Jack London, il “Wild”

(Fantasia su un tema di Jack London)

1. Il Wild

Nella sua traduzione di White Fang di Jack London (Feltrinelli, 2019), Davide Sapienza precisa: «Per rispettare il profondo significato originale voluto da Jack London, nella traduzione italiana il termine “Wild” verrà mantenuto in inglese per tutto il romanzo. “Wild” sta per “la natura selvaggia”, “lo stato naturale”, “la vita allo stato brado”, “il selvatico”.» (n. 1, p. 205).

A­ livello concettuale, si potrebbe indicare Wild con “Aperto”: quando l’Aperto è ciò che si apre all’animale (che in questo romanzo si presenta come il cane) in quanto natura selvaggia di cui esso, avendone fatto parte in origine, in quanto lupo, è chiamato, a un certo punto, in quanto cane, ad avere la possibilità di tornare di nuovo a fare parte di nuovo; l’Aperto è allora uno spazio contrapposto a quello umano, che pertanto si presenta come uno spazio meno che mai “aperto”, bensì “circoscritto”, ma che riguarda l’animale che ha subito il processo di domesticazione della specie, e che si riversa sull’essere umano in quanto artefice del processo che, dalla specie lupo, ha comportato la specie “cane domestico”.

Il romanzo White Fang segue il romanzo The Call of the Wild perché il richiamo non comprende più un singolo individuo, cioè un cane, ma un insieme di cose e persone posti fra loro in rapporto.

Tanto un uomo quanto un cane possono presentare allora il conto all’uomo per la creazione del cane – posto che per “conto” si intenda, qui ciò che tiene in conto la forma del romanzo.

In Zanna Bianca abbiamo quattro elementi nel gioco: il cane, il lupo, il nativo, l’essere umano.

“L’Aperto” è ciò che si presenta al cane come puro “richiamo”, perché è ciò che riguarda ciò di cui l’animale non è più parte, ma che pure lo riguarda – perché ha sempre la forza di chiamare, essendo l’incubo ormai il fantasma che aiuta ad aprire la porta per chiedere aiuto, che è il sogno della mara della porta.

In questo spazio aperto, il cane, che è stato creato dall’uomo, è raggiunto dal richiamo dell’Aperto. Ma il richiamo dell’Aperto è ciò che riguarda l’uomo che avverte la responsabilità in quanto specie responsabile della creazione della specie “cane”, che ha comportato l’imprigionamento parziale e il danneggiamento parziale della specie lupo. Ma ciò che del lupo rimane nel cane, riguarda pure l’uomo, che ha sottoposto la propria specie allo stesso processo di allevamento-addomesticamento, ma che, ad un certo punto della propria evoluzione, viene chiamato alla creazione di una nuova specie umana; diversa dall’uomo, così come il lupo è diverso dal cane; ma che, a quel punto, con sindrome di Marco Polo, l’uomo sembra fare orecchie da mercante – non avendo più intenzione di andare oltre a mercatantare.

Sappiamo che la nuova specie deve comportare la nuova polifonia che sarà alla base di ciò che la terra avrà diritto di chiamare come ciò che avrà il diritto di essere identificato come proprio abitante. Che è ciò che l’uomo deve avere a che fare infine come ciò che lo riguarda in quanto specie.

L’aperto che si presenta al cane – animale creato dall’uomo – è simile all’aperto che si presenta all’uomo come progetto di creazione di tutto un nuovo tipo umano: l’animale cancella la sottomissione, l’uomo crea la nuova sottomissione per alcuni tipi e cancella così la propria millenaria sottomissione a tutti i tipi.

2. I tre padroni

Consideriamo i tre padroni che Zanna Bianca riconosce come “dèi”, cioè come autorità che non devono essere attaccati e che avrebbero pure il “diritto” di picchiarlo, se questo deve garantire la propria posizione in quanto dio.

Perché a un cane sarebbe allora permesso quello che a un essere umano è invece rigorosamente vietato?

Vediamo i tre dèi:

Castoro Grigio: è il dio imbecille. È il capo di una tribù di nativi americani. È un tipo semplice, rozzo e brutale. Ma questo è ciò che lo costituisce come dio della sua razza. È destinato a una fine grottesca, farsesca, pienamente meritata (in quanto farsesca apoteosi della sua razza, più che del suo singolo carattere egoista e primitivo che egli pone allora in gioco). Come capo, egli incarna perfettamente la fine che aspetta alla sua razza miserabile (ma meglio è dire: antirazza). La sua fine è la farsa che chiude la mancanza della nota di tragedia, poiché la sua razza è sempre stata nota di commedia, che il romanzo adesso compendia, cosicché in Castoro Grigio non ci sono che due dimensioni, quando nello stadio successivo, la razza bianca, vediamo tre dimensioni riconosciute.

Beauty Smith: è il dio folle. È la rappresentazione della degenerazione della razza bianca. La razza bianca viene subito riconosciuta come superiore al meticciato di cui è qui rappresentante Castoro Grigio col suo pacifico dio imbecille. Beauty Smith è il bianco degenerato. Eppure, indirettamente, anch’egli ha un grande merito nel disegno complessivo del romanzo: determina la rovina del meticcio Castoro Grigio, vendendogli il whisky che ne determinerà il grande stordimento finale, permettendo il passaggio di Zanna Bianca dal primo dio (il dio imbecille) al nuovo dio, il dio folle, e quindi il passaggio all’ultimo dio. Il nuovo dio e l’ultimo dio sono le due forme di dèi presenti nella razza bianca, che chiamano la forma della quarta dimensione. Il disgustoso bianco degenerato Beauty Smith determina la rovina e la scomparsa del disgustoso meticcio Castoro Grigio; il dio folle uccide indirettamente il dio imbecille perché il “dio folle” è superiore al “dio imbecille” per razza, perché un bianco degenerato, per quanto folle, è – comunque – superiore a un qualunque meticcio piattamente conforme alle regole del meticciato della razza di cui viene ad essere il casuale esponente: il degenerato Beauty Smith è un caso individuale di degenerazione della razza; il meticcio Castoro Grigio non è un caso individuale di degenerazione della razza, ma è esso stesso la manifestazione di una razza inferiore, di un meticciato.

Weedon Scott: è il dio umano. È il dio dell’amore così indicato nella sua seconda manifestazione, che riguarda gli esseri umani, cioè gli individui di razza bianca, e non più i nativi americani. Weedon Scott ha fatto quello che ha potuto per Zanna Bianca, lo ha salvato, gli ha fornito un riparo, ha evitato di restituirlo al Wild nel momento in cui egli aveva capito che il Wild non era più l’ambiente di Zanna Bianca; ma adesso il progetto deve passare dall’individuo alla specie, che è ciò che collega l’individuo Weedon Scott e l’individuo Zanna Bianca, rimediando non solo il danno fatto all’individuo di una specie ad un’altra specie), o ad una specie ad una sottospecie, ma anche al danno fatto a se stesso in quanto specie, impegno che comporta la soppressione del tipo primitivo e del tipo degenerato. Ma qui si pone la domanda: che cosa vuole dire la definizione “dio dell’amore”, ampiamente utilizzata da Jack London all’interno di questo romanzo, a proposito di Weedon Scott nei suoi diversi rapporti con Zanna Bianca? Se nessuna domanda poteva riguardare il dio imbecille e il dio folle (essendo il dio imbecille la perfetta manifestazione del meticciato e il dio folle la perfetta realizzazione della degenerazione della razza bianca), invece questa nuova domanda viene posta verso questa nuova figura, che riguarda che cosa si intende con amore, vale a dire: amore verso che cosa? cioè una forma che, nella piena sua manifestazione, tende a una forma completamente diversa – da ciò che noi, frettolosamente, potremmo intendere come “dio dell’amore”.

