Epicizzazione del teatro

A fini artistici le parole sono mantra. È caratteristica dell’arte far suonare le parole nel vuoto, ma solo il teatro le intarsia in uno spazio suo particolare.
Lo spazio del teatro, cioè lo spazio in cui avviene la rappresentazione scenica, è la settimana di passione del teatro moderno. Poiché a questo tende il dramma a stazioni.
Sbalzata nel teatro, la parola acquista un imperativo di fatto. È ciò che Benjamin, ne I «passages» di Parigi, indicava con la felice espressione: “truculenza cinematografica dell’azione”. Al cinema, infatti, la parola del teatro tende, e anche alla pubblicità. È una nuova funzione della parola, in tutto una nuova parola, che ha la sua radice nel trasferimento del significato della parola, che si determina in quanto “parola deviata”.
La parola cessa di essere un dolce enigma dai più significati e diventa la via più breve per imporre l’azione.
Come realizza, il teatro, il movimento della parola vuota sulla scena in quanto parola deviata?
Prima di tutto, tramite l’esclusione del fattore tempo dalla vicenda che mette in scena. I personaggi sono privati del tempo; ognuno è irrigidito nell’attimo di una postura, in una scelta operata dall’autore, che ne ricava una maschera. Ogni personaggio che agisce sul palco di un teatro, in ultima analisi, non è altro che una maschera. Questa è la coerenza. L’azione è condensata in un tempo breve. Tutto deve essere funzionale al precipitare degli eventi.
Poi tramite una riduzione dello spazio. Anche lo spazio subisce una metamorfosi. E una metamorfosi del genere era già presente, nelle sue caratteristiche, nell’architettura del teatro elisabettiano. Il teatro moderno reinterpreta incessantemente questa architettura perduta.
È stato il teatro epico a introdurre la dimensione del racconto nel teatro, che ha avuto la conseguenza di trascinare con sé lo spazio. Quello che ne viene fuori è uno spazio aperto a trasformazioni – di tipo topologico. Nell’epica lo spazio è trattato secondo leggi aperte di tipo topologico. Il teatro epico introduce nel teatro qualcosa di simile a quello che già avveniva nel romanzo. Accostandosi all’epica, il teatro recupera qualcosa della topologia e si adatta a trasformare lo spazio.
Brecht ha modificato lo stato del teatro molto più di quanto non avesse in mente di fare. Il teatro epico aveva potenzialità più spropositate di quanto egli non avesse compreso. (Guai dell’apprendista stregone!) È scomparso il fine didattico immediato allora voluto da Brecht (il “messaggio” escatologico del materialismo storico), ma i due punti essenziali sono rimasti: la scenografia semplice e a vista; l’allusione alla modernità, che corre lungo tutto lo spettacolo definendo la chiave dell’intera messa in scena.
Dopo Brecht ogni progetto di messa in scena ha dovuto fare i conti con questa nuova componente inscindibile dalla messa in scena teatrale: l’epicizzazione del teatro.
«Marco Ferreri una volta mi ha detto che i miei dialoghi sono cinematografici perché durano il tempo giusto. Per forza, quando due dei miei personaggi parlavano andando dal refettorio al chiostro, io scrivevo con la pianta sott’occhio, e quando erano arrivati smettevano di parlare.» (U. Eco, Postille a “Il nome della rosa”.)
Questo è proprio il guasto del teatro che continua a espandersi nella letteratura. Il teatro è un freno nel meccanismo della modernità. Il romanzo post-moderno ne amplifica l’ECO.

Topologia

La differenza notata tra il primo e il secondo Heidegger potrebbe sempre più tendere a sfumare. Il passaggio da un tema all’altro in un tempo lungo prevede delle trasformazioni che potrebbero essere indicate come topologiche: poiché prevedono modifiche che escludono fratture sostanziali. Allora i temi sarebbero prima di tutto delle forme vuote, che un significato di volta in volta rintracciato permetterebbe di mettere in movimento. Un movimento completamente nuovo, in grado di creare novità assolute.
Questo dalla prospettiva della comparsa dei temi; dalla prospettiva del funzionamento dei temi è invece fondamentale la frattura tra un periodo e l’altro, anziché la persistenza.

