L’ultimo dio

Ragnarök di A.S. Byatt e Il richiamo del corno di Sarban possono essere accostati in base al tema del ritorno del mito, rappresentato, in tutti e due i testi, dal richiamo al tema folklorico della Caccia Selvaggia. In entrambi i testi il protagonista, o il personaggio a lui più vicino, vivono una esperienza che li porta a essere sfiorati dalla Caccia Selvaggia, e a rischiare di essere, secondo modi diversi, inglobati nel corteo della Caccia Selvaggia (nel Richiamo l’inglobamento viene evidenziato dalle diverse nazionalità presenti nella foresta dove scorre la Caccia; in Ragnarök l’inglobamento viene evidenziato dalla comunanza di sorte con colui che è stato portato a combattere nell’aria). Essere sfiorati dal mito è sempre una esperienza avvertita come pericolo. Quando il mito è finito – in entrambi i testi la fine del mito è segnata dalla sconfitta della Germania nazista –, la nuova vita viene avvertita come stato di profonda depressione. Cioè come depressione indotta dalla scomparsa del mito dal mondo, per cui la vita compare come un grande vuoto che accerchia tutto intorno chi si è trovato nello stato di colui che si identifica come colui che è soltanto sopravvissuto. Tolkien ha suggerito come la sconfitta del nazismo avrebbe potuto significare il rutto della brutta Europa che stava emergendo da tutte le parti contro tutti gli europei rimasti. Tolkien partiva dal mito, e aveva accusato la Germania nazista di proporre una lettura inglobante del mito germanico ad essa favorevole. Ora possiamo dire che quel balbettio, allora appena consegnato in quella lettera di Tolkien, ha realmente segnalato la brutta Europa che si stava preparando, che è ciò che gli Europei si trovano adesso intorno da tutte le loro parti. Che è ciò che, intorno a loro, gli Europei sono chiamati a dovere chiamare Europa, ma che è solo una cosa estranea che gli Europei stentano a scacciare via – in quanto cosa del tutto estranea agli Europei e che, per gli Europei, suona solo come accerchiamento. Questo perché l’Europa non è più la terra degli Europei. Dire adesso “Europa” equivale a segnalare dove si trova il massimo pericolo. Infatti l’Europa rischia di non essere più la terra della razza bianca d’Europa. Che è ciò che rappresenta il massimo pericolo per la razza bianca. La razza bianca d’Europa è ciò che ha determinato l’Europa, per cui è tanto più giusto dire adesso: l’Europa alla razza bianca d’Europa!
Eliminare ciò che richiama il nuovo concetto di “essere umano”, è ciò che comporterà la nuova epoca. Il vecchio concetto di essere umano, di cui noi non possiamo fare a meno di parlare, è qualcosa che viene da una lontana filosofia. Pervenire a una nuova definizione di “essere umano”, non è solo ciò che porterà a un nuovo inizio della filosofia, ma anche ciò che deve condurre alla pratica degli “abbattimenti mirati”. Lovecraft ha segnato questa epoca come il peso dei sogni che alcuni si trovano a doversi portare addosso. Ma per questo ci vogliono sempre più filosofi scellerati (secondo la felice definizione da Klossowski utilizzata nei confronti di Sade).
Il testo di Borges dal titolo Ragnarök (incluso nella raccolta L’artefice), per quanto non sia un racconto, bensì il resoconto di un sogno, è ciò che permette di collegare i due testi: il primo per il titolo, il secondo per il richiamo al tema del sogno. Il testo di Borges potrebbe diventare il racconto che si è andato a pescare alla fine del mondo, in una delle tante spazzature del mondo. Infatti solo così il testo di Borges può essere richiamato: in Europa suona il richiamo del mito; alla fine del mondo, in una delle spazzatura d’Europa, si presenta il ritorno di una accozzaglia di dei, provenienti da Roma e dall’Egitto, che porta al loro – legittimo – “linciaggio”.