Tre tipi di centri abitati si presentano nel romanzo: Fort McGurry, che è la meta che i due primi personaggi incontrati nel romanzo cercano di raggiungere; di questi due personaggi sapremo solo i nomi, Bill e Henry; Bill e Henry trasportano il corpo morto chiuso in una bara di un terzo personaggio, successivamente, e solo per una volta, identificato come lord Henry; Bill e Henry e il loro carico silenzioso sono inseguiti da un branco di lupi, una serie anonima da cui si determina un solo individuo, una lupa, che viene indicato come probabile frutto di incrocio fra il lupo e il cane, perché anche il suo modo di fare ha qualcosa delle astuzie di chi ha frequentato una forma qualunque di essere umano, anche la più inferiore, come appunto è la forma rappresentata dal meticcio Castoro Grigio, e che quel meticcio potrà poi riconoscere con il nome datole da un altro meticcio a lui molto vicino per vincoli naturali, il proprio fratello, per cui, il meticcio Castoro Grigio, essendo nel frattempo crepato il fratello, “reale padrone” della lupa, pensa di potersi appropriare della lupa in quanto “cosa” che apparteneva al fratello, e per far valere questo diritto, il meticcio Castoro Grigio non fa altro che chiamare la lupa con il nome che il meticcio suo fratello, prima di crepare, le aveva riservato, cioè il nome “Kiche”, e, al suono di quel nome, la lupa si sottomette, destando la meraviglia, e quindi la sottomissione, per imitazione, del figlio della lupa, da un meticcio qualunque chiamata Kiche, e che un altro meticcio qualunque darà poi il nome di Zanna Bianca. Infatti un meticcio vede solo gli elementi con cui ha a che fare come cose senza rendersi conto che esso stesso è una di quelle cose, e senz’altro una delle più disgustose e meritevoli di essere soppresse – ma di questo verrà fatto cenno in seguito.

Intanto è importante notare l’uso del dialogo attraverso tutto questo romanzo, essendo il linguaggio ciò che caratterizza la specie umana, separando tale specie dagli animali.

Il romanzo Zanna Bianca presenta tre tipi assolutamente diversi di linguaggi: il dialogo elementare tra Bill e Henry lungo tutta la prima parte del romanzo; il dialogo costituito da richiami elementari fra i nativi, che può essere tutto riassunto nel richiamo del meticcio Castoro Grigio alla lupa: “Kiche” (III/1); infine il dialogo evoluto che intercorre tra Weedon Scott e il suo dipendente Matt (IV/5), – che riguarda ciò che finalmente viene indicato come ciò che ha diritto di vivere. Questo perché il pieno raggiungimento del dialogo, in quanto tempo del linguaggio umano è ciò che riguarda chi ha diritto di vivere. Infatti il primo balbettamento di dialogo comporta solo il modo di portare in salvo la pelle; il secondo balbettamento di dialogo comporta il riconoscimento dell’imposizione del bastone per salvaguardare la propria carcassa; ma il terzo dialogo, dialogo a tutti gli effetti, perché basato sulle autentiche caratteristiche del linguaggio, comporta la questione di ciò che ha diritto di vivere. Vale a dire ciò che riguarda la forma cui spetta il diritto di vivere. Il dialogo oltrepassa Beauty Smith, perché è a tutti gli effetti ciò che riguarda l’approssimazione all’essere umano in quanto garanzia della propria vita, ponendosi verso la formazione di un nuovo discorso basato su ciò che ha diritto di vivere.

Nel primo caso (stadio elementare del meticciato) il linguaggio è una serie di luoghi comuni; nel secondo caso (stadio del meticciato della razza bianca) il linguaggio è una serie di segnali; ma nel terzo caso (stadio autentico della razza bianca), il linguaggio serve a stabilire a chi spetta il diritto di vivere, che comporta il diritto di abitare la terra, ma poi il diritto di chiamare i nuovi dèi della terra, che saranno, allora, i veri padroni della terra. Infatti l’uomo non sarà mai il vero padrone della terra finché non avrà accettato il diritto di stabilire a chi spetta il diritto di vivere.

Bill e Henry scorrono la terra allo scopo di raggiungere Fort McGurry, così come anche il dio folle Beauty Smith scorre la terra spostandosi da Fort Yukon a Dawson, dove avrà la sfortuna, per lui, di incontrare Weedon Scott, che lo priverà della sua grande fortuna e fonte di reddito, Zanna Bianca, come egli aveva prima fatto, privando il meticcio Castoro Grigio della propria modesta fonte di reddito, cioè lo stesso Zanna Bianca.

Weedon Scott ha un legame con la terra, che non è l’Aperto da scorrere (come nei trasferimenti di Bill e Henry), né il luogo circoscritto da raggiungere (come nel trasferimento di Beauty Smith), ma una terra che pone la domanda al suo abitante e, sulla base della risposta, la terra gli pone infine il nuovo stadio a cui giungere.

Il primo centro abitato è un forte da raggiungere, Fort McGurry (è ciò che impegna Bill e Henry nella loro corsa attraverso l’Aperto), poi abbiamo un miserabile accampamento indiano, dove agisce il capotribù Castoro Grigio, destinato alla ridicola brutta fine che sappiamo, fine nella quale, tuttavia, c’è un sacco di divertimento, posto che la si voglia suonare fino in fondo, con tutti suoni della veglia che le spetta – da quel disgustoso meticcio che, per razza, era sempre stato; poi una città, dove agisce il degenerato Beauty Smith, e infine una “grande città” (dove avviene la morte di Dio e si sancisce ciò che, a partire dalla morte di Dio, deve essere stabilito come responsabilità della razza bianca su ciò che comporta l’accettazione della morte di Dio). Infatti altri e più potenti dèi possono adesso comparire, essendo Weedon Smith, a tutti gli effetti, l’ultimo dio.

Un posto a parte occupa JIM HALL, che pur non essendo un “padrone di Zanna Bianca” condivide la divinità dei suoi veri padroni, essendo esso una cosa di razza bianca, ma presentandosi come una specie di sintesi: è primitivo, mezzo bambino, rozzo come il “dio imbecille”; non è folle come Beauty Smith, ma è un caso di degenerazione della razza bianca, come appunto lo era stato Beauty Smith, con la sua bruttezza e il suo carattere odioso. Zanna Bianca uccide il “dio” Jim Hall e l’uccisione è approvata dagli dèi giusti, vale a dire dai rappresentanti dell’autentica razza bianca. Jim Hall non ha mai avuto rapporti con Zanna Bianca, prima che, di propria iniziativa, entrasse di nascosto nella casa sorvegliata da Zanna Bianca allo scopo di uccidere il proprietario della casa, il padre di Weedon Scott, scatenando così l’attacco dell’animale. Jim Hall è il primo caso di uccisione di un dio di razza bianca, per quanto degenerato, legittimata dagli autentici dèi della razza bianca.

