’ammasso bastardo che si raggruppa intorno allo slogan: “Pace e fica!”.

Oltre il Cristianesimo

La quadrilogia western di Larry McMurtry presenta uno strano comportamento da parte dei suoi rudi & spogli personaggi di cowboy & ranger, quando appena si trovano davanti la carcassa di un meticcio indiano (nativo americano), che fino a quel momento avevano combattuto e cercato di uccidere in ogni modo: prendono la pala e danno sepoltura a ciò che rimane di quella carcassa, così come avviene per ogni “corpo” (corpo di colono di razza bianca, carcassa di colono meticcio, carcassa di nativo americano) da essi trovato privo di sepoltura. La distanza tra razza bianca e meticciato è, in questa letteratura, che giustamente si basa su pretese storiche, come si vede, del tutto irrilevante, se non cancellata – insidiosamente, si può dire al di là della storia. Non così in Tolkien, dove al termine delle battaglie, gli elfi danno sepoltura a quanti sono caduti dalla loro parte, ma riuniscono le carcasse degli orchi in una catasta a cui appiccano il fuoco, come spazzatura di cui sbarazzarsi. In questo Tolkien è grande come scrittore, perché la grandezza di Tolkien come scrittore è in ciò che si può definire come “Tolkien anticristiano”.

Vediamo in questo una potente testimonianza del Tolkien anticristiano: se per i personaggi di Larry McMurtry il dato fondamentale è il fatto di essere tutti, misteriosamente, figli di uno stesso Dio che al momento della morte di ogni sua creatura deve essere riconosciuto, questo non vale per Tolkien, dove, almeno per la sua subcreazione, gli Orchi non sono stati creati dalla stessa mente divina che ha creato gli altri esseri viventi, ma da una intromissione nel progetto divino, che ha fatto niente più che un dispetto alla divinità.

Nel momento in cui, nell’opera di Tolkien, il mondo viene dotato di forma, e quindi di mitologia, è come se si stabilisse la differenza tra chi ha diritto di abitare il mondo e chi invece deve essere privato di questo diritto, cioè soppresso. (Qui va bene.) Due citazioni che devono essere collegate: gli Orchi sono le forme viventi che, nell’opera di Tolkien, non hanno diritto di abitare la terra, cioè le forme che devono essere soppresse, in quanto vita indegna di vivere: ricordare come, secondo Tolkien, gli orchi sono stati ottenuti: «Gli orchi sono degenerazioni della forma umana degli elfi e degli uomini. Sono (o erano) tozzi, larghi, con il naso piatto, la pelle giallastra e bocche larghe e occhi obliqui: una versione in brutto dei tipi mongoli meno gradevoli a vedersi (per gli Europei).» (TRIT, p. 309); quando giunge il momento in cui nella Terra di Mezzo compaiono gli Elfi, Melkor ne è subito al corrente e fa in modo di irretirli: ne rende alcuni schiavi e, dopo vari tentativi, crea da lì la razza degli Orchi: «Fu forse questa l’azione più abietta di Melkor, e la più odiosa a Ilúvatar.» (TIS, p. 55), sullo stesso tema viene poi detto: «[…] gli sconci Orchi che sono contraffazioni dei figli di Ilúvatar» (TIS, p. 326); la pura contraffazione della forma divina è ciò che lo gnosticismo riconosceva nella forma degli esseri ilici, che costituivano solo l’immagine vuota, cioè ciò che è destinato soltanto alla soppressione.

Tolkien cristiano/anticristiano ha creato la letteratura che viene ancora ritenuta fiabesca in quanto consolatoria, ma che non viene indagata a fondo nella sua generosa ambiguità, per cui vediamo un Tolkien delle Hobbiton costruite qua e là nei villaggi turistici e nei set abbandonati e nelle Associazioni di cui ha già parlato Alessandro Dal Lago, così come c’è un Dark Tolkien (Tolkien anticristiano) che è l’aspetto importante di Tolkien, quello sommerso, la piccola punta capovolta della montagna di ghiaccio, tanto interessante quanto pericolosa da esplorare, che è ciò con cui la letteratura ufficiale non vuole avere meno che mai a che fare, fidandosi del Tolkien cristiano, mentre è ciò che dovrebbe essere condotto ad essere pensato, perché l’aspetto di Tolkien anticristiano è ciò che supera quello che Dal Lago considerava come la regressiva vittoria, da parte di Tolkien, su tutte le avanguardie letterarie, per cui Tolkien è la rete che deve essere affrontata giù nelle profondità, mai in superficie.

Perché, chiedi tu, il bastardo italiano merita di essere colpito alle spalle, dopo averlo fatto strisciare come un verme (ormr)?

Ogni operazione di scrivere, si tratti di romanzi o di serie televisive, parte sempre dal principio: “Scrivere la frase dopo”, che comporta allora la scelta: “Come si ottiene la frase dopo?” per cui la frase dopo è il principio che permette di distinguere tra romanzo e serie televisive, così come, tempo prima, era ciò che permetteva di distinguere tra mito e romanzo – che è ciò che ricordava Alessandro Dal Lago. (Dico, io, a questo punto: ricordi le carcasse dei trecentotrentacinque italiani di merda fatti fuori, uno dopo l’altro, nelle Fosse Ardeatine? Dove sono andati?, chiedo io a questo punto, quei bastardi di italiani?)

Il fatto è che, approfondendo la questione Tolkien/McMurtry, vediamo che Tolkien è ciò che riesce ad andare oltre il cristianesimo, a differenza di McMurtry, che invece rimane prigioniero di quella visione, cioè di quella visione che è la visione storica: infatti la discriminante è la storia, che in McMurtry impone la presenza di personaggi storicamente limitati nel modo di pensare; mentre Tolkien ha avuto modo di liberarsi dalla “storia” con la sua teoria del mondo secondario creato liberamente dall’artista/scrittore. Come si evince dal libro di Alessandro Dal Lago, Tolkien ha creato il genere fantasy, ma il fantasy ha importanza se trova il modo di dire quello che la storia avrebbe invece impedito di dire, e quindi, in quanto libro, non avrebbe potuto dire. Nel fantasy il personaggio è il personaggio cristiano, mentre in Tolkien il personaggio è, nel migliore dei casi, ciò che indica oltre il cristianesimo, nel modo che difficilmente la letteratura può fare – questo grazie al gioco che Tolkien ha sempre riconosciuto al suo modo di scrivere.

Il personaggio in quanto nodo così inteso è allora quel nodo intertestuale che chiama la sacralità della terra in ciò che è chiamato a distinguere tra ciò che abita la terra in quanto ciò che si contrappone a quanto solo occupa la terra, oppure solo scorre la terra, animali o, in modo più inquietante, a ciò che è essere vivente contro ciò che è cosa vivente; così come la letteratura di fiaba di Tolkien si contrappone alla letteratura realistica di McMurtry – nel momento in cui la letteratura fiabesca di Tolkien può impostare la differenza tra Elfi ed Umani nei confronti degli Orchi; mentre, per la letteratura realistica di McMurtry, coloni di razza bianca, coloni meticci e nativi americani, sono soltanto manifestazioni dello stesso Dio che, sulla superficie della terra, hanno occupato campi diversi di battaglia – che è la superficie dove passa la differænza tra la letteratura come abbandono al gioco del bambino e la letteratura come superamento del gioco del bambino, questo perché non c’è un pensiero di razza – almeno una volta che si hanno le idee chiare su ciò che deve essere letteratura: ciò che tiene avvinghiata l’attenzione a un testo che si legge, o ciò che lancia l’attenzione oltre pensiero possibile stando a ciò che ha permesso a quel testo di formarsi? Ogni discorso sulla letteratura deve portare a interrogarsi sul personaggio, cioè su ciò che ha portato a credere nel personaggio, dopo che si è creduto in ciò cui si è dato nome “uomo”. – per cui, o la letteratura sarà il ponte più breve verso un pericolo che possiamo solo intravedere, o non sarà affatto.

