Rapagnetta

Leggendo gli scritti del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio, si ha a che fare, alla grande, con ciò che è lo scrittore del meticciato – per una volta tanto.
Nella sua gracile genialità, Gabriele d’Annunzio ha assemblato parole del meticciato italiano allo scopo di comporre opere di “letteratura” per il meticciato italiano; ha assemblato spicchi e parole, forme e terriciattole prelevandole dal patrimonio comune del meticciato italiano; ha assemblato, nell’ultimo suo progetto, spicchi e spacchi di terreno per il meticciato italiano.
In che cosa consiste, vale la pensa chiedersi, l’arte inimitabile di d’Annunzio? nel comprendere, forse, il problema del meticciato? nel rivestirlo, forse, di parole più che adatte a giustificare tutta quanta la maledetta Italia?
Pensare in che cosa consista la gracile genialità di d’Annunzio è pensare la rapagnetta qualunque da cui il progetto d’Annunzio ha preso perfido salto d’inizio. D’Annunzio era una rapagnetta qualunque, che solamente con il rivestimento delle giuste parole sarebbe stato in grado di svolgere la funzione di annunzio di ciò che non s’era mai visto in quel campo di rapagnette a lui sì prossimo sol per nascita. A malapena, volendo rinascente la letteratura nella maledetta, vecchia e bisunta Italia, d’Annunzio poteva comparire qual personaggio di un romanzo di (oppure alla) Jack London. Ma questo non dice molto, visto che anche Dante era piccola, squallida istessa cosetta.
Prima di essere un paese senza eroi, l’Italia è un paese senza poeti. Fare poesia è ciò che permette di passare dalla parola, che è ciò che garantisce la comunicazione tra coloro che compongono anche per caso una società, alla lingua, che invece è il tesoro della razza.
D’Annunzio è stato il nuovo Dante – nell’arte piena del bluff, per cui non si faranno mai i conti con d’Annunzio se non si faranno i conti con Dante. Rapagnetta è solo un nome che nulla annunzia, perché alcune persone sono sempre tagliate per restare fari d’ignoranza.
Due cose sarebbero da considerare alla pari: la letteratura, che il meticcio italiano non ha; la terra, che il meticcio italiano non ha. Due cose riassunte nel poeta e nel paroliere, la terra e la razza, e il luogo dove infine nascondersi.
Ma due cose che il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio ha sospeso in entrambi i casi, tramite arte sua, come sintesi che investe soltanto parole, terreno e poi nient’altro. Per qualunque meticcio avere dove andare è disporre di avere terreno sotto i piedi dove espletare i propri bisogni fisiologici di volta in volta più urgenti: in certi casi scrivere, in altri casi costruire.
Il Vittoriale ha funzione di mezzo teatro beffardo di Bayreuth; il teatro è ciò che viene da lontano e che meno che mai appartiene agli incubi della razza bianca; il Vittoriale è ciò che è fatto per funzionare come meta beffarda e poi lazzo turistico. Per il meticcio italiano il Vittoriale è solo la brutta copia beffarda del teatro di Bayreuth – sbeffeggiato più volte da Nietzsche.
Ma… Se d’Annunzio, nella sua posizione di rapagnetta, avesse immaginato qualcosa? Intendiamoci, d’Annunzio era un genio che ha piegato la propria genialità, la questione è verso che cosa s’è inclinata la sua piegatura. Se avesse pensato di giocare un brutto tiro – alla fine di una carriera che egli poteva avere avuto il tempo di comprendere, nonostante tutto, come fallimentare (perché fondata, derisoriamente, sul niente, quando egli non voleva che così fosse), perché nascere poeta richiede una nascita di razza (che comporta una terra, che si deve prendere, e una lingua, che si deve ottenere come allontanamento dalle parole, e non la nascita da una rapagnetta qualunque in un terreno di misere rapagnette piantato a suon di piatte parole e terriciattole)?