3. L’uccisione del dio

Castoro Grigio è il meticcio che insegna a Zanna Bianca il rispetto verso gli dèi con le bastonate: ma, sotto quel dio, Zanna Bianca imparerà, furbescamente, a mordere impunemente un dio e poi un animale appartenente a un dio, e imparerà infine a uccidere il dio inferiore e gli animali posseduti da un qualunque altro dio inferiore, perché è giusto che così sia: perché o non esistono dèi del tutto, o esistono dèi di razze inferiori e dèi di razza pura. Le bastonate di Castoro Grigio scandiscono la decameronizzazione del mondo, perché sono la decameronizzazione che il mondo ha dovuto subire. Questo perché il meticciato è uguale in tutto il mondo e può essere riconosciuto in tutto il mondo, sia che riguardi il Decameron del paroliere del disgustoso meticcio italiano Giovanni Boccaccio, sia che riguardi un sistema mitico del meticciato dei tanti nativi americani che compongono le diverse tribù laggiù presenti: infatti un meticcio italiano, che sia il meticcio italiano Giovanni Boccaccio o un qualunque altro meticcio italiano, è uguale a un qualunque altro meticcio che occupi per caso il mondo. Un meticcio è sempre un meticcio qualunque, cioè la cosa intorno alla quale deve imporsi il discorso relativo alla soppressione del meticciato, affinché una nuova e superiore forma di specie umana possa comparire e un luogo possa ritornare parte del mondo.

Io parlo solo del meticciato, del meticciato italiano prima di tutto, essendo il meticciato italiano la forma di meticciato nella quale mi sono trovato, indipendentemente dalla mia volontà, ad arrabattarmi per una questione di nascita. Detto questo, devo aggiungere che è la stupidità del meticcio, che non tollero.

Per cui il meticcio italiano è il mio bersaglio.

È importante l’opposizione “Nativi/Esseri umani”. Il nativo è un essere primitivo, di intelligenza limitata, sempre più vicino alla natura che alla cultura; l’essere umano è rappresentato dalla razza bianca, è più variegato e complesso del nativo americano, ma è interamente dalla parte della cultura. Notare che Jack London definisce i nativi “Gli dèi del Wild”, cioè coloro che sono compresi nel Wild; i bianchi vengono definiti “Gli dèi superiori”, coloro che non appartengono al Wild, che possono entrare nel Wild per avere con esso rapporti temporanei, ma che non ne costituiscono parte inscindibile, perché ne sono staccati. Tuttavia Jack London riconosce una grande differenza tra questi tipi di dèi: che comporta il dio folle (la degenerazione della razza) e il dio dell’amore (il dio della razza bianca, al quale spetta il confronto con la domanda fondamentale: “A chi spetta il diritto di abitare la terra?”, ma che comporta la domanda: “A chi spetta il diritto di scegliere chi ha il diritto di vivere?”).

Infatti l’essere umano ha creato il cane, ma ha permesso la diffusione delle varie forme degenerate della propria specie, cioè la specie “umana”. Ora un nuovo compito lo attende e chiama: non solo la responsabilità per la forma creata in modo irresponsabile, il cane dal lupo, bensì la creazione di una nuova specie di essere umano, che non avrà più nulla a che vedere con ciò che si è finora definito “essere umano” – e che comporterà infine la vera liberazione del lupo dal cane (eppure forma davanti alla quale, a questo punto, l’uomo fa orecchie da boccaccesco mercatante).

Non si tratta più della possibilità di uccidere un individuo, per la cui azione ci si trova poi a chiamare il castigo, ma della possibilità di annullare come delitto tutta quanta l’uccisione di una razza – passare cioè dal delitto al genocidio – forma per la quale nessun romanzo sulle sue storte gambette si è mai fatto avanti sinora, ma non più portato all’accettazione del castigo, bensì legittimato dalle nuove leggi della razza, che non imporranno mai un castigo per questo perché non deve suonare come delitto.

Il compito che spetta al vero dio della razza bianca è la soppressione del meticciato e del degenerato di razza bianca. Il compito che lo aspetta consiste nel compito di alleviare la terra, creando così il simbolo della terra alleviata, allo scopo di creare la nuova armonia tra chi ha il diritto di abitare la terra e la terra stessa, a cui bisogna rendere il compito di scegliere il proprio abitante, cioè il compito di siglare il nuovo patto fra la terra e coloro che hanno diritto di abitare la terra, che devono essere scelti, in quanto veri abitanti della terra, dalla terra stessa, consistendo in questo il nuovo sigillo.

L’uccisione di Dio non consiste solo nella constatazione della morte di Dio, riguardando invece, l’uccisione di Dio, il confronto di ciò che l’atto di aver ucciso Dio, e di aver autorizzato l’uccisione di Dio, deve poi comportare per tutti coloro che, anche indirettamente, hanno ucciso Dio.

Zanna Bianca passa così, attraverso le forme dei suoi tre padroni, attraverso il Meticcio, il Degenerato, l’Ultimo dio. L’ultimo dio non può che confermare ciò che il Meticcio ha a suo tempo combinato, fornendo all’individuo che il meticcio ha combinato (cioè il cane Zanna Bianca), il luogo dove restare, ma volgendo in essere ciò che è il nuovo compito della razza bianca: alleviare la terra, vale a dire creare il nuovo spazio come spazio di terra destinato alla razza bianca, spazio che deve passare attraverso la soppressione della razza inferiore (il nativo) e la soppressione della degenerazione della razza superiore, che è il meticciato.

Il romanzo inizia con l’Aperto. La figura che si delinea dalla serie è la lupa, dal dio imbecille chiamata Kiche prima della sua fuga, e che porterà alla comparsa di Zanna Bianca, che presenterà, per la seconda volta, l’episodio della carestia, elemento scatenante della fuga della madre, quindi della fuga dallo spazio occupato dal dio imbecille e poi il ritorno allo spazio occupato dal dio imbecille (non essendo più quell’individuo adatto al Wild). Il capitolo finale è ambientato nello spazio circoscritto, con Zanna Bianca che scompare in esso, perfettamente integrato dopo una morte simbolica che ha comportato lo squartamento e poi la ricomposizione simbolica del proprio corpo, la necessità di imparare di nuovo a camminare e il riconoscimento da parte dei cuccioli come affine, cioè un ritorno, da parte di Zanna Bianca, allo stato del cucciolo nella tana.

A questo punto bisogna chiedersi: in quale momento, Zanna Bianca, ottiene il pieno riconoscimento all’interno dello spazio circoscritto (la tenuta del giudice Scott) nel quale gli è capitato di trovarsi ad essere sistemato? Quando ammazza il bandito Jim Hall, il secondo tipo di bianco degenerato che il romanzo presenta, dopo l’attacco al primo tipo di bianco degenerato, rappresentato da Beauty Smith (che Zanna Bianca non ammazza, ma solamente ferisce; e ferisce solo dopo che il degenerato Beauty Smith si era introdotto di nascosto nella proprietà di Weedon Scott allo scopo di rubare Zanna Bianca, portando con sé gli emblemi araldici della sua antirazza: il randello e la catena).

Perché Jim Hall viene ucciso, mentre Beauty Smith viene soltanto ferito (vale a dire “risparmiato”)? La vita dell’uno non è più importante di quella dell’altro, poiché, in entrambi i casi, si tratta di “vita indegna di vivere”; ma questo non toglie che l’accettazione della soppressione del degenerato possa avvenire solo in alcuni momenti, momenti divinamente privilegiati – almeno per ora. L’uccisione del meticcio Beauty Smith non avrebbe nessuna importanza simbolica: la vita del meticcio, in quanto vita indegna di vivere, ha importanza solo a livello di simbolo. Jim Hall deve infatti morire così come Zanna Bianca deve sopravvivere, perché solo così può funzionare il passaggio del compito riservato alla razza, che è ciò che dall’individuo passa alla specie.