L’Europa non è ancora pronta per il politeismo – questo è ciò che il resoconto di Borges rende evidente attraverso il richiamo alla degenerazione degli dei prodotta dalla persecuzione condotta insieme dalle religioni della razza semita (“la Luna dell’Islam” e “la Croce di Roma” di cui parla il testo). Per meglio dire, a partire dal testo di Borges è evidente che l’Europa non è ancora pronta per il ritorno degli dei indoeuropei. Cioè degli dei della razza bianca. Questo perché l’Europa non è ancora pronta per la razza bianca d’Europa. Infatti nel testo di Borges tornano tutti gli dei, dei romani e dei egiziani. Indifferentemente dalla razza. Infatti il racconto di Borges non è ambientato in Europa: il ritorno di quella accozzaglia di dei è qualcosa che viene visto subito come qualcosa che puzza di malavita. Gli dei, nella terra alla fine del mondo, sono diventati perfetti malavitosi di quartieri di metropoli alla fine del mondo. Il loro andare per il mondo li ha soltanto impoveriti e stretti insieme nel cerchio della malavita alla fine del mondo.
Contro Faye, bisogna sempre pregare Dio affinché ci aiuti a portare a noi l’ultimo dio di Heidegger. Infatti dice Faye: «Quanto al contenuto di fondo, la mitologia nebulosa e più che torbida dei Beiträge non incita ad augurarsi che l’umanità conosca mai l’avvento di questo “ultimo dio”, tanto più che il titolo stesso della sezione, Die Zukünftigen, non può non ricordarci “Die Kommenden”, cioè il titolo della rivista del Bund degli Artamanen da cui è emerso Himmler, e alla quale Ernst Jünger fornì in particolare numerosi articoli» (p. 392), che è proprio l’insieme nebuloso che si chiede. L’incontro con il mito deve essere un pericolo. Se non c’è pericolo, non c’è incontro col mito. Perché non c’è pensiero – e pensiero è pericolo. Il testo di Borges rappresenta il falso ritorno degli dei, proprio perché non presenta l’insistenza di questo pericolo. È un pericolo che viene “fatto fuori” con il richiamo a una scena da film (le pistole estratte). C’è un regolamento di conti a livello di malavitosi, come è giusto che sia in uno stato spazzatura, dove la maggior parte di quelli che vivono lì sono italiani.

E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012

Nuova Europa

Ci si taglia quando il coltello non taglia.
I filosofi di Hitler di Yvonne Sherratt (2013, Yale University Press;  2014, Bollati Boringhieri) è un libro che dimostra uno strano taglio. Il titolo lo esprime: non “nazionalsocialismo e filosofia”, ma “Hitler e i filosofi”. Persone e non questioni.
Puntare alla persona è attualmente il modo più semplice per fare a meno di parlare della terra. La terra diventa così solo terra dove andare, palcoscenico per personaggi messi a sfilare in base a una epicizzazione che viene dall’alto.
Ciò che della filosofia viene detto nel libro, proponendosi come libro che vuole trattare di filosofia, si riduce a una serena serie di tagli biografici, che suonano con la taglia ridotta di molti piccoli aneddoti. Perché questa preponderanza del dato biografico sul pensiero, proprio quando si dovrebbe parlare, stando al titolo, solo di filosofi? È come se si evocassero ombre di filosofi per nascondere ciò che nei filosofi è stato il dato più importante: il pensiero. Perché dunque questo taglio?
Eppure ciò che qui viene tagliato è qualcosa di diverso: il rapporto tra terra e filosofo.
Filosofia è trovarsi prigionieri di una domanda o di una frase che non suona come domanda, ma che non implica l’andare per la terra.
Il libro introduce questa sfilata tramite una lista di persone del dramma che può richiamare il prologo della degenerata Lulu.
Come nella Lulu le trasformazioni e gli omicidi avvengono all’improvviso. Solo scheletri che vengono di colpo su dalla terra. Così si profila la figura di Jack lo squartatore, che chiude orizzontalmente il dramma; ma si profila la figura del domatore – che, aprendo il dramma, chiama a sfilare i personaggi.
È un peccato che l’edizione italiana del libro non riproduca le quattordici illustrazioni dell’originale, subito dopo la lista delle persone del dramma. Un “ostinato” che può richiamare quello che fornisce l’ingresso alla Filmmusik della Lulu.  Notevole l’immagine di Adorno colto quasi di sorpresa di schiena davanti ai suoi vecchi mobili. Mobili passati dal vecchio al nuovo mondo.