Abbiamo l’opera di d’Annunzio e abbiamo il Vittoriale degli italiani voluto da Gabriele d’Annunzio. Nella costruzione della sua casa-mondo, d’Annunzio ha rinunziato una volta per tutte alla catapecchia carducciana di vecchie parole in disfacimento della maledetta Italia. Così il Vittoriale potrebbe funzionare come L’Esegesi di Philip K. Dick – ma ancora più spropositato a livello di chiusura, perché non circoscritto alla sola arte di scrivere, ma aperto all’arte di segnare il terreno capitato per caso di segnalare sotto i piedi.
Scrittore è colui che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualunque è stato lasciato per caso lì in mezzo – però nel momento in cui lo scrittore è giusto colui che può passare dalle parole alla lingua della razza, quindi nel momento in cui è possibile cominciare a pensare per razze. Così scrittore è lo strappo che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato solo tra le cose del mondo nel momento in cui le cose del mondo non sono diventate altro che parole; per cui abbiamo la serie: le parole e le cose, la lingua e la Cosa, la Cosa e il þing, che è la riunione di cose.
Questo comporta porre su di uno stesso piano di interrogazione le parole e le cose, la Cosa e la lingua.
Comprendere l’arte di un meticcio è sputare in faccia al meticciato ciò che, al caso limite, costituisce l’indiscutibile genialità di quel meticcio, che comunque deve essere soppresso in quanto cosa che occupa la terra.
Divertente! Allora d’Annunzio sarebbe il vero poeta della razza bianca, che il meticciato può avere in quanto tale, perché lo spirito va dove vuole (come notava Dumézil a proposito dell’ambiguo personaggio di Loki), anche attraverso il meticcio italiano d’Annunzio, magari per andare oltre lo stesso meticcio italiano d’Annunzio (nome di razza: “rapagnetta”). Se d’Annunzio avesse capito che gli italiani sono solo meticciato e avesse, allora, veramente, per la prima volta, pensato Nietzsche, autore che, nella sua opera multiforme, per quanto più volte trattato, platealmente ha sempre dimostrato di non avere mai capito, a partire da un’arte che non era fatta per pensare, e avesse invece atteso il progetto del Vittoriale per dimostrare di avere quello che aveva donato, cioè buttato via, vale a dire il pensiero, cioè di avere afferrato il nocciolo, in un singol sito, della sua arte, picciola arte, arte-bluff?
Così le sale di un museo possono funzionare solo come autentiche sale di museo in quanto esibizione di ciò che è stato l’essere stato nel mondo di un dato essere sulla terra, dopo che quella presenza è stata annullata, e quel dato modo di essere è stato gioiosamente spazzato via. Non prima. Solo in rapporto alla presa della terra, che è il riferimento alla parola dell’antico nordico landnáma, si può comprendere l’ossimoro che è alla base del riferimento scelto da Gabriele d’Annunzio. Che cosa significa il motto “Io ho quel che ho donato”?
Dobbiamo ricordare che in ballo c’è solo una rapagnetta. Solo arrivando al bluff il meticciato italiano può arrivare al confine ben protetto con la terra de la poesia – alla quale il meticciato meno che mai ha accesso, né come meticcio italiano Dante, né come meticcio italiano Gabriele d’Annunzio. Il motto beffardo di d’Annunzio spiega che d’Annunzio ha quello di cui non ha mai goduto, cioè l’arte delle parole in quanto arte della lingua; così come il “popolo” che egli si arroga, ma che meno che mai è un popolo, perché non ha mai preso la terra che occupa e che egli stesso occupa, grazie a un nome, in quanto rapagnetta promossa ad altisonante annunzio di ciò che non ci sarà mai.
Per comprendere veramente d’Annunzio, così come per comprendere Dante, bisogna non apprezzare, ma disprezzare: DISPREZZARE IL METICCIATO. Questo perché non esiste né poesia né terra quando si ha a che fare con ciò che è l’andare e il venire del meticciato. Bisogna quindi fare in modo di vedere il meticciato come il niente sospeso sul niente che, a un certo punto, nella veste di una rapagnetta qualunque, ha vittoriosamente basato la propria causa sul niente – al fine di fare piazza pulita del meticciato.