Che cosa è, in Tolkien, il personaggio? In Tolkien il personaggio è ciò che prende forma in un periodo preciso della Creazione, perché Forma e Creazione sono strettamente lì collegati; la tanto notata sessuofobia o misoginia di Tolkien ha qui la propria origine: il personaggio non nasce dalla generazione comune, ma per un fatto temporale, legato appunto alla Creazione.

Il gioco del bambino. Il gioco del mondo. Il gioco delle perle di vetro. La letteratura come menzogna

Di che cosa parliamo quando parliamo di ciò che amiamo leggere – cioè quando parliamo di letteratura? da qui la questione della degenerazione nella letteratura, che è importante nell’arte di Tolkien come autore fondamentalmente cristiano, ma questione che può essere interpretata in quanto “Tolkien anticristiano”, perché ciò che qui si chiama “Tolkien anticristiano” è ciò che, per altra via, può essere definita come “pensare per razze”.

Faccio un esempio: vediamo che Gollum è importante nel piano della Creazione – pensato da Tolkien, come più volte indica Gandalf – perché Gollum è ciò che permette la distruzione dell’Anello, che il suo Portatore non avrebbe mai potuto effettuare, ma proprio qui fa capolino il cristianesimo di Tolkien, che vede l’importanza della creatura più disgustosa fra tutte nel piano più alto della creazione, creatura fra tutte più disgustosa che deve essere lasciata in vita anziché soppressa perché solo quella cosa, cioè la cosa più disgustosa tra tutte, può compiere ciò che l’essere investito del compito più alto tra tutti non può compiere (questo perché la creazione divina comporta l’esistenza dell’essere più disgustoso tra tutti, cioè l’esistenza di Gollum – ma, soprattutto, del principio della degenerazione, appunto perché il cristianesimo è sopravvivenza di ciò che è vita indegna di vivere), per cui l’essere più disgustoso e umile tra tutti è più Giuda che Cristo, secondo il pensiero di Nils Runeberg, appena immaginato nel racconto di Borges: distruggere l’Anello, ma questo è proprio ciò che annulla ciò che si era presentato come la cosa tra tutte la più estranea a livello di vita indegna di vivere: Tolkien anticristiano e Tolkien cristiano si richiamano all’infinito in un accoppiamento di simboli tesi tanto verso sinistra quanto verso destra, che richiama, comunque, quello che per noi deve essere l’accostamento, più che la scelta, cioè la formula distruttiva, più che l’offerta di conciliazione, per cui dovremmo avere qualcosa di questo tipo, posto che gli italiani, scarafaggi africani per provenienza; gli italiani, scarafaggi africani per nascita; gli italiani, scarafaggi africani per destinazione; gli italiani, scarafaggi africani per mia definizione; gli italiani, scarafaggi africani per scelta loro, accettassero di ritornare in sconcio loro loco di provenienza: la bieca Africa, che comunque per noi non andrebbe bene mai, perché vorremmo inseguirli fino a privarli – gli italiani, scarafaggi africani – di qualsiasi forma di vita, ma che per alcuni potrebbe essere fonte di un sano umorismo – almeno mi auguro, e io sarei anche pure tra quei pochi quelli, perfino qualcosa beffardo come la formula di questo tipo:

 

 

[    L’Europa alla Razza Bianca d’Europa    ]

 

 

 

TSDA – J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, traduzione di Ottavio Fatica, Giunti/Bompiani, Firenze-Milano 2023

TRIT – J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien, traduzione di Cristina De Grandis, Bompiani, Milano 2001

TIS – J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, a cura di Christopher Tolkien, traduzione di Francesco Saba Sardi, Rusconi, Milano 1986

FN – Friedrich Nietzsche, Epistolario 5. 1885-1889, versione di Vivetta Vivarelli, Adelphi, Milano 2011

ADL – Alessandro Dal Lago, Eroi e mostri. Il fantasy come macchina mitologica, il Mulino, Bologna 2017

RSN – Ruth S. Noel, Mitologia di Tolkien (1977), traduzione di Pier Francesco Paolini, Rusconi, Milano 1984

Alice Guerra, “Dieci cose che ho imparato da Jessica Fletcher”