Si tratta forse di un libro che potrebbe piacere al vecchio Umberto Eco, l’italo sporcaccione della letteratura d’avanzo?
Peter Kolosimo è il paradiso perduto dei Wu Ming, così come il romanzo sporcizia praticato da Umberto Eco e dai Wu Ming è, per l’uno e per gli altri, il paradiso perduto della letteratura. Ma la letteratura sporcizia chiama sempre alla resa dei conti con la sporcizia razziale.
Ma questo rimanda a una “letteratura” cresciuta sull’ipotesi del dopo-bomba. Letteratura di sporcizia, ma di una sporcizia lasciata dalla bomba. Quindi di una letteratura che si riconosce come “ricostruzione”.
Un libro irritante, appunto, in quanto libro che parla di filosofi senza mai porsi la spina della filosofia. Ma alla fine un libro che, tolta la spina, lascia una domanda d’antico taglio.
Quindi un libro che attende al varco il proprio lettore. Il varco che attende il lettore di un libro è sempre ciò che lo attende alla fine della lettura.
“Perché nella Germania dell’immediato secondo dopoguerra i sistemi teorici di Heidegger e di Carl Schmitt (cioè di alcuni dei filosofi favorevoli al nazionalsocialismo) hanno avuto più ascolto dei sistemi di Adorno, Kurt Huber, Benjamin (cioè di alcuni dei filosofi che hanno segnato la resistenza al nazionalsocialismo)?”
È questa la domanda che ci riguarda in quanto lettori. La storia insegue. Ma in quanto nella posizione di inseguiti, ci si può chiedere: “la storia di chi?”
Lunghi sono i tempi e lunghi sono ancora di più i discorsi.
Salti all’indietro, ritaglia la filosofia della Resistenza. Vive solo di questo. Quanta malinconia vi cade, appena chiara come neve. Tanto complicata quanto vecchiotta, un poco simile alla musica di Mahler, questa filosofia ha un poco il taglio sottile dell’arabesco di profumi, che incanta e attira – ma sempre meno convince.
Prima di tutto risveglia la mummia dell’umanesimo. Ma una diversa selezione del pensiero chiama a una selezione razziale per un pensiero diverso. Nietzsche insisteva sulla necessità di una casta di schiavi come elemento imprescindibile alla costituzione di qualunque civiltà. Solo una smorfia basta a Losurdo per fare a meno di considerare questa parte del pensiero di Nietzsche.
Ma la selezione che delinea il meticciato trascorre sempre lì.
Il nazionalsocialismo ha reso possibile un taglio nel nodo di pensare tradizionale. Un risultato del nazionalsocialismo è stato l’impulso alla lotta tra civiltà germanica e civiltà latina. Il tema della fine dell’epoca della metafisica di Heidegger vi si allinea così in modo naturale. Va a Heinrich Himmler il merito di aver affrontato questo tema nel progetto dell’Ahnenerbe. Ma è un tema che taglia da lontano. Già Fichte lo aveva configurato nei Discorsi alla nazione tedesca. Esso è contemporaneo alle prime formulazioni di quella scienza che poi sarà nota come “indoeuropeistica”. La comparsa dell’indoeuropeistica ha chiamato a rendere conto della domanda: “Che cosa fare dello straniero che ha imparato a mescolarsi così bene tra noi?”. Lo straniero che aveva imparato a mescolarsi così bene tra noi, all’epoca delle prime formulazioni dell’indoeuropeistica, era solo l’ebreo. Ma prima ancora, lo straniero che aveva imparato a mescolarsi in Europa era il portatore del cristianesimo. È tramite l’indoeuropeistica che l’Europa scopre lo straniero sul proprio territorio e, sempre tramite l’indoeuropeistica, l’Europa può identificarlo come straniero di razza semita. Identificarlo sempre come razza semita. Ma parlare di razza è qualcosa che va ben oltre la ricerca della verità, perché questo nuovo parlare non implica solo il richiamo alla verità. Questo parlare chiama prima di tutto il disprezzo come taglio di giudizio. La ricerca del giusto disprezzo viene prima della ricerca della verità. È una ricerca che impegna nel profondo. Posto che  ciò che si cerca non sia la verità, ma il disprezzo.
