Lovecraft: Mitologia di Cthulhu

Indirettamente, le opere di H.P. Lovecraft possono servire a indicare quanto i pregiudizi guidino, ancora adesso, il modo di pensare, nascondendosi a noi proprio in quanto pregiudizi; così noi giudichiamo “pregiudizi” quanto in quell’opera cataloghiamo come esempi di razzismo e di intolleranza dovuti all’epoca nella quale quell’opera è stata scritta, senza accorgerci che, proprio in questo nostro modo di pensare, noi non facciamo altro che soggiacere ai pregiudizi della nostra epoca – e che tutto ciò che, per noi, è fondamentale per la vita degli umani, per un’altra epoca, anche prossima, potrebbe essere cosa da considerare appena con un accenno di sorriso, che è tutto quello a noi dovrebbe invece indicare un altro modo di scrivere, pensare, leggere. Che io sappia, Hegel e Nietzsche hanno avuto questa abilità di scrivere ciò che, in quello che si scrive, preme per vedere oltre ciò che si scrive.

Leslie S. Klinger (Prefazione a “Edizione annotata H.P. Lovecraft”, in H.P. Lovecraft, Edizione annotata, a cura di Massimo Scorsone, Mondadori 2014, pp. 19-84) fa notare la falsità della formula “Mitologia di Cthulhu” per indicare il tratto comune che collegherebbe alcuni racconti di Lovecraft nella formula comunemente attribuita a Lovecraft, ma in realtà, secondo quanto egli sostiene, da attribuire al solo August Derleth.

Anche se H.P. Lovecraft non ha pensato un sistema coerente di mitologia per la propria opera, o per una parte di essa, analogo a quello utilizzato da Tolkien per la propria, Lovecraft ha lavorato su principi costanti attraverso diversi racconti; così questo sistema comprende due stati diversi che hanno a che fare con la terra: 1) Gli strati più lontani occupati dai nativi d’America, che hanno impresso alla terra particolari vibrazioni, che la rendono tanto facilmente occupabile quanto difficilmente abitabile, a seconda di ciò che si pone a sostare sulla superficie, stando in contatto costante con quelle vibrazioni; 2) lo strato che rende tali vibrazioni avvertite con favore dal meticciato, che tendono a favorire il risveglio di ciò che giace nel profondo addormentato ma non mai morto, mentre viene avvertito come orrore da scampare, entro una terra maledetta, da parte della razza bianca, per quanto, razionalmente, sia poi visto come ciò che è destinato a ritornare. Il meticciato, secondo H.P. Lovecraft, riguarda la degenerazione di quella parte d’Europa che non è più l’Europa della razza bianca (comprendente gli ammassi spagnoli, italiani, francesi, greci, slavi, che hanno invaso l’America costituendola spazio ideale del melting pot); mentre la razza bianca riguarda il nucleo autentico d’Europa, che è l’Europa della razza bianca (riguardante i popoli tedeschi, scandinavi, olandesi, celti, che ha costruito l’America, che è allora l’America della razza bianca).

Maisha L. Wester (The Gothic and the Politics of Race, in Jerrold E. Hogle (ed.), The Cambridge Companion to the Modern Gothic, Cambridge University Press 2014, pp. 157-173) nota la componente dei toponimi indiani presente in molti racconti di Lovecraft come marchio in grado di segnare la terra in quanto terra maledetta, ma non procede oltre. Indipendentemente dalla questione legata a Lovecraft, Miguel Serrano ha indicato la direzione rispetto alla terra, cioè in cui la terra va pensata: «La terra è un essere vivo, animato; ogni zona ha il suo proprio magnetismo e le sue proprie vibrazioni, attraverso cui essa agisce sugli esseri che l’abitano, modificandoli, trasformandoli.» (Miguel Serrano, Il Cordone dorato. Hitlerismo esoterico, traduzione di Nicola Oliva, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2007, p. 85). Che la terra possa diventare protagonista di una storia è la situazione che H.P. Lovecraft ha esposto nel breve racconto La strada (pubblicato nel 1920), dove la terra pronuncia e infine esegue la condanna a morte nei confronti di un gruppo di meticci slavi, che, ad un certo punto, si sono trovati ad occupare il tratto di terra su cui sorge la strada protagonista del racconto, progettando un grande attentato terroristico. Il meticciato può occupare la terra; il meticciato non abita mai la terra; il meticcio occupa la terra in quanto occupante, sempre abusivo, sempre appena tollerato, mai bene accolto, così come una pietra occupa una porzione di terra; oppure il meticcio scorre la terra in quanto migrante, così come una frana scorre attraverso un tratto di terra, distruggendola anche solo parzialmente; questo perché il meticcio non abita mai la terra, perché il meticcio non è mai ciò che la terra chiama come suo abitante.