La frase è ciò che chi è chiamato a scrivere compone per indicare come le cose del mondo siano chiamate, in quel dato momento in cui si scrive, a determinare come le cose del mondo stiano insieme: «Voi lo sapete che esiste una teoria secondo la quale alla fine dei conti l’assassina di tutti gli omicidi che Jessica [Fletcher] si trova a risolvere in realtà è proprio lei? Effettivamente, dove va lei muore sempre qualcuno: o è un uccellaccio del malaugurio, oppure forse è proprio lei che uccide tutti e poi imbastisce delle storie per incastrare dei poveri malcapitati.» (p. 153); come a dire: le due possibilità hanno pondo stesso lungo storia (-la) – se penso (io) a ciò che riguarda “imbastire delle storie”, oppure essere “un uccellaccio del malaugurio”, perché questo è ciò che chiama tanto chi scrive quanto chi legge alla collina della legge, se mai qui può esserci cosa come quella là, – ma questo non ci deve allontanare dalla questione, che è ciò che tocca la fine della narrazione, che è appunto quello che incastra i tanti malcapitati giunti da prima, cioè chi ha avuto il compito di narrare, quanto ai tanti cui è capitato il compito di leggere, cioè chi si è infiltrato dopo, avendo avuto solo compito di ascoltare – infatti, ciò che il libro deve incastrare non è altro che chi legge, dico “chi legge” quale ingarbugliato punto che può essere precipitato solo come spunto, appunto perché l’arte di scrivere chiama l’arte di leggere – cosa che non ha nulla a che vedere con quanto da Brecht (Bertoldo, tutte ormai olive acide sue) borbottato appena a tempo di quello che su gambette storte sue reggevasi appena, ma ci troviamo in epoca in cui solo non l’Autore, ma anche il Lettore è stato bello rinvenuto stecchito sbiancato morto come in episodio di JBF (la Serie = La Signora in Giallo), e qualcosa come l’entità Jessica Fletcher, come nel romanzetto che vede Jory folle alto sprillare da fumetto di un appena cazzettin bello bello Jory lo Qualunque, Costa Ovest, sembra avere fatto fuori tutti, appunto per incastrare chi già era stato segnalato come bello stecchito nel suo mondo piano pianino per lui preparato – questo perché il libro non ha niente a che fare con chi è chiamato a leggere, sono appunto due cose del tutto (per quanto l’arte di leggere chiama l’arte di scrivere). Nei fatti ciò che si mette a nudo è il meticciato, che nelle città d’Europa equivale all’Islām tratto via a culo nudo di forza. Gli scrittori sono sempre riducibili ad una forma, Simenon ha inventato un modo tutto ovattato di scrivere, che è ciò che comporta l’atmosfera tanto ricordata da Sciascia come metodo di indagine del commissario Maigret, che però è ciò che, nelle città d’Occidente, pone l’Islām a sfacciato culo nudo in faccia – che per Simenon è il mondo ovattato della nebbia come atmosfera. Questo quando, appunto, punto dopo punto per assai comodo vicolo di ricircolazione porta ci porta spalla a sporta fine di teoria de la narrazione, ancora riproposta di recente da Byung-chul Han via Benjamin (Walter) – che sembra giungere a noi a lo istesso paradosso riguardo a quanto guarda il detto di un istretto narratore di Benjamin suddetto, cazzi tutti belli bardi suoi hai qui tanto caro a stecca: chi narra fa sempre violenza a ciò che narra, come dimostra Emmanuel Carrère nel saggio suo, sostengo, dall’omicida testo di titolo ristretto costretto a testa: Ucronia. Ogni racconto che salta giallo grillo gallo grullo su collo di chissà chi deve fare in modo di scrivere il giallo grillo gallo grullo in cui l’assassino è chi legge di tutto punto di suo mai noto – cioè del tutto ignaro di quello che si è posto appena a leggere, di ciò che sta facendo (partiam da qui, se ti va) – ma perché, ad un certo punto, tanto vorrei sapere, a quel bastardo di italiano è sprizzata tutta l’autodistruttiva voglia di leggere, a scapito suo, che porta al gioco del mondo? Infatti: che ci fa, questo bastardo di italiano, in Europa? È quello l’assassino pampano (rayuela d’opra manca), cioè ciò di cui il testo parla, ma non mette in inciampo suo alcunché di alcuno. Cazzo, lo avete tutto ciullo lì, no, ove lo sentite? Ma ciò che si oppone alla narrazione è ciò che comprende le serie televisive ed il cinema, che pure tanto pesantemente derivano da quel del teatro, dico male? Il problema di tutte le cose del mondo da descrivere è quello che ha dato origine al romanzo, men che mai ginger giallo, titolo: Infinite Jest, dipendente dalla narrativa postmoderna fin che vuoi in un picciol mio di generino bello in pelle: ogni enciclopedia parte sempre da un principio suo democratico, vale a dire dal giuoco dell’oca (orca porca); sì, però scrittore non è colui che usa le parole, ma che dalle parole compie il salto alla lingua di suo – di cima in cima in clima –, che fa allora, del tesoro, il tesoro della razza, che è ciò che lo scrittore porta di volta in volta a trafugar cosa picciola qualunque come la piccola coppa coppetta ciospa cignosa cosa di cui tratta il Beowulf. Cosa vuole, quel bastardo di italiano, in Europa? Tanto vale vedere la barcaccia tutta in un boccone da svendicchiare e poi (fine) far fagotto – presto adesso. Ti dico: erano cose che meritavano di fare quella là di fine – se identifichiamo un testo come cosa che, catturata, movesi dentro appena a sacco stretto, che strada si fa – allora la questione che il romanzo tutta deve sciogliere è: “a chi spetta il diritto di vivere?”, questa è la questione che riguarda ciò che il romanzo deve affrontare, da Lely a Chapoutot, passion passant selon Sade (mai ci crederai: vedo sempre più vicino quel bastardo di italiano, io), la poesia sulle rovine del castello, perché le rovine sono ciò che devono chiamare a la nova sora bat-ta-glia. Che è la battaglia della razza bianca contro il meticciato, che è ciò che riguarda l’abitare la terra, cioè la razza che ha diritto, alla fine, di abitare la terra. O il romanzo affronta la questione fondamentale della lingua, o favoletta che allora permane in ciò che riguarda parole e procedere solo tramite GPS in un ambiente di cui dea menoma idea alcuna esso ha – dico quindi bene alfine? Questo è ciò che porta la fine del romanzo, che non è ciò che comporta la scomparsa del romanzo a tutti effetti e cazzi duri pure tutti quanti suoi. Abbiamo infatti a che fare con marea di nuovo materiale: la marea del nuovo materiale di ciò che si oppone alla narrazione è la figura di ciò che traccia narrazione (la nuova). Chi è chiamato ad abitare la terra come razza che – allora – è la razza che abita la terra. La forma di narrazione di Dieci cose che ho imparato da Jessica Fletcher di Alice Guerra, che da tante cose pesca & intriga pur con punta di dialettale sprescia di matrioska anzichenò, fuorché dalla letteratura, mostra che c’è qualcosa di meglio della narrativa di Rachel Cusk, ed era ora di uscire da ’sta palude! salta ’sto romanzo due pietre d’inciampo, Rachel Cusk & Valerio Evangelisti (che peggiore è tra tutti). Gli elementi del romanzo ci sono tutti, ma, per fortuna, quello che si legge non è un romanzo. La serie televisiva La Signora in Giallo è una serie di racconti, a tutti effetti (gli), mentre Dieci cose è romanzo meno che mai, ma indica il modo fino ad allora fraudolentemente utilizzato da quella degenerazione del racconto che è il modo di procedere delle serie televisive o anche dei singoli bestseller. Il problema non sta nel personaggio della Signora in Giallo, ma nelle serie televisive, di cui anche quel personaggio parte fa sua bella quanto sonora clangolante tanto piccola propria parte; quindi non trame, ma configurazioni, che è ciò che costituisce la lingua italiana come “la lingua italiana” che è la cosa di cui qui si sta parlando, cioè l’alingua italiana. Se l’arte della narrazione è finita, bisogna pensare allora il nuovo modo di muoversi in ciò che ha costituito la fine de la narrazione. Ti rispondo: “Il meticcio italiano è la matassa Odradek che nessuno vuole trovarsi tra i piedi.” Che è ciò che ancora l’arte del bestseller dimostra di non avere chiaro ancora claro tutto quanto chiaro scracco di scarco gusto suo modo ora. Gli elementi del romanzo ci sono tutti, ma, per fortuna, quello che si legge non è un romanzo. Nella serie La Signora in Giallo tutto converge verso il personaggio di Jessica Fletcher, che deve risolvere il mistero. Richiamando, all’interno di un romanzo, quella stessa serie, due sono le possibilità: o ricostruire novella cosa che richiama ciò che non ha fatto altro che richiamare serie quella (dico -la “là”), oppure ricostruire novella cosa che non richiama più ciò che la serie imporrebbe di suo di richiamare allora (porre a richiamo), a livello di romanzo ma che indica novella cosa giusto come novella lingua. Il problema è l’arte della finzione. Rimane la funzione della chiacchiera, che darebbe vita ad un leggero “romanzo chiacchiera”, qui fortunosamente evitato – che può essere come piacere di una costruzione, o come punto in una serie in quanto costellazione di puri punti spunti spersi sparsi tutti quanti. Nel primo caso si arriva ad una parodia del romanzo, nel secondo dei casi ad una evocazione, anche ad un “giallo (più o meno)”, che sottintende *(quasi) romanzo, che poi può essere giallo oppure anche no, o anche (più o meno) altrimenti giallo, cioè, come indica il sottotitolo, (più o meno) romanzo. Il discorso sulle serie televisive merita un tipo diverso di romanzo, che può essere indicato come “romanzo”, indicato nel sottotitolo; così come il discorso sul romanzo che prende in esame le serie televisive merita un discorso diverso. Compito della letteratura è passare dalla parola alla lingua: come scherzo altro è che solo scherzo, così un bastardo di italiano è solo un bastardo di italiano, cioè nient’altro che scherzo uno nel mondo bruto, in cui c’è ancora quel bastardo italiano, lì – quella macchia che ti indico lì – in ciò che è la terra della razza, perché costituisce lo scherzo su cui si basa la macchia romanzo, la macchia che la forma, che ancora non conosciamo, deve cancellare; il rispetto delle parole porta alla lingua della maldicenza, che è ciò che porta a lo scherzo infinite di DFW, che è ciò che viene da lontano, così come a questa terra della sera giunta è da lontano ciò che richiama la forma, a noi, “teatro”, che è ciò che inquina il romanzo che ha condotto a le pedanti serie televisive che poi hanno inquinato il romanzo – ma questa, appunto, è tutta altra severa storia men che mai una; già, almeno finché il romanzo non prenderà la parola come genere in grado di dare parola (-la) a ciò che può dare la parola a ciò che si pone come ciò che può dare forma al mondo, quindi in quanto forma in grado di parlare de la razza, perché – sia chiaro – non ho niente contro gli italiani, però ciò che è italiano è ciò che che mi ha da sempre illuminato di schifo immenso, a partire da Dante (il primo islamista della storia), che sarà allora ciò che aprirà la porta alla lingua della razza, infatti leggere è ciò che porta, chi legge, dalle parole che conosce alla lingua che meno che mai conosce, – ma il meticciato è ciò che deve essere soppresso, proprio in quanto solo terra dove andare, cioè vita indegna di vivere, che è ciò che, per la modernità, è ciò che non vuole più vedere, per questo si stenta ad avere un romanzo della piena modernità – in cui questi bastardi di italiani devono prendersi il loro Dante di merda e il loro Boccaccio di merda e tornarsene in Africa, quando l’Africa è ciò che deve essere restituita a ciò che sta sotto l’acqua e mai parlarne più, come a sigla di tipo: “Chi mai era, quel bastardo di italiano?”.