La battaglia di Arminio

La battaglia di Arminio di Heinrich von Kleist contiene alcuni confronti, certamente non intesi in questa forma dall’autore, ma presenti nel testo, con la civiltà germanica, sui quali vale la pena dirigere una riflessione. Questo perché, quando lo scontro è uno scontro tra civiltà, un testo che richiama l’antica battaglia delle razze non può che richiamare l’insieme di ciò che oppone razza superiore e razze inferiori, qualunque siano le intenzioni dell’autore.
1. Arminio: «Credo che i Tedeschi siano più dotati di talento, ma che gli Italici, sebbene meno dotati, l’abbiano sviluppato meglio nell’epoca presente». Arminio afferma che un’armata germanica in marcia o in sosta suscita il riso in confronto a una di Roma (atto I, scena III). Notare il richiamo a ciò che il testo chiama “l’epoca presente”, identificata come un’epoca di decadenza, nella quale, proprio per questa caratteristica, la civiltà latina può ottenere il massimo del successo. Questo è proprio ciò che chiama il teatro, il fattore dello spettatore invisibile, ugualmente richiamato dalla pubblicità, cioè l’arte di sfottere, tipica della civiltà latino-semita. Ma c’è un altro fattore che il testo suggerisce: l’arte della guerra, il tipo di guerra che in quel momento si combatte. Armata romana e armata germanica richiamano infatti due tipi diversi di guerra.
2. Teutoburgo. Accampamento di Arminio. Arminio e alcuni Anziani osservano le fiamme che si alzano dai villaggi attraversati dalle armate di Roma. Così avanza nel mondo la civiltà di Roma. (Atto III, scena I). Roma è barbarie.
3. Ventidio ha insegnato a Tusnelda l’arte di abbigliarsi e acconciarsi i capelli con lo sfarzo di una Romana. Arminio le rivela che i Romani hanno l’abitudine di tagliare i capelli biondi delle donne tedesche per farne parrucche per le loro donne: «Neri sono [i capelli delle Romane], neri e grassi, come quelli delle streghe. Non belli, asciutti, d’oro, come i tuoi.» (Atto III, scena III). Bellissimo episodio che richiama lo scontro in corso alla sua vera natura, cioè allo scontro razziale: la razza nordica autenticamente indoeuropea e il meticciato romano, che niente ha di europeo (meno che mai di indoeuropeo).
4. Sfila l’esercito di Roma. Varo chiede a Ventidio assicurazioni su Arminio. Egli sa che, non appena marcerà contro Marbod, la sua posizione sarà molto delicata: poiché avrà di fronte l’esercito di Marbod e alle spalle quello di Arminio. Ventidio lo rassicura, ma ogni sua frase è ambigua. Questo dialogo è un capolavoro: c’è tutta la falsità dei Latini, il loro amore per gli intrighi, la loro assoluta diffidenza, il loro essere biforcuto nel mondo. Ventidio ha la lingua biforcuta perché la lingua del suo popolo è una lingua biforcuta. Ventidio prende per spirito profetico quello che è malevolenza degli uni verso gli altri. Caratteristica tipica della sua gente: la razza latina. Tusnelda chiede a Settimio spiegazioni sulle insegne che vede portate dall’esercito romano. Viene così a sapere che l’Aquila ha il compito di riunire i soldati in battaglia. Tusnelda: «Da noi usa il canto corale dei bardi» (p. 629): storia come vedere, storia come dire. (Atto III, scena VI.)
5. Entra una mandragora [così la traduzione]. Varo la interroga: da dove vengo? Risposta: dal nulla. Dove mi dirigo? Risposta: verso il nulla. Dove sono? Risposta: a due passi dalla tomba. Poi scompare. Parlando della mandragora, Varo accosta la Sibilla romana alla maga di Endor. (Atto V, scena IV.) Questo personaggio è riconducibile alla völva dell’Edda, che qui racconta il futuro della civiltà semito-latina visto nella sua opposizione alla civiltà germanica. Così ci sarà infine una battaglia di Arminio dopo la quale la civiltà latina verrà consegnata al nulla.
6. Varo parla di due corvi: uno che pareva annunciargli la vittoria, l’altro la tomba. I due corvi possono essere accostati ai due di Óðinn, ma senza una reale funzione. Un popolo di bastardi è un popolo raccoglitore di mitologie, leggende e racconti; tutto un materiale del quale non sa che fare. (Atto V, scena VII.)
7. Varo: «Arminio, Arminio, è dunque possibile che uno abbia capelli biondi ed occhi azzurri e che sia falso come un cartaginese?» (atto V, scena IX). Varo espone apertamente quella ideologia che egli, prima di tutti, dovrebbe non accettare.
8. I Capi temono che Arminio marci contro Marbod. Arminio: «per il tonante bronzeo carro di Wodan»: di tonante c’è qui, prima di tutto, l’errore. Non era Óðinn il dio con il carro, ma Þórr. (Atto V, scena XI.)
9. Arminio: «E poi muoveremo audacemente… verso Roma. Noi, fratelli, noi o i nostri nipoti! Sono infatti fermamente convinto che l’intero mondo non potrà ottenere pace da questa genía di assassini fin quando non sarà totalmente distrutto il loro nido di predatori e una bandiera nera non sventolerà sopra un desolato cumulo di macerie.» (atto V, scena ultima). È qui anticipata la fine della civiltà semito-latina, riassunta nella battaglia finale contro la grande città. Si ripresenta lo scontro dapprima negato: l’odio verso la grande città e lo smascheramento della civiltà latino-semita.