Questo apre la questione dei tre tipi riguardanti l’annientamento riservati ad altrettante persone presenti nel romanzo. Castoro Grigio crepa come alcolizzato, ed è nella forma farsesca di anticapo che la sua tribù lo vedrà tornare – per poi crepare. Beauty Smith crepa con il braccio devastato da Zanna Bianca, particolare che si aggiunge al suo fisico già ampiamente bollato come fisico di degenerato di razza bianca. Jim Hall crepa dilaniato da Zanna Bianca nel corso della battaglia alla quale egli tiene arditamente testa, ferendo gravemente Zanna Bianca, poiché il suo è, a tutti gli effetti, un fisico imponente, che può stare alla pari con quello di Zanna Bianca (Jim Hall non è, infatti, come Jak London precisa, un individuo bollato dalla nascita, ma il prodotto di un fascio di circostanze che si sono trovate ad agire malignamente contro di lui, quasi coalizzandosi per provocarne la rovina).

Zanna Bianca è un romanzo che, attraverso la messa in gioco di una tripartizione di figure mitiche, retroattivamente procede dalla farsa verso la tragedia; e attraverso questi tre tipi di annientamenti, Zanna Bianca viene sempre più direttamente a trovarsi coinvolto – questo perché la sua funzione consiste nel condurre a destinazione la domanda: nel primo tipo di annientamento (quello che riguarda il meticcio Castoro Grigio), Zanna Bianca è solo indirettamente coinvolto: Beauty Smith vuole acquistare Zanna Bianca dal suo “legittimo” proprietario, e, rifiutando, il meticcio, la vendita, l’unico modo per appropriarsene è fare in modo che il meticcio Castoro Grigio non capisca più niente, vale a dire stordirlo con l’alcol, come il degenerato Beauty Smith astutamente decide di fare, allo scopo di risolvere la questione altrimenti irrisolvibile. Il secondo tipo di annientamento vede Zanna Bianca coinvolto in quanto ferimento di Beauty Smith. Il terzo tipo di annientamento vede invece Zanna Bianca più che attivamente coinvolto, proprio perché l’attacco di Zanna Bianca provocherà l’annientamento immediato (e non ritardato, come nel caso di Castoro Grigio) del secondo e ultimo tipo di bianco degenerato che il romanzo presenta e la stessa morte simbolica di Zanna Bianca. Notare che Beauty Smith viene aggredito fuori casa, mentre Jim Hall viene aggredito dentro la casa: nella prima aggressione, apertamente diretta contro Zanna Bianca, Zanna Bianca non aveva diritto di entrare all’interno della casa, mentre nella seconda aggressione, in nessun modo diretta contra Zanna Bianca, Zanna Bianca aveva un parziale diritto di entrare nella casa, in virtù del patto che si era stabilito fra la donna della casa e il cane del Wild.

L’annientamento di Jim Hall è indirettamente permesso dalla moglie di Weedon Scott, che, come consuetudine ormai da tempo, di sera, ella faceva entrare in casa il cane Zanna Bianca, facendolo poi uscire presto di mattina, all’insaputa di tutti quanti all’interno della casa – e questo patto segreto, fra la donna e il cane, ha permesso al cane di sorprendere l’intruso nel momento in cui l’intruso aveva l’intenzione di uccidere il padrone della casa, casa nella quale egli si era furtivamente e fraudolentemente introdotto. Questo patto di lealtà fra la donna e il cane si contrappone all’antipatto che legava gli indiani femmina (le squaw) e il cane (Zanna Bianca), quando il cane (Zanna Bianca), cercava di rubare la carne e il pesce agli indiani femmina (le squaw) che lo custodivano come loro compito, e gli indiani femmina (le squaw) lo allontanavano con lanci di pietre.

Infatti il tipo Jim Hall non è altro che l’aggiornamento del tipo Beauty Smith: questo tipo non ha la vigliaccheria e nemmeno l’impotenza di Beauty Smith, ma rappresenta l’aggiornamento del tipo Castoro Grigio. Ma questo è l’aggiornamento sempre possibile di un tipo, almeno fino a quando il tipo base non verrà superato, cioè soppresso (questo deve essere chiaro, ma questo può avvenire solo attraverso un progetto statale, che il romanzo non può presentare, e non come iniziativa individuale, come il romanzo invece indirettamente presenta) – per cui, a quel punto, non vi saranno più aggiornamenti. Così abbiamo superato lo stadio del dio imbecille, rappresentato dalla presenza dei nativi americani, ma siamo in presenza di due tipi di bianchi degenerati, non di divinità, che sono il dio folle e il dio che non crede più in Dio.

Weedon Scott è il dio che legittima la morte di Dio, ma è colui cui spetta il nuovo compito, che il romanzo non presenta, né potrebbe mai presentare – come tipo di romanzo: la creazione della terra alleviata, che sarà la nuova apertura della terra, come piena accettazione della morte di Dio, perché dovrà finalmente, in armonia con i propri abitanti, avere a che fare con l’annientamento del meticcio e del bianco degenerato, battaglia che costituirà il nuovo patto stipulato con la terra, ispirato all’amore della terra fra coloro che la terra avrà scelto come propri abitanti e la terra stessa – e in questo senso, cioè nel nuovo patto stabilito con la terra e con chi ha diritto di abitare la terra, Weedon Scott può essere definito, adesso giustamente, senza bisogno di ulteriori precisazioni, “Dio dell’amore”, come Jack London lo ha più volte definito in questo romanzo.