Alice Guerra, Dieci cose che ho imparato da Jessica Fletcher. Un giallo (più o meno). Un mistero. Due indagini. Tre musi da can, Rizzoli, Milano 2024

Larry McMurtry, quadrilogia western

1. Discorso funebre sulla carcassa del nativo americano

Il nativo americano non abita la terra; piuttosto esso è la cosa che sfrutta il vuoto della terra per nascondervisi: «La terra di fronte a loro [dei ranger], che sembrava vuota, non lo era. Lì c’era un popolo che conosceva il vuoto meglio di lui [Augustus McCall]; lo conosceva anche meglio di Bigfoot e Shadrach [gli scout della compagnia]. Lo conosceva e lo rivendicava come suo. Era il popolo del vuoto.» (ICDM, p. 71). Queste cose viventi non sapevano di doversi nascondere fino all’arrivo dei coloni di razza bianca – cioè fino al momento in cui hanno dovuto affrontare esseri viventi, e non più cose viventi, come fino a quel momento avevano avuto a che fare –, quando nascondersi nel terriccio è diventato qualcosa di diverso dal nascondersi davanti a qualcosa che non conosce l’arte di nascondersi in quel terriccio, perché sono forme diverse di vita. Le battaglie in terra d’America avevano sempre riguardato battaglie di cose viventi contro altre cose viventi, nativi americani contro nativi americani, ma adesso le battaglie riguardano cose viventi, nativi americani contro esseri viventi, cioè razza bianca. Alla fine della sua vita, Buffalo Hump va a crepare nel vuoto della “terra”, consegnando la sua carcassa al terriccio che è sempre stato il suo ambiente naturale – terriccio, non terra. In quanto cosa vivente, una cosa vivente come un nativo americano non può chiedere niente più che un ambiente dove crescere e posare infine le ossa che avevano costituito la propria carcassa. Il meticcio Buffalo Hump consegna al vuoto del terriccio, che ha sempre occupato e mai abitato, quel vuoto che esso, in quanto cosa vivente, che era sempre stato in quanto cosa vivente, era sempre stato. In quel vuoto viene raggiunto dal figlio Blue Duck, cupa cosa cava scavata dal crocchio del croccante niente, lì giunta per ucciderlo e che infatti lo uccide, con un colpo gobbo scagliato sghembo di spalle di scatto: come crepa cosa vivente, come quella cosa che è il nativo americano? può cosa vivente crepare? crepa squallidamente, se per mano di un altro nativo americano, come vediamo crepare il meticcio indiano Buffalo Hump in questa occasione; può un meticcio, si può tornare a domandare, la cosa che non è mai nata, morire? vediamo come è crepato il meticcio Bufalo Gobbo, vediamo l’occasione di gloria negata per chi, di razza bianca, priva della vita un ammasso di cose viventi, come nel caso del “massacro di Wounded Knee”, perché togliere la vita ad un ammasso di meticci è sempre atto eroico – possiamo dire che l’arte di Larry McMurtry sfiora il tradimento della razza bianca? Qui è l’arte del racconto.

Solo la razza bianca pone la questione dell’abitare la terra, che è allora la questione dell’abitare la terra e avvia la riflessione che costituisce la riflessione filosofica circa l’abitare la terra, perché un negro, un meticcio, un nativo americano non abita la terra, ma occupa la terra, oppure scorre la terra, in qualità di migrante – questo è ciò che sarà dato a pensare quando gli umani riprenderanno a pensare diversamente dal tempo che impone loro di non pensare, che è questo tempo.

I nativi americani scompaiono, cessano di essere cose, classificate come cose viventi – semplicemente come il Proletario al centro del racconto Cuore di cane, ma può un nativo americano morire, indipendentemente dal modo in cui, nei film western, vediamo morire tanti perfetti nativi americani, pronti per essere abbattuti nella pronta inquadratura, inquadrati quando cadono scompostamente di colpo per terra non appena colpiti di un colpo da pallottole esplose con attenta noncuranza da qualcuno solo abbigliato diversamente, vale a dire: può mai morire, quella cosa che è solo cosa vivente, e non essere vivente? – quella cosa che è, ormai lo avrete capito, vita indegna di vivere?

Si può avanzare l’ipotesi della prosa pensante, che Heidegger ha sempre negato? Heidegger ha senz’altro sbagliato nel parlare della possibilità della poesia pensante, non concedendo attenzione alla prosa e ai saggi critici di Hölderlin. L’arte di Larry McMurtry è arte in grado di spacciare per arte qualsiasi cosa, anche la morte di un ladro laido nativo americano, deforme, violentatore, assassino, pluriomicida, giustamente ucciso con un colpo alle spalle di scatto dal proprio figlio, nato dallo stupro compiuto da quella cosa che era il meticcio indiano Buffalo Hump nei confronti di un messicano qualunque rapito e abusato (il meticcio messicano femmina di nome Rosa). È un’arte che non pone molti interrogativi, che, personalmente, mi ricorda l’arte mancante di Murakami Haruki e di J.K. Rowling.

La carcassa del grande capo South Dakota Bigfoot, che si può vedere scintillare distesa pallida appena entro la morsa stretta di neve e Internet, rivestita di opachi stracci e straccetti, sembra quella di uno zingaro qualunque, rivestito di stracci luridi, crepato dal freddo, appunto la carcassa di un migrante lungo la rotta balcanica, ma la voce di Johnny Cash, che ricorda quella carcassa, non ha nulla a che vedere con l’approssimazione ad una ballata qualunque come è quella cosa mal sonante, cosa piccola fatta fugacemente, da parte del meticcio italiano Fabrizio De Andrè, cosa fatta fugacemente, dico la canzoncina sua Fiume Sand Creek. Niente più che scarafaggi africani sono infatti gli italiani, o zingari africani – credo che il meticcio italiano Fabrizio De Andrè fosse ligure, o comunque di quelle luride parti d’Italia tanto altisonanti quanto assassine, non so bene (porco dio/me); ma il dio della razza bianca stramaledica sempre l’Italia tutta, fonte di tante parti varie e assassine tutte quante, zingari africani in fronte a zingari mongoli, solo vita indegna di vivere!