Il toponimo indiano è ciò che, in diversi racconti di H.P. Lovecraft, svela la terra tanto agli occhi di un osservatore esterno quanto agli occhi del lettore, rendendo il personaggio consapevole riguardo a ciò che quella terra occupa e obbligandolo a delle scelte, oppure a ciò che quella terra abita, cioè a ciò che è il meticciato oppure la razza bianca; nei racconti di H.P. Lovecraft la terra occupata dai nativi americani, di cui rimangono i toponimi, è la terra segnata dagli orrori che coinvolgono la Miskatonic Valley, entro cui sorge Arkham, sede di incursioni e attacchi diretti da parte di ciò che non si conosce, la valle del Pawtuxet che è al centro della vicenda del racconto Charles Dexter Ward, della foce del Manuxet, dove si svolge la vicenda del racconto La maschera di Innsmouth.

Compito dello scrittore, in quanto cellula del destino della razza, è indicare il cammino che porta a riunire quanto è terra della razza bianca d’Europa a quanto è razza bianca d’Europa – che è ciò che ha portato a costituire l’America come qualcosa di europeo, nel momento in cui l’Europa non è più la terra degli europei.

Il cosmo è gelido sguardo indifferente alla sorte umana dentro quello che ha scritto Lovecraft, (ma nulla a che vedere con quanto diceva, nei suoi vecchi mucchietti di parole, il vecchio Giacomo Leopardi, paroliere giocoso, saltimbanco gibboso, marchigiano pulcinella, già sghembo meticciato italiano), ma proprio per questo terreno del gioco del mondo, che attende il pensatore della razza bianca, ruolo che nei racconti di H.P. Lovecraft non compare mai, perché la scienza perde anche lì la propria credibilità, per quanto il racconto di Lovecraft si basi proprio su una insistita razionalità e Lovecraft basi i suoi racconti su personaggi, quando invece, scientificamente, appare come siano le teorie a creare i personaggi, basati così, questi, su nient’altro che un niente: così vediamo che Leopardi è un paroliere del meticciato; mentre Lovecraft è uno scrittore della razza bianca – perché il meticciato ha solo parolieri, e la razza ha lo scrittore in quanto detentore della parola, che si rende allora parola della poesia o parola della storia, cioè della saga, che porta alla lingua.

Michel Houellebecq ha notato la scomparsa del tema del razzismo nello sviluppo della mitologia di Cthulhu ad opera dei continuatori di quella mitologia: «Tra gli scrittori più direttamente legati all’orbita lovecraftiana, nessuno ha mai ripreso le fobie razziali e reazionarie del maestro. È anche vero, però, che questa strada è pericolosa e offre uno sbocco molto limitato. Non è solo una questione di censura e di impopolarità. Probabilmente gli scrittori del fantastico sentono che l’ostilità a ogni forma di libertà finisce per generare ostilità alla vita. Lovecraft lo sente quanto e meglio di loro, ma, essendo un estremista, non si ferma certo per così poco.» (Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Bompiani, Milano 2001, traduzione di Sergio Claudio Perroni, p. 65) – perché appunto non si tratta di «fobie razziali e reazionarie», tantomeno di ostilità alla vita, ma di restituzione di ciò che è della razza bianca alla razza bianca d’Europa.

A differenza del dio della scienza, perché di due dèi si tratta, quello dello scrittore gioca a dadi – perché lì egli avverte, lì, il campo del suo divertimento, si tratti di Europa o di America; ma perché la terra della razza bianca non deve essere terra per il nemico della razza bianca, che è la degenerazione della razza bianca; così noi vediamo adesso la terra solo come terra dove andare, terra da occupare con insediamenti dettati dal capriccio, oppure terra da trascorrere in quanto migranti, per andare in altre parti della terra, e non vediamo mai la terra come ciò cui spetta il diritto di scegliere il suo abitante, perché non abbiamo più la parola della saga che lancia i suoi há-sæti fuori dal bordo quando formula il suo pensiero, per attendere il momento di andarli a rintracciare, là dove noi siamo stati chiamati.