Se la letteratura è ciò che è possibile solo in quanto arte della menzogna, allora creare letteratura è possibile solo se si sa di mentire, cioè di praticare l’arte che ha nella menzogna la propria paradossale unica e propria forma di verità in quanto conformità.
La rapagnetta d’Annunzio era ciò che non poteva avere accesso al tesoro della razza, poiché non esiste razza italiana, mentre noi sappiamo che esiste il meticciato italiano, cioè l’ANTIRAZZA. La perfida rapagnetta d’Annunzio ha avuto qui la funzione del furto di ciò che ha permesso la circolazione dell’arte, in questo caso, della finta poesia, che suona entro il canto del furto della bevanda di immortalità.
Ma d’Annunzio è stato un signore dell’arte di combinare parole; quello che lì, cioè in lui, mancava era l’arte della lingua, che sola avrebbe potuto chiamare la razza, che sola poteva portare alla lingua in quanto tesoro della razza. D’Annunzio ha donato la parola, di cui ha potuto fare rocambolesco uso in tutta la sua carriera di ladro e paroliere del meticcio italiano, ottenendo nient’altro che ciò che non ha mai avuto che nella forma finale del Vittoriale, cioè di terreno da riempire con un ammasso di tanta piccola chincaglieria e paccottiglia di salsicce kitsch, futili massicce deiezioni dello scorrere la terra, così come tutta la sua arte letteraria non è stato che un allineamento di piccole parole-forme kitsch. Ma questa doppia prospettiva, il nulla dell’arte dannunziana della letteratura, il nulla dell’assemblaggio kitsch del Vittoriale, non è altro che il modo migliore per sputare in faccia al meticcio italiano il nulla in cui insiste il terreno parallelo a dove consiste il nulla della terra occupata dal disgustoso meticcio italiano. Si dona quello che non si è mai posseduto, cioè l’arte di scrivere, prendendo in cambio la finzione del prendere terra, che è l’arte di descrivere, il tutto nel bluff del progetto del “Vittoriale degli Italiani”. Perché tanto la letteratura italiana, quanto l’Italia, sono soltanto disgustoso bluff ai danni della razza bianca.
Se d’Annunzio avesse voluto veramente colpire la letteratura italiana, dopo avere compreso che si trattava solo di “parole per il meticciato”? Vale a dire: se il progetto del Vittoriale fosse servito a fermare il progetto che si era manifestato, in tutta la sua genialità, verso l’indirizzo di una nuova letteratura, con La Leda senza cigno?
A quel punto il Vate del meticciato si era reso conto di non avere più terra dove andare, perché oltre c’era veramente la letteratura – ma un vero meticcio non vuole rinunciare al meticciato, che è il marchio di razza che costituisce l’antirazza, che è il motivo della sua esistenza, che permette il cambio di nome, ma non il salto di razza – e se comprende che basta un passo per entrare nel regno della letteratura, quel passo, allora, il vero meticcio si guarda bene dal compierlo – costi quel che costi.
Un legame perfetto lega l’opera di d’Annunzio al progetto del Vittoriale in base a ciò che lega parole e lingua in uno scrittore – legame che in d’Annunzio non può che essere assente – a ciò che lega letteratura e presa di una terra, che nel progetto del Vittoriale si presenta come bluff, motto beffardo inciso in pietra all’entrata: “Io ho quel che ho donato”. Ma che, in un meticcio, comporta il momento della scelta. Gabriele d’Annunzio, in quanto paroliere massimo del meticciato italiano tra Ottocento e Novecento, riconosce di non avere preso mai terra, ma proprio per questo, può riconoscere di avere proprio quello che non ha mai preso, perché solo in quel modo (facendo riferimento alla sua arte di parole che mai ha potuto rimandare ad una lingua) può incidersi come parola che non rimanda a una lingua nella cartapecora della sua razza, come terra che non è mai stata presa, nel terreno che fa da supporto alla sua antirazza (perché di questo si tratta) – così come le parole che aveva sempre usato prima lungo la sua carriera di Vate, erano parole che non rimandavano a una lingua, bensì parole destinate a rimanere sospese in ciò che non è letteratura e meno che mai poesia.