Ma il vero modo in cui possiamo conoscere i nativi d’America è quando miriamo la carcassa di un nativo americano. L’indiano, che non ha mai abitato la terra, e che in essa scompariva come vuoto da vuoto avvinto, appare adesso nella forma rattrappita di una cosa che non è più che cosa morta dopo essere stata cosa vivente, ma solo carcassa di un nativo americano. Questo è quello che si vede quando i quattro ranger e lo scout indiano Famous Shoes sono davanti alla carcassa della cosa che era stato Buffalo Hump, cioè il laido capo deforme Comanche – cosa violenta, subdola, spaccona, stupratrice, assassina, infida – adesso solo cosa inchiodata per sempre al terriccio di una lancia maneggiata con destrezza dal figlio meticcio, messo al mondo costringendo a violenza sessuale un messicano qualunque da poco prima rapito, Rosa di nome. Questo l’arte narrativa di Larry McMurtry lo dice – posto sempre che l’arte di scrivere chiami l’arte di leggere – cosa di cui dubito sempre di più. Comunque questi romanzi in quadrilogia di Larry McMurtry sono mille volte meglio dei film di Hollywood da ascrivere come Sottomissione. L’indiano è quella cosa vivente che sporca la terra, e la sua carcassa è quella cosa, non più vivente perché mai è stata tutt’altra cosa che cosa vivente, che continua a sporcare la terra. L’indiano è quella cosa che non ha mai abitato la terra, semmai è quella cosa che ha fatto parte della configurazione di un terriccio, come una pietra ha fatto parte della configurazione di un terreno. Per questo è giusto consegnare la carcassa del nativo americano Buffalo Hump al vuoto.

Vediamo quasi i ranger disposti a omaggiare la carcassa di quella turpe cosa che tempo tosto stata era cosa vivente, riconoscendo, in quella carcassa piccola e schifosa, morta schifosamente, l’ombra svanita di un grande capo una volta temuto, a causa della sua ferocia assassina. Bisogna preservare l’arte narrativa di Larry McMurtry dalla malafede degli storici che parlano di “genocidio” a proposito della colonizzazione da parte della razza bianca dell’America, Australia, Nuova Zelanda. La carcassa di un nativo americano è sempre la carcassa di una cosa vivente, perché una cosa vivente non muore mai, a meno che non venga inserita in un progetto di eliminazione di tutte le forme di cose viventi in quanto vita indegna di vivere. Paradossalmente, gli indiani che lo deridono in quanto vecchio e debole, non vedendo in lui più nessun segno della grandezza che quella cosa comunque mai ha posseduto, sono più nel giusto in confronto al modo di pensare dei ranger, che si ostinano a vedere in quella carcassa il corpo di un capo e non la carcassa di una cosa vivente, cioè di ciò che mai era stata veramente viva. I nativi americani vedono nel loro vecchio capo, ormai rimbambito dall’età, la carcassa che essi stessi, al di fuori dell’età, sono la cosa che, con ostinazione, occupa la terra senza mai abitare la terra. Questo perché è la terra a chiamare il suo abitante, e non viceversa; una cosa vivente che si installa su una terra sporca solo la terra, imprimendole vibrazioni negative, come hanno dimostrato Lovecraft e Miguel Serrano.

Ma perché la carcassa di un nativo americano (in quanto carcassa di ciò che era stata una cosa vivente) chiama al rispetto che dovrebbe avere un corpo umano non più in vita? In Tolkien le carcasse degli orchi non meritano alcun rispetto da parte dei nemici, che al termine delle battaglie li riuniscono in una catasta a cui poi appiccano il fuoco. Perché questo non succede anche alle carcasse dei nativi americani, per quanto si tratti della stessa cosa, vale a dire: vita indegna di vivere? Vari governi degli Stati Uniti hanno più volte ammesso di avere compiuto massacri nei confronti dei nativi americani, quando si è accertata l’uccisione di nativi americani nella forma di donne, vecchi, bambini e giovani indifesi – ma togliere la vita a un nativo americano è comunque sempre compiere quell’atto eroico che è atto eroico, qualunque cosa poi ci venga a dire il meticcio italiano Fabrizio De Andrè. Quello che si riconosce nella definizione di “massacro” di Wounded Knee è il trionfo dell’ideologia ugualitaria.

Solo l’arte del grande disprezzo potrebbe prendere la parola in un momento in cui la carcassa di un indiano diventa palpabile a occhi e mani diverse.

Lo sguardo si determina come sguardo aggrappato alla cultura diversa (come si evince dai diversi libri di George Catlin, e del quarto volume della Mitologica di Lévi-Strauss, del volume di Franz Boas sull’arte primitiva degli indiani della costa del Nordovest), siamo messi male, ma anche come sguardo che mira a cancellare la diversità che esiste, per chiudere la testimonianza in un museo.

Lo sguardo sull’altro non è lo sguardo dell’Incontro. Lo sguardo dell’Incontro e lo sguardo che determina l’altro nell’insieme delle sue possibilità.

Bisogna pensare le razze presenti in America secondo Larry McMurtry e secondo Lovecraft. Lovecraft vede la complessità degli europei, come gruppi di razza bianca (tedeschi, scandinavi, olandesi, celti), e meticci che devono essere scacciati (sacche di meticciato quali slavi, spagnoli, italiani), mentre Larry McMurtry non fa cenno a queste differenze. Lo sguardo del narratore di Larry McMurtry non ha nulla a che vedere con lo sguardo del pensatore marxista Walter Benjamin, che ha quella lontananza rassicurante che si capovolge di colpo in pericolo. È tipico di quei lontani pensatori marxisti distrarre l’attenzione, per fare in modo di scoprire la guardia dell’avversario, per portare dentro casa il pericolo appena esso sul crinale si è manifestato.

2. Adagio del sangue impuro

L’equilibrio imposto al sangue impuro pone la questione del sangue impuro, che non deve essere limitato al genere, ma alla razza, che è ciò di cui allora non si sapeva parlare, come adesso è ciò di cui non si può parlare. Parlare del genere e non della razza è ciò che porta alla violenza catatonica dei nativi americani, pure così bene spiattellata dall’arte narrativa di Larry McMurtry. In LC II/73 il meticcio indiano Red Hand è stato contaminato dal sangue mestruale di una delle sue mogli ed è terrorizzato, temendo esso vicina la propria fine. Il sangue mestruale è sangue impuro espulso in modo naturale. I nativi americani costituiscono un sangue impuro che sta per essere espulso in modo non naturale. Red Hand informa Buffalo Hump delle ultime novità riguardo la fine di Buffalo Horse e la cattura del capitano dei Texas Ranger di nome Inish Scull. La conoscenza della periodicità che rende le donne indisposte per i maschi hanno la controparte nella violenza catatonica dei nativi americani allo scorrere del sangue dei nemici. Contrariamente alla Hollywood degli anni Settanta e a Tex Willer dei meticci italiani, con svagata abilità narratologica sdoganata da Alessandro Baricco, la quadrilogia western di Larry McMurtry propone l’immagine diversa dei nativi americani, più simile a quella che compare delineata da Jack London – per chi ancora se lo ricorda, quando l’arte di scrivere chiamava l’arte di leggere.