Qual è allora la funzione della filosofia? La filosofia è qualcosa che può suonare quindi come scienza pilota. In quanto scienza pilota, la filosofia ha il compito di pensare il concetto di essere umano. Ma il concetto di essere umano, da noi ricevuto in eredità da una vecchia filosofia, è un vecchio concetto pilotato da una vecchia filosofia, che è ormai tempo di mettere a tacere.
Faye mostra tutta la difficoltà nel riconoscere ciò che ha il tipo di un nuovo taglio di pensiero.
Che è quello che, con la sua semplicità, nemmeno fa I filosofi di Hitler di Yvonne Sharrett. Il nazionalsocialismo è quanto la modernità vuole tagliare da sé. Quello con cui non vuole più avere niente a che fare. Ma forme di questo pensiero, stagliandosi come la filosofia di Heidegger, continuano a distrarre con l’insistenza di fuochi fatui. E si stagliano su un orizzonte da cui incutono timore – come nuvole in un cielo che, colto come ospiti di passaggio, ci si ostina a riconoscere straniero. Come la filosofia di Nietzsche. Questo perché riguardano ciò verso cui l’uomo è destinato, cioè verso il nuovo modo di pensare – nel quale però l’uomo si sente estraneo. Cioè tagliato fuori. Ma l’Europa ha rinunciato alla determinazione della propria figura quando, tagliandolo da sé, ha rinunciato al proprio cuore. Antisemitismo: cuore d’Europa.
Quello che attrae in Heidegger è la svolta verso il nuovo inizio. Ma questo “nuovo” non viene per noi da qualcosa imprecisato.
Di spalle Adorno può solo intagliare pensieri come mobiletti dentro il vecchiume della filosofia, quando questo vecchiume è proprio quello con cui è venuto il tempo di disfare i conti. Cioè di disfarsene. La terra non è mai terra dove andare. Ma avere terra dove andare è ciò che ha caratterizzato i filosofi della Resistenza, che, trovando davanti a sé solo terra dove andare, ha permesso loro di racimolare stracci di pensiero. Questo perché non c’è terra dove andare, se non c’è Terra del Sacro. Perché questo è ciò che costituisce il taglio.

Nuovo inizio

Emmanuel Faye e prima ancora Victor Farias citando Benedetto Croce, accusano Heidegger di avere “prostituito” la filosofia, riducendola, da una questione che riguardava tutti gli esseri umani, a una questione riguardante il solo popolo tedesco in un tempo storico ben delimitato, segnato dal nazismo.
Scrive Victor Farias: «[…] Benedetto Croce fa notare, senza mezzi termini, che, nel suo Discorso del rettorato, “il professor Heidegger non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco.” Egli scrive ancora: “Oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto della storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico vero attore, l’umanità (…) E così si appresta, o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia…” In una lettera a Vossler del 9 settembre 1933 Croce scrive: “Ho letto poi per intero la prolusione dello Heidegger, che è una cosa stupida e al tempo stesso servile. Non mi meraviglio del successo che avrà per qualche tempo il suo filosofare: il vuoto e generico ha sempre successo. Ma non genera nulla. Credo anch’io che in politica egli non possa avere alcuna efficacia: ma disonora la filosofia, e questo è un male anche per la politica, almeno futura.”» (Heidegger e il nazismo, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 114).
La stessa accusa è ribadita da Emmanuel Faye: «Possiamo quindi dedurre da questi testi [i corsi di Heidegger dal 1933 agli anni quaranta] che la questione dell’essere è esplicitamente diventata, nell’insegnamento di Heidegger e a partire dal 1933, una questione völkisch: essa concerne esclusivamente l’essere del popolo tedesco e si pone solo per questo popolo.» (Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012, p. 139).