Rapagnetta

Leggendo gli scritti del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio, si ha a che fare, alla grande, con ciò che è lo scrittore del meticciato – per una volta tanto.
Nella sua gracile genialità, Gabriele d’Annunzio ha assemblato parole del meticciato italiano allo scopo di comporre opere di “letteratura” per il meticciato italiano; ha assemblato spicchi e parole, forme e terriciattole prelevandole dal patrimonio comune del meticciato italiano; ha assemblato, nell’ultimo suo progetto, spicchi e spacchi di terreno per il meticciato italiano.
In che cosa consiste, vale la pensa chiedersi, l’arte inimitabile di d’Annunzio? nel comprendere, forse, il problema del meticciato? nel rivestirlo, forse, di parole più che adatte a giustificare tutta quanta la maledetta Italia?
Pensare in che cosa consista la gracile genialità di d’Annunzio è pensare la rapagnetta qualunque da cui il progetto d’Annunzio ha preso perfido salto d’inizio. D’Annunzio era una rapagnetta qualunque, che solamente con il rivestimento delle giuste parole sarebbe stato in grado di svolgere la funzione di annunzio di ciò che non s’era mai visto in quel campo di rapagnette a lui sì prossimo sol per nascita. A malapena, volendo rinascente la letteratura nella maledetta, vecchia e bisunta Italia, d’Annunzio poteva comparire qual personaggio di un romanzo di (oppure alla) Jack London. Ma questo non dice molto, visto che anche Dante era piccola, squallida istessa cosetta.
Prima di essere un paese senza eroi, l’Italia è un paese senza poeti. Fare poesia è ciò che permette di passare dalla parola, che è ciò che garantisce la comunicazione tra coloro che compongono anche per caso una società, alla lingua, che invece è il tesoro della razza.
D’Annunzio è stato il nuovo Dante – nell’arte piena del bluff, per cui non si faranno mai i conti con d’Annunzio se non si faranno i conti con Dante. Rapagnetta è solo un nome che nulla annunzia, perché alcune persone sono sempre tagliate per restare fari d’ignoranza.
Due cose sarebbero da considerare alla pari: la letteratura, che il meticcio italiano non ha; la terra, che il meticcio italiano non ha. Due cose riassunte nel poeta e nel paroliere, la terra e la razza, e il luogo dove infine nascondersi.
Ma due cose che il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio ha sospeso in entrambi i casi, tramite arte sua, come sintesi che investe soltanto parole, terreno e poi nient’altro. Per qualunque meticcio avere dove andare è disporre di avere terreno sotto i piedi dove espletare i propri bisogni fisiologici di volta in volta più urgenti: in certi casi scrivere, in altri casi costruire.
Il Vittoriale ha funzione di mezzo teatro beffardo di Bayreuth; il teatro è ciò che viene da lontano e che meno che mai appartiene agli incubi della razza bianca; il Vittoriale è ciò che è fatto per funzionare come meta beffarda e poi lazzo turistico. Per il meticcio italiano il Vittoriale è solo la brutta copia beffarda del teatro di Bayreuth – sbeffeggiato più volte da Nietzsche.
Ma… Se d’Annunzio, nella sua posizione di rapagnetta, avesse immaginato qualcosa? Intendiamoci, d’Annunzio era un genio che ha piegato la propria genialità, la questione è verso che cosa s’è inclinata la sua piegatura. Se avesse pensato di giocare un brutto tiro – alla fine di una carriera che egli poteva avere avuto il tempo di comprendere, nonostante tutto, come fallimentare (perché fondata, derisoriamente, sul niente, quando egli non voleva che così fosse), perché nascere poeta richiede una nascita di razza (che comporta una terra, che si deve prendere, e una lingua, che si deve ottenere come allontanamento dalle parole, e non la nascita da una rapagnetta qualunque in un terreno di misere rapagnette piantato a suon di piatte parole e terriciattole)?
Abbiamo l’opera di d’Annunzio e abbiamo il Vittoriale degli italiani voluto da Gabriele d’Annunzio. Nella costruzione della sua casa-mondo, d’Annunzio ha rinunziato una volta per tutte alla catapecchia carducciana di vecchie parole in disfacimento della maledetta Italia. Così il Vittoriale potrebbe funzionare come L’Esegesi di Philip K. Dick – ma ancora più spropositato a livello di chiusura, perché non circoscritto alla sola arte di scrivere, ma aperto all’arte di segnare il terreno capitato per caso di segnalare sotto i piedi.
Scrittore è colui che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualunque è stato lasciato per caso lì in mezzo – però nel momento in cui lo scrittore è giusto colui che può passare dalle parole alla lingua della razza, quindi nel momento in cui è possibile cominciare a pensare per razze. Così scrittore è lo strappo che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato solo tra le cose del mondo nel momento in cui le cose del mondo non sono diventate altro che parole; per cui abbiamo la serie: le parole e le cose, la lingua e la Cosa, la Cosa e il þing, che è la riunione di cose.
Questo comporta porre su di uno stesso piano di interrogazione le parole e le cose, la Cosa e la lingua.
Comprendere l’arte di un meticcio è sputare in faccia al meticciato ciò che, al caso limite, costituisce l’indiscutibile genialità di quel meticcio, che comunque deve essere soppresso in quanto cosa che occupa la terra.
Divertente! Allora d’Annunzio sarebbe il vero poeta della razza bianca, che il meticciato può avere in quanto tale, perché lo spirito va dove vuole (come notava Dumézil a proposito dell’ambiguo personaggio di Loki), anche attraverso il meticcio italiano d’Annunzio, magari per andare oltre lo stesso meticcio italiano d’Annunzio (nome di razza: “rapagnetta”). Se d’Annunzio avesse capito che gli italiani sono solo meticciato e avesse, allora, veramente, per la prima volta, pensato Nietzsche, autore che, nella sua opera multiforme, per quanto più volte trattato, platealmente ha sempre dimostrato di non avere mai capito, a partire da un’arte che non era fatta per pensare, e avesse invece atteso il progetto del Vittoriale per dimostrare di avere quello che aveva donato, cioè buttato via, vale a dire il pensiero, cioè di avere afferrato il nocciolo, in un singol sito, della sua arte, picciola arte, arte-bluff?
Così le sale di un museo possono funzionare solo come autentiche sale di museo in quanto esibizione di ciò che è stato l’essere stato nel mondo di un dato essere sulla terra, dopo che quella presenza è stata annullata, e quel dato modo di essere è stato gioiosamente spazzato via. Non prima. Solo in rapporto alla presa della terra, che è il riferimento alla parola dell’antico nordico landnáma, si può comprendere l’ossimoro che è alla base del riferimento scelto da Gabriele d’Annunzio. Che cosa significa il motto “Io ho quel che ho donato”?
Dobbiamo ricordare che in ballo c’è solo una rapagnetta. Solo arrivando al bluff il meticciato italiano può arrivare al confine ben protetto con la terra de la poesia – alla quale il meticciato meno che mai ha accesso, né come meticcio italiano Dante, né come meticcio italiano Gabriele d’Annunzio. Il motto beffardo di d’Annunzio spiega che d’Annunzio ha quello di cui non ha mai goduto, cioè l’arte delle parole in quanto arte della lingua; così come il “popolo” che egli si arroga, ma che meno che mai è un popolo, perché non ha mai preso la terra che occupa e che egli stesso occupa, grazie a un nome, in quanto rapagnetta promossa ad altisonante annunzio di ciò che non ci sarà mai.
Per comprendere veramente d’Annunzio, così come per comprendere Dante, bisogna non apprezzare, ma disprezzare: DISPREZZARE IL METICCIATO. Questo perché non esiste né poesia né terra quando si ha a che fare con ciò che è l’andare e il venire del meticciato. Bisogna quindi fare in modo di vedere il meticciato come il niente sospeso sul niente che, a un certo punto, nella veste di una rapagnetta qualunque, ha vittoriosamente basato la propria causa sul niente – al fine di fare piazza pulita del meticciato.