Teutoburgo vi compare come una città con strade nelle quali si può camminare e un parco chiuso da un cancello, una specie di giardino all’inglese, dove la natura sembra seguire indisturbata il suo corso e dove Tusnelda fa rinchiudere Ventidio in modo da farlo sbranare dall’orsa che, poco prima, vi aveva fatto rinchiudere. Una delle caratteristiche fondamentali dello scontro tra civiltà romana e civiltà germanica, la grande città semito-latina e l’assenza di città nel mondo germanico, è del tutto ignorato.
La battaglia di Arminio di Heinrich von Kleist è uno strano testo. Tutto, in questo strano testo, viene messo in scena come se la battaglia di Arminio fosse già avvenuta. Quello che il testo presenta è infatti la nuova battaglia di Arminio, cioè quella battaglia che, dopo la battaglia di Arminio storica, bisogna combattere per scacciare l’influsso della civiltà latino-semita. La battaglia di Arminio “storica” ha segnato la vittoria dei popoli tedeschi sull’esercito di Roma e la fine dell’aggressione della civiltà romana nei confronti del nord, Ma il risultato è stato che la Germania, così come tutto il nord, ha finito per accettare, senza accorgersene, sempre più la civiltà latino-semita, arrivando a pensare, alla fine, come quella civiltà e organizzando il proprio modo di vivere e di abitare la terra secondo i principi di quella lontana civiltà.
Ma mai troppo lontana!
«I dag kjenner mange mennesker i Norden gresk og romersk mytologi bedre enn den norrøne» (G. Steinsland, Eros og død i norrøne myter, Universitesforlaget AS, Oslo 1997, p. 18).
Il fatto della battaglia personale, che chiunque deve combattere in nome della battaglia di Arminio, mette in evidenza un’altra questione.
Atto III, scena II: entrano in successione tre Capitani tedeschi. Riferiscono le atrocità commesse dai Romani lungo il loro percorso: distruzione delle residenze di Arminio, uccisione di una puerpera col suo bambino, distruzione della quercia sacra a Wodan. Sono i simboli delle tre funzioni indoeuropee secondo Dumézil, riportate nell’ordine: 2, 3, 1.
Arminio accoglie le notizie con gioia e le fa diffondere, in modo da aumentare l’odio verso i Romani. Infine, ordina a Eginardo che dei Tedeschi travestiti da Romani seguano di nascosto le truppe di Varo, saccheggiando e incendiando.
In Teoria del partigiano Carl Schmitt (Adelphi, Milano 2005) definisce La battaglia di Arminio di Kleist «il più grande poema partigiano di tutti i tempi» (p. 17).
Il partigiano, continua Schmitt, costringe il suo avversario a entrare in uno spazio diverso. Notare il richiamo al teatro nel testo di Schmitt: «Sbucando dalle quinte, il partigiano disturba il dramma convenzionale che si svolge, conforme alle regole, sul palcoscenico» (p. 98). Il partigiano è, a questo punto, una figura da melodramma, da operetta, da dramma di cappa e spada.
Ma il partigiano di ieri è il terrorista di oggi. Il partigiano non è più una figura difensiva e da operetta, ma diventa «uno strumento manipolato da un’aggressività che mira alla rivoluzione mondiale» (p. 104).