La questione è posta male e non viene affrontata, in tutte le sue conseguenze. Conseguenze che devono essere affrontate proprio dal punto di vista della filosofia. Ciò che non viene considerato è appunto il carattere di “nuovo inizio” che Heidegger riconosce in quell’evento storico – e di cui il suo pensiero si pone come la controparte filosofica. Quindi ciò che non viene considerato è la necessità di separare nettamente questo nuovo pensiero dal corso precedente che la filosofia da tempo percorreva. Bisogna infatti precisare che anche la filosofia precedente era una filosofia con una impronta razziale, soltanto che tale impronta razziale rimaneva nascosta, o almeno non apparente, in quanto non affermata pubblicamente. Questa impronta riguardava la componente greco-giudaico-latina. Se questa componente non si rivelava come tale, ma anzi lasciava il passo a un pensiero che sembrava avvolgere tutta l’umanità, era per una vocazione, per così dire, all’impero universale da sempre presente in quella filosofia, vale a dire da un disconoscimento. Un disconoscimento del pensiero che disconosceva il corpo in quanto manifesto di razza. Questa filosofia poteva sopravvivere solo tramite una concessione di cittadinanza a tutti gli individui dei territori, per così dire, occupati. Di fronte a questa espansione dell’impero del pensiero e di questa concessione indiscriminata del diritto di cittadinanza, il razzismo diventa il crimine ideologico più grave, da perseguire con ogni mezzo. Ogni essere umano doveva riconoscersi in quel pensiero e, se ne era in grado, poteva aggiungere qualcosa alla sua costituzione. È la versione culturale della globalizzazione. Una questione che l’impero romano conosceva bene in tutte le sue forme. Il nazismo, e soprattutto la filosofia di Heidegger, operano nella direzione opposta. Da una componente, celata – greco-giudaico-latina – si passa ad una componente germanica, tutt’altro che celata, anzi apertamente manifesta; questa nuova componente, nuova destinataria della filosofia, non concede cittadinanza a chi non ne fa parte per razza. Ma tende a praticare la separazione. Il pensiero nasce dalla razza. O dalla razza come degenerazione, che non può dire la propria provenienza, o da una razza in quanto risultato di una selezione di razza. Che per questo manifesta la propria origine di razza. È questo il rinnovamento; è il questo il modo di pensare diverso che provoca un diverso modo di intendere la filosofia.

Oggetti biologici

Nella conferenza di Heidegger intitolata Il pericolo il punto centrale è rappresentato dalla frase in cui si ricordano i morti nei campi di concentramento, e anche i morti nella lontana Cina. In entrambi i casi si tratta di morti che suonano in modo smorzato. Per cui si pone più volte la domanda: “muoiono?”. Prima di porre questa domanda, il testo aveva ricordato il pericolo rappresentato da un ordinamento di cose che nella modernità vengono sistemate come cose tutte uguali tra loro, secondo un ordinamento che avanza pretesa di oggettività. Quindi come cose tra le quali non si pone più nessuna distanza. Vale a dire che rinuncia a un ordinamento selettivo. Dopo questa domanda, cioè dopo la domanda relativa alla possibilità di morire, l’attenzione si sposta sulla tecnica.
Si può allora porre la domanda relativa a ciò che fa sì che l’attitudine di presentare le cose come un insieme senza spazio tra loro, di cose tutte uguali tra loro, possa condurre alla domanda riguardante i morti nei campi di concentramento, e poi alla domanda relativa alla questione della tecnica.
Ritorniamo alla frase sui morti nei campi di concentramento. Solo l’essere umano giunto alla costituzione filosofica di un principio di essere umano può morire – dice il testo. Eppure il concetto di “essere umano” è un concetto accettato universalmente. Dove si insinua la differenza? Adesso noi riceviamo la notizia della morte di persone lontane nella conta delle carcasse dei migranti che vengono pescate nei vari mari a sud dall’Europa. Per arrivare ad avere una fine bisogna avere avuto un inizio. Avere una fine richiede avere comunque un inizio. Ma dove? Carcasse di migranti e oggetti biologici è quanto propone la vicinanza offerta dalla modernità. Che è quanto la modernità propone quando propone la vicinanza tra informazione e filosofia. Ma appunto in questo c’è da porre la domanda centrale posta nel punto di mezzo della conferenza: sono morti? La domanda deve aggirare l’ostacolo della vicinanza, che pone sullo stesso piano il puro oggetto biologico e l’essere umano. Se la filosofia non riesce a determinare una definizione precisa di “essere umano”, allora la filosofia è inutile. Ma nel testo di Heidegger abbiamo a che fare con una filosofia che scavalca questa inutilità e che stabilmente pone la differenza.