Buzzati, “Il panettone non bastò”

Miguel Serrano vedeva nei monumenti megalitici la prova dell’esistenza di un qualcosa paragonabile ad una forma di agopuntura della terra, coerentemente applicata in quanto tale, volta a convogliare l’energia presente nelle profondità della terra in punti sensibili sulla sua superficie, che poteva essere recepito da ciò che si trovava sulla superficie: allora in grado di agire benevolmente sui popoli che hanno il diritto di abitare la terra, perché scelti dalla terra; ma di agire in modo tutt’altro che benevolo sui gruppi di cose e genti che non hanno il diritto di stare in quel punto della terra, perché quelle cose scorrono oppure occupano la terra – e allora non c’è altro da aspettare che vengano rimossi da lì.
Dino Buzzati: lo scrittore inutile.
Che è il caso di fare in modo che venga rimosso da lì.
È difficile definire l’utilità di uno scrittore in una formula sintetica, ma, di sicuro, la definizione di “scrittore inutile”, come formula descrittiva per uno scrittore, si addice perfettamente allo scrittore italiano Dino Buzzati, riflettendo, tale definizione, l’inutilità della letteratura italiana – considerato che, per quanto possa essere difficile stabilire l’utilità di una letteratura nell’insieme della Weltliteratur, la letteratura italiana si può definire solo grazie alla perfetta sua rumorosa et assoluta et spettrale singolarmente piena sua INUTILITÀ. (Che cosa vuole, c’è da chiedersi, questo meticcio di italiano, con la sua letteratura d’accatto?)
Fare lo scrittore come mestiere è la tentazione che riguarda colui che si trova ad avere il giusto gusto per le parole, quando il senso della lingua è andato perduto e scrittore è colui che si ritrova, ormai, sperduto ad avere senso per il gioco della lingua, tra le macerie delle parole – non avendo più senso alcuno il fatto di essere scrittore.
Lovecraft è stato lo scrittore che nelle sue opere ha rappresentato l’effetto delle vibrazioni della terra su coloro che, in dati tempi si trovavano ad abitare, oppure ad occupare, porzioni diverse della terra. Una cosa, oppure il suo opposto, vuole dire stare sovra una terra che ha comportato la presenza, in superficie, di tipi diversi di forme. La terra che è stata occupata dai nativi d’America trasmette vibrazioni sempre negative, che hanno effetti “positivi” sui degenerati, cioè sui meticci, perché ne sviluppa la potenza e porta quei meticci a completare, almeno in parte, i loro piani criminosi; mentre le stesse vibrazioni risultano disastrose per i sempre più dispersi individui di razza bianca – questo perché un meticcio non abita mai la terra, ma ha con essa soltanto un rapporto che non implica mai il fatto di “abitare la terra”, essendo il rapporto che un meticcio ha con la terra conseguente ad una occupazione. È il toponimo di origine indiana a rivelare la prima occupazione della terra, vale a dire ciò che costituisce la vibrazione originaria, sempre appena nascosta nel nome, a infondere forza al meticcio, ad attrarlo come calamita verso riti la cui finalità è nascosta all’individuo ma chiaro alla razza in quanto antirazza; ma a portare l’uomo che può scegliere a scegliere la parte sbagliata (è la sorte che spetta a Charles Dexter Ward tra le figure che gli fanno triste corona). Solo la razza bianca abita la terra, perché solo la razza bianca può arrivare a pensare, in termini di filosofia, ciò che significa abitare la terra. Un meticcio non abita mai la terra; un meticcio occupa la terra, come la occupa una pietra che si trova a stare in un punto preciso della terra, che occupa col suo peso quella parte di terra, se è difficile da spostare; oppure che scorre la terra, se basta un calcio soltanto per farla rotolare lontana da dove si trovava. La stessa Miskatonic Valley, al centro di tanti attacchi da parte del sovrannaturale, deve la sua vulnerabilità a causa del primo insediamento di nativi, che ne ha contaminato per sempre la geografia.
La domanda che dobbiamo porci davanti a un pezzo scritto da uno scrittore italiano, è una domanda da porci, che suona come domanda fantozziana posta nel tipo di una domanda che suona: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?”. Domanda indispensabile per deterritorializzare il punto dal quale il pezzo è stato puntualmente – lì, in quel punto della terra – posto insieme, fantozzianamente. Questo perché, in Italia, solo un clown può giungere a interpretare come gag ciò che invece è seriamente da pensare: vale a dire il collegamento tra opera d’arte e “cagata pazzesca”, che ha la sua spiegazione nella razza, solo se si accetta la possibilità della ANTIRAZZA, che è appunto ciò che non deve essere pensato.