Se la letteratura è ciò che è possibile solo in quanto arte della menzogna, allora creare letteratura è possibile solo se si sa di mentire, cioè di praticare l’arte che ha nella menzogna la propria paradossale unica e propria forma di verità in quanto conformità.
La rapagnetta d’Annunzio era ciò che non poteva avere accesso al tesoro della razza, poiché non esiste razza italiana, mentre noi sappiamo che esiste il meticciato italiano, cioè l’ANTIRAZZA. La perfida rapagnetta d’Annunzio ha avuto qui la funzione del furto di ciò che ha permesso la circolazione dell’arte, in questo caso, della finta poesia, che suona entro il canto del furto della bevanda di immortalità.
Ma d’Annunzio è stato un signore dell’arte di combinare parole; quello che lì, cioè in lui, mancava era l’arte della lingua, che sola avrebbe potuto chiamare la razza, che sola poteva portare alla lingua in quanto tesoro della razza. D’Annunzio ha donato la parola, di cui ha potuto fare rocambolesco uso in tutta la sua carriera di ladro e paroliere del meticcio italiano, ottenendo nient’altro che ciò che non ha mai avuto che nella forma finale del Vittoriale, cioè di terreno da riempire con un ammasso di tanta piccola chincaglieria e paccottiglia di salsicce kitsch, futili massicce deiezioni dello scorrere la terra, così come tutta la sua arte letteraria non è stato che un allineamento di piccole parole-forme kitsch. Ma questa doppia prospettiva, il nulla dell’arte dannunziana della letteratura, il nulla dell’assemblaggio kitsch del Vittoriale, non è altro che il modo migliore per sputare in faccia al meticcio italiano il nulla in cui insiste il terreno parallelo a dove consiste il nulla della terra occupata dal disgustoso meticcio italiano. Si dona quello che non si è mai posseduto, cioè l’arte di scrivere, prendendo in cambio la finzione del prendere terra, che è l’arte di descrivere, il tutto nel bluff del progetto del “Vittoriale degli Italiani”. Perché tanto la letteratura italiana, quanto l’Italia, sono soltanto disgustoso bluff ai danni della razza bianca.
Se d’Annunzio avesse voluto veramente colpire la letteratura italiana, dopo avere compreso che si trattava solo di “parole per il meticciato”? Vale a dire: se il progetto del Vittoriale fosse servito a fermare il progetto che si era manifestato, in tutta la sua genialità, verso l’indirizzo di una nuova letteratura, con La Leda senza cigno?
A quel punto il Vate del meticciato si era reso conto di non avere più terra dove andare, perché oltre c’era veramente la letteratura – ma un vero meticcio non vuole rinunciare al meticciato, che è il marchio di razza che costituisce l’antirazza, che è il motivo della sua esistenza, che permette il cambio di nome, ma non il salto di razza – e se comprende che basta un passo per entrare nel regno della letteratura, quel passo, allora, il vero meticcio si guarda bene dal compierlo – costi quel che costi.
Un legame perfetto lega l’opera di d’Annunzio al progetto del Vittoriale in base a ciò che lega parole e lingua in uno scrittore – legame che in d’Annunzio non può che essere assente – a ciò che lega letteratura e presa di una terra, che nel progetto del Vittoriale si presenta come bluff, motto beffardo inciso in pietra all’entrata: “Io ho quel che ho donato”. Ma che, in un meticcio, comporta il momento della scelta. Gabriele d’Annunzio, in quanto paroliere massimo del meticciato italiano tra Ottocento e Novecento, riconosce di non avere preso mai terra, ma proprio per questo, può riconoscere di avere proprio quello che non ha mai preso, perché solo in quel modo (facendo riferimento alla sua arte di parole che mai ha potuto rimandare ad una lingua) può incidersi come parola che non rimanda a una lingua nella cartapecora della sua razza, come terra che non è mai stata presa, nel terreno che fa da supporto alla sua antirazza (perché di questo si tratta) – così come le parole che aveva sempre usato prima lungo la sua carriera di Vate, erano parole che non rimandavano a una lingua, bensì parole destinate a rimanere sospese in ciò che non è letteratura e meno che mai poesia.
Se poesia è ciò che rivela alla razza il destino della razza attraverso la lingua cui la razza non ha immediato accesso, ma alla quale solo la poesia può giungere attraverso la parola, allora d’Annunzio è il paroliere che rivela al meticciato la caduta in un destino fatto di parole, in un tempo, fatto di soprammobili, in un altro, che inevitabilmente lo attende in quanto nient’altro che paroliere del meticciato, anziché di poeta della razza, che comporta invece l’incontro con la lingua e la Cosa.
Scrittore è colui che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato a vedersela da solo col mondo – però nel momento in cui scrittore è ciò che è in grado di passare dalle parole alla lingua che è il tesoro della razza, che solo il poeta porta con sé senza sapere, quindi nel momento in cui è possibile cominciare a pensare per razze: così scrittore è strappo che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato solo tra le cose tante del mondo. Per cui abbiamo la serie che comprende le parole e le cose, la lingua e la Cosa, la Cosa e il þing (che è la riunione delle cose del mondo).
La fabbrica di mostri viene interrotta, nel romanzo di Mary Shelley, quando il protagonista rifiuta di creare il mostro che potrebbe mettere in pericolo il genere umano.
L’arte di Gabriele d’Annunzio ha una forte, costante, beffarda, valenza funebre (pensate alla potenza del romanzo Trionfo della morte), così come beffardo è il motto finale, che suona “Io ho quel che ho donato” – che si vorrebbe salutarmente rivolta contro l’ANTIRAZZA alla quale il Vate maledetto pure apparteneva per la sola forma delle parole, ma questo non è stato, perché l’arte di d’Annunzio è arte tutta quanta sospesa. Destinata a rimanere arte sospesa, perché giustamente arte senza terra e arte senza lingua – vale a dire arte d’accatto.
Come persona, Gabriele d’Annunzio aveva qualcosa di viscido – ma questo vale per tutti gli italiani: gli italiani sono viscidi perché il loro modo di parlare è un modo di parlare viscido, che fa forza su zampette e antenne (fateci caso! per trovare, in Europa, simile viscido modo di parlare, bisogna farsi vicino vicino al modo di parlare degli slavi, ma questo, direbbe Lukács, “è un’altra storia”) –, che i filmati restituiscono appieno, qualcosa dell’iguana cortese che ha imparato a stare ritta su due gracili zampette, per quanto storte siano, zampette che sorreggono assai modesta statura, e nella mimica facciale – molto di funebre che era lezzo foriero di sora nostra comune putredine. Non è il caso di dire che Gabriele d’Annunzio possedeva, coerentemente in tutto ciò che lo connotava, la sgradevolezza del meticcio? D’Annunzio è l’artefice e l’amministratore di una parola viscida: lo si nota soprattutto nella sua poesia; la parola di d’Annunzio non è una parola che colpisce, è una parola sinuosa che avvolge, distrae, svicola e stordisce, che non si fa cogliere con facilità, che costringe a una rilettura, è insomma una parola viscida a tutti gli effetti; questo lo deve in parte alla lingua (la lingua italiana è una lingua viscida), in parte al suo modo di comporre, perché d’Annunzio stava soprattutto attento a non rivelare, a nascondere sempre qualcosa ai suoi lettori più che a incamminarli verso un tragitto, che invece è quello che il vero scrittore deve fare – ma succede con lo scrittore quello che succede per chiunque stia su una terra che non ha scelto il proprio abitante; era un falso Vate, un cattivo poeta, perché era un vero bugiardo, su questo non c’è dubbio – e questo è il punto più alto che possa raggiungere uno scrittore italiano.
Dopo d’Annunzio, mediocre meticcio italiano, nonostante tutto, nella media, spunta in istesso campo Pasolini, mediocre finocchietto italiano, allora del tutto fuori dalla media – e si è finiti tutti quanti giù per “terra” in un mare mondo di tanto petrolio sversato, come skáldfífl, che è la quota che spetta al meticcio italiano in quanto “poetastro”: niente di più. Fine. Punto.