Questo perché a porre il luogo della domanda è la terra dove la domanda ha il suo reale inizio, cioè l’Europa.
Ma che cosa comporta l’accettazione dell’era della tecnica, su cui la parte finale della conferenza, quella dopo il passaggio sui morti nei campi di concentramento, consiste, ma non insiste?
In una ipotetica terza parte, la tecnica dovrebbe imporsi come tecnica di allevamento e tecnica di selezione. Che è appunto quello che spaventa gli sparuti esegeti di Nietzsche e di Heidegger che si sono avventurati da quelle parti. Losurdo e Faye primi fra tutti.
Così la conferenza di Heidegger richiama su tre questioni: il pericolo riconosciuto attraverso la vicinanza di tutte le cose; la questione della morte, che separa un essere umano da un puro oggetto biologico; la questione della tecnica al servizio della creazione di una nuova casta di schiavi, e della soppressione di quanti, tra gli oggetti biologici, non sono più in grado di funzionare come schiavi.
Il tempo del nazismo è ciò con cui l’Occidente deve essere portato a confrontarsi. Perché in questa sfida è ciò verso cui l’Occidente è portato nel suo nuovo inizio. Questo è appunto ciò che il pensiero dell’Occidente ha rifiutato di fare, ma che appunto la filosofia di Nietzsche e di Heidegger richiama a fare.
Solo il fuoco accompagna il pensiero. Nel fuoco l’uomo è messo di fronte alla responsabilità dei pregiudizi che gli franano addosso.
Perché questo è ciò che è necessario per accettare la sfida fondamentale che l’attende, cioè l’antisemitismo: cuore d’Europa.

Cacciatori di nazisti

A volte Emmanuel Faye mette proprio di buonumore: «L’uso della parola Negerkral [da parte di Heidegger] è la cifra di un razzismo profondamente radicato. Raramente utilizzato, il termine tedesco Kral deriva da Kraal, parola olandese che sta per “villaggio”, che ritroviamo nell’inglese corral e che, in Sudafrica, designa il recinto per il bestiame: non siamo lontani dal “parco zoologico umano” di Peter Sloterdijk. Negerkral significa dunque “villaggio di negri”, o peggio: “recinto per negri”. Evidentemente, per il profondo razzismo di Heidegger il fatto di accostare l’Acropoli a un villaggio africano costituisce di per sé uno scandalo che non c’è nemmeno bisogno di commentare. La connotazione razzista di questo brano ci ricorda cosa già diceva dei “negri” e dei Bantu nei corsi del 1934.» (p. 360).
I cacciatori di nazisti fanno sempre più l’effetto degli sgangherati cacciatori di vampiri messi in scena in un film di qualche anno fa. Ma anche di quelli che si vedono caracollare nella pellicola dell’italo-americano Tarantino. È gente che fa sempre un po’ pena, ma pure non ha fatto il suo tempo.
Il nazismo aveva una ideologia favorevole alla formazione di un grande pensiero filosofico. Come dimostrato dal pensiero di Heidegger, che pure Faye non riconosce come pensiero. Egli infatti, quando deve parlare della filosofia di Heidegger, lo fa ponendo il termine filosofia tra virgolette, e la stessa cosa quando parla del filosofo Heidegger. Nel paragrafo “Il pericolo dell’opera di Heidegger e la sua discendenza negazionista” del nono capitolo discute sulla possibilità che l’ammirazione per il pensiero di Heidegger possa condurre di riflesso a una ammirazione per il nazismo, che quel pensiero ha prodotto.
Il nazismo era già di per sé “un altro inizio”. Qualsiasi altro inizio deve porsi sotto il segno di una opposizione assoluta al mondo giudaico-latino. Questo mondo, pur agendo come tale, non si riconosceva in quanto mondo, poiché si appellava a un vuoto dove i pensieri potevano manifestarsi. Tantomeno si riconosceva come razza. Il nuovo inizio, in quanto mondo germanico, riconosce il nuovo mondo e la razza che lo abita come insieme di caratteristiche indispensabili per la formazione del nuovo pensiero. È quanto Heidegger riconosce nel saggio Perché restiamo in provincia?, che Faye liquida come ideologia völkisch. Il nazismo si proponeva concretamente come l’alternativa germanica. Il nazismo non ha prodotto Heidegger, tanto meno Heidegger ha fatto in modo di “introdurre” il nazismo nella filosofia, ma opporsi alla visione del mondo giudaico-latino a favore della nuova visione del mondo germanica doveva per forza provocare un insieme che – per semplificare – comprende tanto il nazismo quanto Heidegger.