Posso invece ricordare, come Intermezzo, la differenza che c’è tra la musica del compositore di razza bianca Anton Bruckner e la musica del compositore semita Gustav Mahler, che è pura arte di limpida gradevole decorazione. Forse Jansons ha il merito di uscire dalla scuola tedesca; lettone di nascita, abituato alle scoregge di Šostakovič, può far suonare il suono originario, lo son d’origine, di natura germanica imprigionato nelle sinfonie di Anton Bruckner. Non è impossibile che Jansons abbia visto la natura composita della musica di Bruckner, che nel rifiuto della musica di scena ha la sua piena e spiegata ragione infine d’essere. Non è il caso di parlare della musica del meticcio italiano Rossini, ma scegliendo di non parlare di ciò che riguarda la musica del meticcio italiano Gioacchino Rossini, io parlo sempre del meticcio italiano.

È importante: il di~segno di questa quadrilogia, che si configura in una presenza del nativo americano, cioè della vita indegna di vivere, nella vita piena di vita minacciosa, vita in declino, vita pericolosa se mai ce n’è una. Questo perché gli indiani non sono stati interamente eliminati in base a un progetto di genocidio. Chi parla di genocidio nel caso dei nativi americani, è in malafede. Ci sono state delle battaglie contro gli indiani. Ma in quella parte del mondo, chi legge questa quadrilogia, può dire che non c’è mai stato l’impulso di dare forma al mondo, decidendo a chi spetti il diritto di abitare la terra e chi debba invece essere eliminato in quanto vita indegna di vivere. La questione dei libri che parlano di “genocidio”, in perfetta malafede, è dove passa la differænza.

La quadrilogia ha la forma insinuante del serpente che striscia – Fafnir che striscia lungo la sua fine per bere: Il cammino del morto, storia come storiografia; Luna comanche, epica; Lonesome Dove, epica; Le strade di Laredo, storia come storiografia – per quanto scritti in periodi diversi, per cui l’ordine sarebbe 3-4-1-2, la quadrilogia vede l’epica all’interno dei quattro movimenti – e che colpito dalla fossa irrora del suo sangue impuro che rende immortale, anziché contaminare, colui che lo fatto sgorgare.

I nativi americani non dovevano essere sconfitti attraverso un programma di guerre, ma cancellati attraverso un capillare e assoluto progetto di genocidio, che solo avrebbe reso la terra “terra alleviata”, ma progetto che in quel periodo non poteva essere né pensato né tantomeno applicato, e che adesso può solo essere rimpianto, e la razza bianca la forma in grado di abitare la terra e i nativi americani la forma che non ha forma, mentre alla terra sarebbe stato restituito il suo diritto in quanto terra, cioè di chiamare il proprio abitante, mentre noi adesso pensiamo la terra solo come terra dove andare.

La razza bianca dovrebbe chiedere scusa per non avere pensato il genocidio, per non avere pensato e praticato la cancellazione delle forme di vita indegna di vivere. Con gli indiani è sempre da tenere presente l’enigmatica formula di Conrad: «Exterminate all the brutes!». Il progetto di sterminio dei selvaggi non nasce con la rotondità della logica, ma come punto lasciato enigmatico. La quadrilogia di Larry McMurtry permette di porre la differænza tra essere umano e cosa vivente – che non riguarda più la logica in quanto logica fondata sul sillogismo. Più si entra nel regno delle forme metamorfiche, più ogni singola forma suscita disgusto e si dimostra come una aberrazione che non ha diritto di vivere – ciò che è solo vita indegna di vivere: Gobba di bufalo gobbo, Anitra Blu, Ahumado. Ahumado e la sua banda viene dall’epoca dei Maya, e costituisce la controparte dei nativi del Nordamerica, che la razza bianca non ha cancellato e di cui dovrebbe scusarsi di non averlo fatto. È probabile che questa tetralogia affronti il problema delle razze da eliminare, perché ormai il momento è bello pronto.

3. Scherzo attorno la possibilità del western metafisico

Non si è scrittori se non si ha a che fare con tutte le parole del mondo, ma quando opera è ciò che chiama caos, in rapporto alle parole lasciate, anziché armonia, da qui è ciò che passa ciò che determina il tipo di scrittore comunque, cioè ciò che pone l’incontro nell’andare lungo la terra, che è l’incontro con l’altro. Due tipi di incontro, nel senso di “sbattere contro”, sono fulmineamente possibili nell’incontro che porta l’allaccio lungo la terra, che è allora l’andare nella Terra del Sacro in sovrapposizione quantistica con ciò che è Terra del Sacro: l’incontro con l’Altro, che determina l’Incontro; l’incontro con l’altro, che determina il western metafisico di Alessandro Baricco e Cormac McCarthy; l’incontro con il piccolo altro, che determina il romanzo storico di Larry McMurtry, con la conseguente eliminazione dei nativi americani in quanto vita indegna di vivere, per quanto in quei testi mai espressamente mi pare trovare attuato.

È in questa accezione di sospensione dalla terra che il western metafisico vira verso il fantasy, come dimostra Abel, e soprattutto il capitolo “Braccata da una fregata francese”, che cala nel mondo il narrato delle acque di sogno di Kadath.

Ma ciò che è l’andare nella terra chiede il pensiero relativo a ciò che è andare nella terra che è il ritorno dell’andare nella terra come terra che era stata la Terra del Sacro, che è ciò che deve allora ritornare a suonare, mentre la fine che si vede fare, da parte del piccolo altro, è sempre la brutta piccola e spicciola fine davvero in terra che attende ciò che è piccolo. Il western non metafisico esalta la sacralità della terra, che deve essere alleviata dalla presenza del nativo americano, in modo da dare il via alla Storia come sguardo, che è sguardo della razza bianca, mentre per andarsene dal punto di vista del western metafisico si chiede il botto del silenzio: Abel è un romanzo fantasy western, come dimostra il capitolo “Braccata da una fregata francese”, ma notare che McCarthy se n’è andato con il botto alla grande; la storia è infatti ciò che si definisce a patire da lo sguardo de la razza bianca, che pone il botto suo alla fine.

4. Presto & finale azzoppato ne la terra alleviata

La quadrilogia presenta il tema dell’andare per il mondo in gioventù e del conseguente incontro con l’altro, ne le sue più diverse forme. I nativi americani vengono presentati come forme di altro, perché quel tipo di incontro non pone giammai l’incontro con l’Altro, che solo è ciò che costituisce l’Incontro, che è dato in tutto alla razza bianca nel suo andare per il mondo, che solo può situare l’Incontro solo come incontro con lo stesso se pure in tempi suoi tanto diversi per tempi.