Buzzati, “Il panettone non bastò”

Miguel Serrano vedeva nei monumenti megalitici la prova dell’esistenza di un qualcosa paragonabile ad una forma di agopuntura della terra, coerentemente applicata in quanto tale, volta a convogliare l’energia presente nelle profondità della terra in punti sensibili sulla sua superficie, che poteva essere recepito da ciò che si trovava sulla superficie: allora in grado di agire benevolmente sui popoli che hanno il diritto di abitare la terra, perché scelti dalla terra; ma di agire in modo tutt’altro che benevolo sui gruppi di cose e genti che non hanno il diritto di stare in quel punto della terra, perché quelle cose scorrono oppure occupano la terra – e allora non c’è altro da aspettare che vengano rimossi da lì.
Dino Buzzati: lo scrittore inutile.
Che è il caso di fare in modo che venga rimosso da lì.
È difficile definire l’utilità di uno scrittore in una formula sintetica, ma, di sicuro, la definizione di “scrittore inutile”, come formula descrittiva per uno scrittore, si addice perfettamente allo scrittore italiano Dino Buzzati, riflettendo, tale definizione, l’inutilità della letteratura italiana – considerato che, per quanto possa essere difficile stabilire l’utilità di una letteratura nell’insieme della Weltliteratur, la letteratura italiana si può definire solo grazie alla perfetta sua rumorosa et assoluta et spettrale singolarmente piena sua INUTILITÀ. (Che cosa vuole, c’è da chiedersi, questo meticcio di italiano, con la sua letteratura d’accatto?)
Fare lo scrittore come mestiere è la tentazione che riguarda colui che si trova ad avere il giusto gusto per le parole, quando il senso della lingua è andato perduto e scrittore è colui che si ritrova, ormai, sperduto ad avere senso per il gioco della lingua, tra le macerie delle parole – non avendo più senso alcuno il fatto di essere scrittore.
Lovecraft è stato lo scrittore che nelle sue opere ha rappresentato l’effetto delle vibrazioni della terra su coloro che, in dati tempi si trovavano ad abitare, oppure ad occupare, porzioni diverse della terra. Una cosa, oppure il suo opposto, vuole dire stare sovra una terra che ha comportato la presenza, in superficie, di tipi diversi di forme. La terra che è stata occupata dai nativi d’America trasmette vibrazioni sempre negative, che hanno effetti “positivi” sui degenerati, cioè sui meticci, perché ne sviluppa la potenza e porta quei meticci a completare, almeno in parte, i loro piani criminosi; mentre le stesse vibrazioni risultano disastrose per i sempre più dispersi individui di razza bianca – questo perché un meticcio non abita mai la terra, ma ha con essa soltanto un rapporto che non implica mai il fatto di “abitare la terra”, essendo il rapporto che un meticcio ha con la terra conseguente ad una occupazione. È il toponimo di origine indiana a rivelare la prima occupazione della terra, vale a dire ciò che costituisce la vibrazione originaria, sempre appena nascosta nel nome, a infondere forza al meticcio, ad attrarlo come calamita verso riti la cui finalità è nascosta all’individuo ma chiaro alla razza in quanto antirazza; ma a portare l’uomo che può scegliere a scegliere la parte sbagliata (è la sorte che spetta a Charles Dexter Ward tra le figure che gli fanno triste corona). Solo la razza bianca abita la terra, perché solo la razza bianca può arrivare a pensare, in termini di filosofia, ciò che significa abitare la terra. Un meticcio non abita mai la terra; un meticcio occupa la terra, come la occupa una pietra che si trova a stare in un punto preciso della terra, che occupa col suo peso quella parte di terra, se è difficile da spostare; oppure che scorre la terra, se basta un calcio soltanto per farla rotolare lontana da dove si trovava. La stessa Miskatonic Valley, al centro di tanti attacchi da parte del sovrannaturale, deve la sua vulnerabilità a causa del primo insediamento di nativi, che ne ha contaminato per sempre la geografia.
La domanda che dobbiamo porci davanti a un pezzo scritto da uno scrittore italiano, è una domanda da porci, che suona come domanda fantozziana posta nel tipo di una domanda che suona: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?”. Domanda indispensabile per deterritorializzare il punto dal quale il pezzo è stato puntualmente – lì, in quel punto della terra – posto insieme, fantozzianamente. Questo perché, in Italia, solo un clown può giungere a interpretare come gag ciò che invece è seriamente da pensare: vale a dire il collegamento tra opera d’arte e “cagata pazzesca”, che ha la sua spiegazione nella razza, solo se si accetta la possibilità della ANTIRAZZA, che è appunto ciò che non deve essere pensato.
Dino Buzzati rappresenta la possibilità di una antiterra di cui scrivere, nel momento in cui, in quanto “scrittore”, con estremo candore ti scodella la possibilità di costruzione di case senza Natale, messe a punto da parte di un gruppo di architetti, che, per quanto decisi a mantenere il segreto di corporazione, relativo a non rivelare mai come costruire case senza Natale, comporta la realizzazione di case dove non arriva in nessun modo più lo spirito del Natale dalla terra – con il vantaggio di un prezzo di mercato irrisorio, indipendentemente dal punto dove costruire (La casa senza).
Sancire l’assenza di una festa come Natale in un paese cattolico come l’Italia comporta comprendere il Natale come assoluta e fastidiosa destrezza di gesti quanto esperienza di Vuoto assoluto. Che sono le due balle tra le quali l’Italia, con i suoi miti che non ha, si trova sballottata.
Il secondo caso è quanto capita a Nora, la protagonista del racconto Il cane vuoto, che di colpo, una vigilia di Natale, ha l’epifania del vuoto in cui consiste da anni la sua vita trascinata all’interno della sua casa di bambola quando deve portare d’urgenza il suo cane da un medico per una visita. Il cane le era stato donato dall’uomo che poi l’ha lasciata ed ella si era abituata a vedere in quel cane l’ultimo legame con l’uomo per mantenere il legame che ormai non c’era più, ma che doveva essere portato avanti all’interno della sua casa di bambola, che pure doveva essere portata avanti, per dare senso alle cose del mondo. La diagnosi è favorevole, poiché il disturbo è passeggero e non implica danni irreversibili nell’animale, ma quando cane e padrona raggiungono un parcheggio di taxi, e il parcheggio si rivela vuoto, la signora, di colpo, ha il senso del vuoto, che, dal cane, finora docilmente portato da una parte all’altra, fisso ora in quel punto, si propaga a tutto il resto del mondo e la signora capisce che quella fonte, che in lei le permetteva di riempire le cose del mondo di un senso, ormai si è esaurita, per cui quel cane è soltanto il ricettacolo del vuoto assoluto, che tutto il resto dell’ambiente manifesta.
Questa raccolta di trentatré pezzi (tra articoli, racconti, poesie) qui riuniti con il titolo Il panettone non bastò, mostra come Dino Buzzati abbia sempre pensato il tema del Natale con una perfetta, propria interna coerenza che convoglia un perfetto gioco di interno/esterno in quanto decoerenza.
Un racconto di Natale è possibile soltanto nella forma del confronto col mito – visto come ciò che non c’è, ma che c’è in quanto esperienza di ciò che ama nascondersi. Un racconto di Natale non può stabilirsi nel rincorrere una festa come insieme di consuetudini vuote (per un popolo che non c’è, raccontato da uno scrittore bluff, come appunto è lo “scrittore” Buzzati del meticciato italiano), ma come domanda da porre riguardante il mito – che c’è. Così un racconto di Natale, indipendentemente da quello che sono stati i racconti di Natale a partire da quelli proposti dallo scrittore Charles Dickens, deve porsi la domanda relativa a che cosa è il mito indipendentemente dal Natale – per cui un racconto di Natale molto riuscito è senz’altro il brevissimo racconto dal titolo freddo di Natale, composto dallo scrittore Friedrich Dürrenmatt. Si cerca solo quello che, nella sua completa assenza, mostra da sempre di esserci stato, ma che in un punto, per caso, a un certo punto, è venuto a mancare, e che coinvolge il popolo che, pur abitando la terra, si trova a porre adesso la domanda relativa a ciò che è il mito, a proposito del Natale, perché la festa di Natale – festa cristiana che rimanda ad una festa precristiana preesistente – è ciò che contiene adesso il mito. Ma meno che mai tutto questo è ciò che ha a che fare con il meticcio italiano. Così il punto, da punto che era in uno spazio, acquisendo consapevolezza del proprio stare come punto in una serie continua di punti, diventa un punto nel tempo in cui fare i conti con il mito che è fare i conti con il meticciato italiano: infatti si trova solo nel presente – ciò che il futuro darà occasione di perdere.
La festa del Natale cristiano rimanda alla festa precristiana che aveva luogo più o meno nello stesso periodo di tempo; prima della cristianizzazione dell’attuale Europa. Tolkien usa la parola inglese Yuletide per indicare le feste del calendario hobbit che riguardavano il periodo in oggetto. La parola inglese “yuletide” definisce il Natale cristiano, ma la parola “yule” è collegata all’antico nordico “Jól”, parola che indicava il periodo di tempo festivo intorno al solstizio d’inverno prima della cristianizzazione. Pensare allora Natale attraverso la parola Jól significa pensare, nel periodo cristiano, il mito precristiano. Quindi pensare il mito consapevolmente all’interno del tempo in cui il mito è assente perché ciò che è stato spazzato via. Dino Buzzati situa invece la propria riflessione all’esterno del tempo cristiano, senza possibilità di raggiungere la sfera del mito autentico, situandosi così come punto, ma punto irrazionale, immaginario perché inconsistente punto di separazione tra due serie.
Questo bolla la letteratura italiana come “letteratura” di un “popolo” che non ha mai preso una terra, che non ha una storia, non ha un popolo, non ha una lingua, ma ha tutto ciò per cui questo popolo deve essere scacciato dalla terra a seguito di una pulizia etnica – il meticciato invadente aggressivo.
Un meticcio è ciò che non abita la terra, ciò a cui mai è giunto il Dono della (possibilità di abitare la) terra, perché un meticcio è colui che occupa la terra oppure scorre la terra; questo perché un meticcio è ciò che spoglia la terra, riducendola a terreno dove soddisfare i suoi bisogni naturali più urgenti, durante il suo occupare o scorrere la terra. È quello che mostra Dino Buzzati in questi scritti dedicati al Natale, quasi regolarmente tenuti, anno per anno, dal 1934 al 1971, con il suo “popolo” di mogli e donne isteriche, uomini in carriera che devono districarsi con impegni delle feste di Natale e di doppi provvidenziali stipendi – e redazioni di giornali come terreno (ma non terra), che danno così vita a un Natale piccolo piccolo, a un Natale che non pensa il mito, a un Natale del Dovere, sulla nave da guerra nel tempo di guerra, a un Natale qualunquista dopo la fine della guerra, a un Natale dell’alchimia fra trovata pubblicitaria e favola vera da consegnare a un bambino, a un Natale qualunque come tutti gli altri, a un Natale dei tempi moderni della ideologia progressista, a un Natale dell’ultimo vecchio rimasto al mondo, a un Natale anti-mito, a un Natale come difesa della piccola favola ancora rimasta – per quanto Natale non significhi nulla, a un Natale piccolo piccolo che va bene così, a un Natale da romanzo storico con l’evocazione di quando il panettone non bastò, a un Natale buonista, a un Natale come rimbrotto, a un Natale fatale, a un Natale da Commedia all’italiana, a un Natale straniato, a un Natale immaginato una volta tanto volutamente senza regali, a un Natale di rabbia, a un Natale come epifania joyciana, a un Natale come ricerca del vero Natale, a un Natale in cui un Gesù Bambino cresciuto gioca a fare il trickster dove il mito bambino non c’è, a un Natale che rifà il verso alla storia di Mr Scrooge, a un Natale pasoliniano basato sull’importanza dei mezzi di comunicazione.
Quello che rivela l’inutilità dello scrittore italiano Dino Buzzati, nella sua piena qualifica di inutilità dello scrittore italiano, è l’abbraccio con lo stereotipo, che è quanto solo un inutile scrittore italiano poteva rappresentare: la decameronizzazione. Non ripeterò mai abbastanza quanto il Decameron di Giovanni Boccaccio, mediocre meticcio italiano, scrittore, sia l’archetipo dei cinepanettoni delle feste di Natale, con i quali noi adesso abbiamo sempre a che fare nel periodo di Natale, tra un acquisto e l’altro. Quello che un meticcio della “letteratura” italiana può scrivere saranno sempre “pezzi” al limite fra giornalismo, pezzi di costume e fiction, ma cose che non costituiranno mai la storia, cioè la saga, che costituisce invece l’insieme della storia del popolo che ha preso la terra legandola alla continuità del suo dire, che è il dire della razza, cioè la saga, che è il dire del mito come ciò che deve essere sempre cercato da parte dello scrittore di razza bianca.
Questo per dire che, in questo caso, cioè ciò che comporta gli scritti di Dino Buzzati, è che non c’è mai stata terra, tantomeno popolo, meno che mai razza, essendo stato Dino Buzzati, se non sbaglio, niente altro che un inutile quanto disgustoso meticcio italiano, che, nell’insieme di quel disgustoso impiastro che è il meticciato italiano, ha scelto di fare lo scrittore, avendo scoperto di avere quella comoda dimestichezza con le parole che poteva tornargli utile per sbarcare il lunario vita natural durante; e così è stato, per lui – no?
E questo basta.
Questo perché quando ci troviamo ad avere a che fare con il meticcio italiano, dobbiamo chiederci “Che cosa vuole, il meticciato, in Europa?”, perché questa è la domanda che deve essere posta in presenza della ANTIRAZZA cui non si deve dare possibilità di essere – mai, in nessun modo. Le parole sono scale che devono portare alla eliminazione del meticciato nella terra della razza bianca.