La domanda è fino a che punto sia ancora utile rimanere attaccati ai vecchi giudizi sul nazismo. Questi giudizi nascono invariabilmente dalla visione giudaico-latina del mondo e dalla sua difesa.
Che cosa è che spinge il pensiero di un filosofo? Tante cose. Se una di queste fosse la razza? Faye sembra a disagio davanti a questa possibilità, che pure la sua indagine sembra intravedere. Dall’io al noi. Ma anche l’io ha avuto le sue genealogie plurali.
Nel paragrafo “Dal revisionismo della risposta a Marcuse al negazionismo ontologico delle conferenze di Brema” (capitolo nono), giustamente Heidegger pone la domanda se le persone soppresse nei campi di concentramento nazisti siano mai realmente morte, visto che per la sua filosofia solo attraverso il raggiungimento dell’essere si può accettare autenticamente la morte. Nella filosofia la nozione di essere umano deve avere una valenza filosofica. Per cui, grazie a tale valenza, si può arrivare a dei paradossi se giudicati con il senso comune: l’individuo è immortale, come afferma certo idealismo, ad esempio quello di Gentile; certi uomini non muoiono mai, anche se vengono uccisi, come Heidegger può affermare in base al suo pensiero.
Faye precisa molte volte che l’intento di Heidegger sarebbe quello di distruggere la filosofia. Ma ogni innovatore fa piazza pulita. Nietzsche ha fatto lo stesso. «Io sono dinamite» diceva di se stesso. Nietzsche fa una vita randagia, nascosta, tutta ripiegata sulla sua opera segreta. Heidegger occupa un’altra posizione: carriera brillante, notorietà, conferenze, visibilità, ma il principio è lo stesso: distruzione del vecchio modo di pensare; apertura verso un altro tipo di pensiero, filosofia dell’avvenire. La filosofia di Heidegger può sembrare accademica, mentre quella di Nietzsche può spaziare verso l’antifilosofia, la lirica, il libro profetico. Ma l’intento è lo stesso: è un nuovo pensiero, sconcertante, che si fa avanti. Nel suo modo di affrontare “il problema Socrate” Nietzsche si scaglia contro la dialettica, l’arte di convincere con le argomentazioni del discorso ordinato proprio perché egli vede in essa la fine dell’aristocrazia, della razza greca. E infatti vede in Socrate il non greco, lo straniero, l’eversore di una grande tradizione. Giustamente dal suo punto vista, Faye rimprovera a Heidegger di non considerare mai Socrate: «Non sorprende quindi che nelle decine di migliaia di pagine che Heidegger ha lasciato non si trovi pressoché alcun riferimento a Socrate. Alla dialettica, che a partire da Platone permette la vitalità del dialogo filosofico e fonda l’esigenza intellettuale dell’interrogazione sui concetti, egli ha sostituito l’uso dittatoriale della parola ed esaltato la lotta, da condurre fino all’annientamento del nemico.» (p. 448), ma questo dimostra appunto che la questione è affrontata da Faye a rovescio.
Compito della filosofia è favorire un nuovo pensiero. È essere il nuovo, nonostante tutti i paradossi e le contraddizioni che questo nuovo, non ancora comparso appieno, possa portare nel pensiero ereditato dalla tradizione.
A volte Faye ha l’incanto di lasciare di stucco: «[…] in seguito alla sconfitta della Germania nazista Heidegger modificherà ancora una volta il suo discorso secondo il corso dell’‘evento’, affermando da quel momento in poi che “questa guerra mondiale non ha deciso nulla”. Eppure si tratta di una guerra che ha liberato l’Europa dalla dominazione nazista.» (p. 381).

Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’oro, Roma 2012 (I ed. Albin Michel, Paris 2005)