Se poesia è ciò che rivela alla razza il destino della razza attraverso la lingua cui la razza non ha immediato accesso, ma alla quale solo la poesia può giungere attraverso la parola, allora d’Annunzio è il paroliere che rivela al meticciato la caduta in un destino fatto di parole, in un tempo, fatto di soprammobili, in un altro, che inevitabilmente lo attende in quanto nient’altro che paroliere del meticciato, anziché di poeta della razza, che comporta invece l’incontro con la lingua e la Cosa.
Scrittore è colui che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato a vedersela da solo col mondo – però nel momento in cui scrittore è ciò che è in grado di passare dalle parole alla lingua che è il tesoro della razza, che solo il poeta porta con sé senza sapere, quindi nel momento in cui è possibile cominciare a pensare per razze: così scrittore è strappo che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato solo tra le cose tante del mondo. Per cui abbiamo la serie che comprende le parole e le cose, la lingua e la Cosa, la Cosa e il þing (che è la riunione delle cose del mondo).
La fabbrica di mostri viene interrotta, nel romanzo di Mary Shelley, quando il protagonista rifiuta di creare il mostro che potrebbe mettere in pericolo il genere umano.
L’arte di Gabriele d’Annunzio ha una forte, costante, beffarda, valenza funebre (pensate alla potenza del romanzo Trionfo della morte), così come beffardo è il motto finale, che suona “Io ho quel che ho donato” – che si vorrebbe salutarmente rivolta contro l’ANTIRAZZA alla quale il Vate maledetto pure apparteneva per la sola forma delle parole, ma questo non è stato, perché l’arte di d’Annunzio è arte tutta quanta sospesa. Destinata a rimanere arte sospesa, perché giustamente arte senza terra e arte senza lingua – vale a dire arte d’accatto.
Come persona, Gabriele d’Annunzio aveva qualcosa di viscido – ma questo vale per tutti gli italiani: gli italiani sono viscidi perché il loro modo di parlare è un modo di parlare viscido, che fa forza su zampette e antenne (fateci caso! per trovare, in Europa, simile viscido modo di parlare, bisogna farsi vicino vicino al modo di parlare degli slavi, ma questo, direbbe Lukács, “è un’altra storia”) –, che i filmati restituiscono appieno, qualcosa dell’iguana cortese che ha imparato a stare ritta su due gracili zampette, per quanto storte siano, zampette che sorreggono assai modesta statura, e nella mimica facciale – molto di funebre che era lezzo foriero di sora nostra comune putredine. Non è il caso di dire che Gabriele d’Annunzio possedeva, coerentemente in tutto ciò che lo connotava, la sgradevolezza del meticcio? D’Annunzio è l’artefice e l’amministratore di una parola viscida: lo si nota soprattutto nella sua poesia; la parola di d’Annunzio non è una parola che colpisce, è una parola sinuosa che avvolge, distrae, svicola e stordisce, che non si fa cogliere con facilità, che costringe a una rilettura, è insomma una parola viscida a tutti gli effetti; questo lo deve in parte alla lingua (la lingua italiana è una lingua viscida), in parte al suo modo di comporre, perché d’Annunzio stava soprattutto attento a non rivelare, a nascondere sempre qualcosa ai suoi lettori più che a incamminarli verso un tragitto, che invece è quello che il vero scrittore deve fare – ma succede con lo scrittore quello che succede per chiunque stia su una terra che non ha scelto il proprio abitante; era un falso Vate, un cattivo poeta, perché era un vero bugiardo, su questo non c’è dubbio – e questo è il punto più alto che possa raggiungere uno scrittore italiano.
Dopo d’Annunzio, mediocre meticcio italiano, nonostante tutto, nella media, spunta in istesso campo Pasolini, mediocre finocchietto italiano, allora del tutto fuori dalla media – e si è finiti tutti quanti giù per “terra” in un mare mondo di tanto petrolio sversato, come skáldfífl, che è la quota che spetta al meticcio italiano in quanto “poetastro”: niente di più. Fine. Punto.

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