Våre arveord

Meno che mai scrivere significa avere a che fare con un qualche mestiere – chiunque dica di un possibile “mestiere di scrivere” con cui avere a che fare a proposito dell’arte di scrivere è sempre qualcuno che usa le parole dell’arte di scrivere in malafede, allo scopo di ingannare, malafede come soltanto un meticcio può maneggiare con tale disinvoltura, cioè in quanto meccanismo che prevede qualcuno che dica la verità di ciò che è non verità, cioè che dice la verità della menzogna, perché il meticcio è ciò che mai scorge il mondo: ma per il quale scrivere è la sorte che tocca alle parole quando queste schioccano d’un sol colpo come eredità a chi mai avrebbe voluto avere a che fare con quelle cose in quanto parole della propria eredità (dunque cose di un mondo che sono sempre state odiate, e che poi sono giunte appioppate solo come eredità di parole – questo bisogna averlo chiaro), infatti lo scrittore odia la lingua quando l’alingua è, materialmente, la sua unica e povera eredità fatta di parole, ma lo scrittore vede, vede avverte e sente la lingua, mai le parole, perché lo scrittore vede la composizione delle parole e la decomposizione della lingua, nel momento in cui le parole lo intralciano, ma il vero scrittore vuole distruggere l’alingua – questo perché il vero scrittore è ciò che ha a che fare con l’alingua, non potendo egli giungere alla lingua, che è il tesoro della razza, alla quale più non v’è accesso e la sua eredità è l’alingua in quanto tesoro dell’antirazza, vale a dire quel tesoretto di parole limitato, che bastano ad annullarlo, mentre violentare la lingua, parola dopo parola, per giungere all’alingua, che è nido non voluto di parole del meccanismo della falsa eredità, è ciò che egli vede in quanto risarcimento del tempo di essere stato lasciato solo fra le parole, nel tempo del lutto delle parole, che è il tempo della terra in lutto, per questo scrivere non è in nessun modo mestiere alcuno, infatti lo scrittore è tanto colui che non può rinunciare alla propria eredità, perché l’eredità è ciò che gli tocca in quanto ciò che lo ha da sempre sfiorato, quanto colui cui sta la possibilità di far franare la lingua violentandola parola per parola, senza mai pretendere di fare di questo atto di violentare mestiere alcuno – questo perché, che io sappia, non esiste il mestiere del violentatore – cioè nel rispondere alla possibilità di usare le parole in un modo diverso, fino a fare suonare l’alingua, che è ciò che non esiste che tra capo e collo di quanto è capitato in eredità come insieme di parole – di cui deve sempre fare qualcosa per strozzare il collo di ciò che lo minaccia – fra le macerie delle parole.