Casa è dove si può dire: “Esco di casa e incontro Svevo in via di quel porco dio di Rossini musichiere di tanti meticci italiani bastardi del cazzo”. Infatti il tema della sottomissione nel romanzo di Houellebecq (dal titolo Sottomissione) è il tema che sconsideratamente disconosce la questione razziale, che ormai invece è la questione principe che deve essere pensata: infatti, se non si ha un programma antivirus di soppressione dell’altro in quanto degenerazione, si ha la sottomissione all’altro. Tutto sommato, il western metafisico aveva già capito l’andazzo del cazzo ormai giusto, per cui, lestamente, Abel comincia con la frase: «Sento una vibrazione, allora sparo.», mentre dovrebbe, proprio ciò, in quanto competenza, dico, essere de lo Stato la questione di avvertire la vibrazione cazzo in atto. Il western metafisico si impiccia della cosa quando non c’è più terra sotto pochi spiccioli di terra appesa appena da sonare. Creando, Alessandro Baricco, il western metafisico, ha dato sgambetto a Cormac McCarthy a la grande, che mai si era impicciato di metafisica, salvo sonare col botto due ultimi grandi romanzi suoi, che passeggero e stella di mare fondono in un unico sono di differimento, da mare e prima ancora sotto mare, mentre Baricco aveva compreso ciò che solo spettava in quanto “western metafisico”.

Ma la guerra, che non abbiamo visto alternativamente, concretamente svolgersi lungo tutta quadrilogia questa, perché guerra nascosta, è la guerra tra razza bianca e meticciato mongolo in tutte sue le diverse forme, che sarà la nuova guerra che attende la razza bianca, quando si tornerà a parlare di nuovo di razza d’un colpo: e Occidente contro Oriente, razza bianca contro mongoli, perché tutto è cosa che qui giunge strisciando verso noi da lontano. Non permettere ai mongoli di vivere – laddove la terra è la terra della razza bianca. Non può esserci una sinfonia bruckneriana, al massimo sinfonia che arranca azzoppata alla fine.

Larry McMurtry, quadrilogia western:

ICDM – Il cammino del morto (1995), traduzione di Margherita Emo, Einaudi 2024

LC – Luna Comanche (1997), traduzione di Gaspare Bona, Einaudi 2025

LD – Lonesome Dove (1985), traduzione di Margherita Emo, Einaudi 2017

LSDL – Le strade di Laredo (1993), traduzione di Margherita Emo e Cristiana Mennella, Einaudi 2018

Tolkien, Sulle fiabe

Gnosticismo In Tolkien è fondamentale il concetto di subcreazione – cioè la sottocreazione che, in origine, viene fraudolentemente compiuta da un demiurgo, che, nel Silmarillion, segna l’origine della polifonia, perché il demiurgo si intromette nell’opera della creazione, si nasconde così come poi l’artista, secondo la teoria di Tolkien, crea un altro mondo – che comporta, secondo le regole della grammatica, chiamare *un’altro mondo, che è l’azione di chiamare la lingua in quanto presenza di ciò che è *l’alingua, che è ciò si pone in quanto Ecclesia di tutto un popolo che non c’è: l’apostrofo è allora ciò che si pone come differenza in tutti e due i casi, vale a dire ciò che fa la differenza, essendo, in entrambi i casi, pura differænza di ciò che non c’è, che mostra come il fantasy nasca da tale ambiguità d’ombra resa ombrosa nel tratto d’apostrofo. Chiamare la lingua in quanto ciò che è l’alingua comporta chiamare l’imbastardimento, cioè il meticciato, anche solo in quanto tratto grammaticale ricomposto attraverso lo spazio di un piccolo apostrofo. L’apostrofo è ciò che pone ciò che parla come ciò che non ha diritto alla parola in quanto essere umano, bensì in quanto cosa vivente, che è ciò che gli orchi esprimono nel loro dissonante clangore di suoni, che, comunque, secondo Tolkien è ciò che comporta la possibilità di una trasmissione di ordini, per quanto mai di una storiografia. È una parata di imbecilli.

Il piccolo fascino del male – In duale forma, sì frapposta, ravvisasi, penso, pure puer per paro-paro collegamento fra meticcio e delinquente, che Lombroso Cesare aveva di suo già prima posto tutto a suo comprendimento; posto che meticcio e delinquente siano, attualmente, forme le più interessanti tra tutte le – da qui la sfioritura ampia & fioritura di romanzi magri visti giallo su gialli (dico romanzi gialli, come pure romanzi neri, secondo quanto informa Sciascia su copertine, paro paro), visto che, se di delinquenza si può liberamente parlare e straparlare, di razza non si deve più ciarlar giammai in modo alcuno.

Il pericolo – Ma canto d’altro & punto di vista altro tutto apposto, l’incontro con il punto del mito è ciò che costituisce il pericolo, così come l’omicidio, come uccisione di uno o molti ancora più individui, in quanto trasgressione di uno individuo, è ciò che si oppone al genocidio, come impegno di ciò che lo Stato ha lasciato cadere, omicidio di una fascia intera di cose, perché l’umano è ciò che è chiamato ad incontrare, di suo da sempre, il pericolo – Grazie al dio della razza bianca, non al Dio del nemico, a cui meno che mai rispondiamo.

Le tre forme viventi – Tolkien considera tre tipologie di forme viventi, nella propria sua picciola sì tanto dispersa opera, che ricordano tre le forme possibili di esseri viventi secondo teoria nomata “gnosticismo”: forme passibili di spirituali, forme di psichici, forme di ilici: che in Tolkien comporta successione de le forme via via nomate come: forma di elfi, forma di umani, forma di orchi. Siamo allora sicuri di conoscere quello che Tolkien ha scritto e che poi ci è stato presentato?

Il cristianesimo dimenticato – Alessandro Dal Lago (Eroi e mostri. Il fantasy come macchina mitologica, Laterza 2017) richiama l’attenzione su di un punto del Beowulf in cui Grendel è l’essere della stirpe di Caino che non è stato accolto, ma che invece è stato rifiutato dalla comunità degli umani, quando Grendel era solo la deforme forma che solo chiedeva accoglienza, pari pari ne lo istesso modo in cui accoglienza chiedeva la creatura di Frankenstein – o qualunque migrante adesso in Europa.

Annientamento – Nel romanzetto di fantascienza di Charles Stross Annientamento (2015), una cosa parvi certa: quando ampiamente dal mito siamo passati al romanzo – vi siamo passati *ampliamente. Ma ciò che questo romanzetto di fantascienza esprime è l’inclusione verso tutte le forme che mito e romanzo avevano presentato come ciò che deve essere escluso: cioè il mostro. Nel romanzetto di Charles Stross queste forme di mostri (si tratti di vampiri o di sirene) sono solo le rappresentanti forme di minoranze che devono essere accolte all’interno delle comunità di normodotati e non si parla mai di “vita indegna di vivere”, che è invece ciò che muoveva ancora la narrativa di Tolkien, rendendola pure così viva e affascinante.

Fiabesco – Considerare il carattere fiabesco presente in Tolkien vuole dire confrontarsi con l’antirealismo presente in quel suo tipo di letteratura. Il fiabesco è l’impossibilità del nuovo pensiero, cioè il cristianesimo che ha invaso ogni settore del pensiero. L’impossibilità ha la sua espressione nelle tre forme viventi indicate. Tolkien ricorre al fiabesco per dire quello che, una letteratura di stampo realista, non avrebbe più potuto dire: le razze umane non sono tutte uguali e alcune razze “umane” hanno meno che mai diritto di vivere, essendo nient’altro che vita indegna di vivere – perché le razze non sono tutte uguali. Dumézil e Lévi-Strauss hanno parlato del passaggio dal mito al romanzo, cioè del romanzo come di ciò che segna la fine del mito; Tolkien vuole invece rinnovare il mito tramite il romanzo – questo è quello che Eroi e mostri ha indicato come elemento originario del fantasy. Tolkien ha cercato di rivivificare il mito attraverso il romanzo, ricorrendo a diversi generi (poesie, narrazioni), ma non ha considerato quello che doveva essere la cosa principale: la storia del linguaggio come storia autentica che doveva subentrare alla storia fasulla dei personaggi, rintracciata nella psicologia, che è la carta falsa del personaggio in quanto ciò che fa la carta falsa della narrativa. Tolkien si è invece accontentato di un incontro di stile alto con uno stile basso all’interno della forma-romanzo. Rimane però sempre la domanda implicitamente posta da Eroi e mostri: perché proprio il tempo del Medioevo? Quando si parla di Medioevo, si intende sempre il Medioevo latino, mai quello germanico; Medioevo romano vuole dire impero Europa, ovvero cristianità – senza salto di lingua; medioevo germanico vuole dire nordisk hedendom con salto di lingua. Tolkien è rimasto fra i due mondi stretto, infatti pensava al romanzo Il Signore degli Anelli come una incursione degli hobbit nel mondo eroico.