Rimane il punto di partenza: l’errore fondamentale di Kleist: aver rappresentato Teutoburgo come un città con strade dove i capi, in incognito, camminano di notte per studiare il comportamento della popolazione. Un tema che sembra richiamare la grande città di Baghdad dei racconti fioriti intorno al califfo Hārūn al-Rashīd nelle Mille e una notte.
È una sovrapposizione di scenografie che il testo teatrale ha imparato a rappresentare. I guerrieri germanici si muovono, nella loro Germania violata, attraverso una scenografia che rappresenta la Germania violata come una grande città semita. Ma essi combattono concretamente per liberare la Germania,
È appunto lo sdoppiamento tipico al quale il teatro moderno, in quanto messa in scena, non può più fare a meno. Soprattutto il teatro d’opera unirà una interpretazione musicale filologica a una messa in scena slegata da qualsiasi temporalità (scenografia costituita da blocchi in movimenti, costumi contemporanei, ecc.). Da qui è da rivedere il tentativo di Händel di creare oratori profani, in lingua inglese, in risposta all’invadente teatro italiano.

Un bel commento all’articolo “2000 år sedan slaget vid Teutoburgerskogen!” nel sito www.patriot.nu (30 settembre 2009), cominciava con questa semplice frase: «Det är bara en ny Hermann som behövs och lite till.» (http://patriot.nu/artikel.asp?artikelID=1330).

H. von Kleist, La battaglia di Arminio, in H. von Kleist, Opere, I, Guanda, Parma 1980 (trad. di Ervino Pocar).

Bachtin rovesciato come un guanto

Bachtin insegnava a riconoscere la tecnica polifonica di Dostoevskij all’interno dei romanzi di Dostoevskij. Questa tecnica consisteva, secondo l’analisi di Bachtin, in un tentativo di rintracciare voci diverse in quella che, nei romanzi, sembrava presentarsi come voce unica; voce che, apparentemente, da sola, portava avanti quella narrazione che, appunto in quanto sola, poteva costituirsi come composizione del romanzo.
Ma il romanzo è costituito da una formula esattamente opposta: una tendenza alla omofonia, cioè alla necessità di vedere una stessa voce in quello che nel testo si presenta come un intreccio di voci diverse. In questo caso, a essere basilare, è la teoria del soggetto, poiché proprio il soggetto regola la fuga delle voci, vale a dire la disposizione spaziale delle varie voci tra loro. “Soggetto” che si pone, appunto, come “punto di fuga”; cioè come punto di vista in uno spazio da cui ci si pone come osservatori. Ed è appunto il soggetto a osservare la fuga. È insomma la teoria del soggetto a detenere in sé il germoglio della polifonia. Non è la polifonia a rimandare a soggetti diversi.
Il romanzo diventa allora la parata della costruzione soggettiva mascherata da oggettiva indipendenza di voci. La polifonia è così un miraggio e compare la topologia.