Dare forma al mondo – Acquisita che è stata la polifonia come forma novella possibile di espressione, si accetta la possibilità di “dare forma al mondo”, che, una volta acquisito il numero delle razze del mondo, pone la questione di porre in primo piano la possibilità del Gioco del mondo – che però niente altro è se non il gioco de le perle di vetro, cioè il GPS che stabilisce nient’altro che la posizione in una misurazione che è misurazione quantistica, in quanto ciò che chiama la decoerenza, come dimostra ampio nel suo modo già il Silmarillion: «Ma giunti che furono nel Vuoto, così Ilùvatar parlò: “Guardate la vostra Musica!”. Ed egli mostrò loro una visione, conferendo agli Ainur vista là dove prima era solo udito; ed essi scorsero un nuovo Mondo reso visibile al loro cospetto, e il Mondo era sferico in mezzo al Vuoto, e in esso sospeso, ma non ne era parte.» (J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, traduzione di Francesco Saba Sardi, Rusconi 1985, p. 14).

Eroi e mostri di Alessandro Dal Lago – Tolkien ripete nella sua opera una cosa che la sua morale cristiana non gli avrebbe mai permesso di formulare compiutamente: le forme viventi non sono tutte uguali, meno che mai davanti al Signore, alcune non meritano considerazione alcuna, né da vivi né da morti, come gli orchi. Queste considerazioni si trovano esposte nel libro di Alessandro Dal Lago, Eroi e mostri. Il fantasy come macchina mitologica, il Mulino 2017). «Allora gli elfi lo legarono [Thorin] con delle cinghie, lo chiusero in una delle caverne più profonde dietro una massiccia porta di legno e lo lasciarono lì. Gli diedero da mangiare e da bere, tutte e due le cose in abbondanza, anche se non di qualità sopraffina; perché gli Elfi dei Boschi non sono goblin, e si comportano in modo civile anche con i loro peggiori nemici, quando li fanno prigionieri. I ragni giganti sono le uniche creature per cui non hanno alcuna pietà.» (J.R.R. Tolkien, Lo hobbit, traduzione di Wu Ming 4, Giunti/Bompiani, Firenze-Milano 2024, p. 182). È importante il fatto che, per alcune creature viventi, in quel testo, non debba esserci pietà – cioè per le cose viventi, che non sono esseri viventi a pieno diritto; le cose per cui la vita è solo un peso che altri devono trascinare, cioè la vita indegna di vivere.

Mito e romanzo – La questione è che il romanzo svincola l’uomo delinquente, mentre il mito non svincolava mai il trickster in tutte le sue piccole varie forme in cui si è interrato. Il meticcio italiano Dante è stato il primo caso, in letteratura, di homo delinquente, essendo stato il primo caso di islamista lasciato libero di agire con i suoi turpi progetti criminali. Le parole usate dal meticcio italiano Dante non riguardavano né il mito né il romanzo. Il meticcio russo Dostoevskij è stato l’ultimo caso di homo delinquente, teorizzato in Delitto e castigo, la cui domanda, lasciata libera di agire, ha portato a la domanda pulsante da parte del filosofo di razza bianca Nietzsche. Alcune razze hanno inciso dalla nascita il marchio della propria eliminazione: guai a chi salva in sé il marchio del deserto.

La terra viva – Non c’è idea del Sacro senza disprezzo per il meticciato e senza disprezzo per il meticcio che la terra inquina con sua propria diretta presenza (cioè ciò che “quella terra”, vale a dire la Terra del Sacro, il meticcio porta alla fine). L’Idea della terra viva, Sacro, meticciato e terra sono tre cose saldamente collegate fra tutte loro, almeno per ora, e l’una deve richiamare sempre le due altre, tutte altre due.

La questione Tolkien – Tolkien ha cercato di portare a vita novella il mito attraverso il romanzo, destinando l’arte sua a tanti difformi generi diversi di poesie e narrazioni, ma non ha considerato quello che doveva essere la cosa che si poteva configurare nella narrazione come storia del linguaggio, adesso, al posto di ciò che costituiva la vecchia narrativa, relativa a intreccio & personaggi. Invece si è accontentato di un incontro di stili come incontro di stile alto e stile basso – di romanzo. Questo è appunto ciò che divide Tolkien e Joyce. Sempre rimane la domanda posta da Eroi e mostri: perché proprio e sempre il Medioevo? Si potrebbe avanzare questa ipotesi: quando si parla di Medioevo, si intende sempre il Medioevo romano, mai quello germanico; Medioevo romano vuole dire cristianesimo; medioevo germanico vuole dire nordisk hedendom. Tolkien è rimasto imperlagato fra li mondi due, infatti ha pensato il Signore come la incursione degli hobbit nel mondo degli eroi: ha creato il gioco delle perle di vetro sfuggendo ciò in cui si era trovato semplicemente ma prosaicamente impelagato.

Razza e disprezzo – La diversità de le razze, razze due (ciò che la lingua norvegese espone con la felice espressione “begge to”) chiama il disprezzo perché il modo in cui una razza parla di un’altra razza è la manifestazione di un disprezzo verso quel germoglio di diversità – il GPS è ciò che indica il posizionamento nel gioco del mondo, nel momento in cui il gioco del mondo è tutto il gioco de le perle di vetro cioè il GlasPerlenSpiel attuato di colpo in una volta come salto di vetta in vetta.

Anticristianesimo in Tolkien – Nella narrativa di Tolkien c’è una componente tanto autenticamente cristiana quanto fortemente anticristiana, che è ciò che può rendere Tolkien un grande scrittore, che si manifesta nella componente gnostica, che implica la creazione come ciò che è una cosa avvenuta in più fasi, comportante l’intervento di un Demiurgo; la presenza di varie forme viventi, fra cui una forma che è nient’altro è se non “cosa vivente”, cioè gli orchi, che devono comunque essere cancellati dall’opera della creazione. In Tolkien gli orchi sono solo il prodotto di un incrocio cristallizzatosi a malefici fini nascosti bene, per cui gli orchi sono sempre ciò che va cancellato in quanto forma la vivente, cioè in quanto quella anomalia che è la cosa vivente e ciò che deve essere annullato con il fuoco quando appunto se ne ha a che fare soltanto nella forma di un mucchio di carcasse accatastate al termine di una battaglia.

La Terra del Sacro – Come ciò che, nel testo, deve rimanere in quanto ciò che deve rimanere in quanto vuoto – senza alla fine esserci punto

J.R.R. Tolkien, Sulle fiabe, in Id., Albero e foglia, Rusconi, Milano 1984, pp. 7-100. Traduzione di Francesco Saba Sardi.