Dino Buzzati rappresenta la possibilità di una antiterra di cui scrivere, nel momento in cui, in quanto “scrittore”, con estremo candore ti scodella la possibilità di costruzione di case senza Natale, messe a punto da parte di un gruppo di architetti, che, per quanto decisi a mantenere il segreto di corporazione, relativo a non rivelare mai come costruire case senza Natale, comporta la realizzazione di case dove non arriva in nessun modo più lo spirito del Natale dalla terra – con il vantaggio di un prezzo di mercato irrisorio, indipendentemente dal punto dove costruire (La casa senza).
Sancire l’assenza di una festa come Natale in un paese cattolico come l’Italia comporta comprendere il Natale come assoluta e fastidiosa destrezza di gesti quanto esperienza di Vuoto assoluto. Che sono le due balle tra le quali l’Italia, con i suoi miti che non ha, si trova sballottata.
Il secondo caso è quanto capita a Nora, la protagonista del racconto Il cane vuoto, che di colpo, una vigilia di Natale, ha l’epifania del vuoto in cui consiste da anni la sua vita trascinata all’interno della sua casa di bambola quando deve portare d’urgenza il suo cane da un medico per una visita. Il cane le era stato donato dall’uomo che poi l’ha lasciata ed ella si era abituata a vedere in quel cane l’ultimo legame con l’uomo per mantenere il legame che ormai non c’era più, ma che doveva essere portato avanti all’interno della sua casa di bambola, che pure doveva essere portata avanti, per dare senso alle cose del mondo. La diagnosi è favorevole, poiché il disturbo è passeggero e non implica danni irreversibili nell’animale, ma quando cane e padrona raggiungono un parcheggio di taxi, e il parcheggio si rivela vuoto, la signora, di colpo, ha il senso del vuoto, che, dal cane, finora docilmente portato da una parte all’altra, fisso ora in quel punto, si propaga a tutto il resto del mondo e la signora capisce che quella fonte, che in lei le permetteva di riempire le cose del mondo di un senso, ormai si è esaurita, per cui quel cane è soltanto il ricettacolo del vuoto assoluto, che tutto il resto dell’ambiente manifesta.
Questa raccolta di trentatré pezzi (tra articoli, racconti, poesie) qui riuniti con il titolo Il panettone non bastò, mostra come Dino Buzzati abbia sempre pensato il tema del Natale con una perfetta, propria interna coerenza che convoglia un perfetto gioco di interno/esterno in quanto decoerenza.
Un racconto di Natale è possibile soltanto nella forma del confronto col mito – visto come ciò che non c’è, ma che c’è in quanto esperienza di ciò che ama nascondersi. Un racconto di Natale non può stabilirsi nel rincorrere una festa come insieme di consuetudini vuote (per un popolo che non c’è, raccontato da uno scrittore bluff, come appunto è lo “scrittore” Buzzati del meticciato italiano), ma come domanda da porre riguardante il mito – che c’è. Così un racconto di Natale, indipendentemente da quello che sono stati i racconti di Natale a partire da quelli proposti dallo scrittore Charles Dickens, deve porsi la domanda relativa a che cosa è il mito indipendentemente dal Natale – per cui un racconto di Natale molto riuscito è senz’altro il brevissimo racconto dal titolo freddo di Natale, composto dallo scrittore Friedrich Dürrenmatt. Si cerca solo quello che, nella sua completa assenza, mostra da sempre di esserci stato, ma che in un punto, per caso, a un certo punto, è venuto a mancare, e che coinvolge il popolo che, pur abitando la terra, si trova a porre adesso la domanda relativa a ciò che è il mito, a proposito del Natale, perché la festa di Natale – festa cristiana che rimanda ad una festa precristiana preesistente – è ciò che contiene adesso il mito. Ma meno che mai tutto questo è ciò che ha a che fare con il meticcio italiano. Così il punto, da punto che era in uno spazio, acquisendo consapevolezza del proprio stare come punto in una serie continua di punti, diventa un punto nel tempo in cui fare i conti con il mito che è fare i conti con il meticciato italiano: infatti si trova solo nel presente – ciò che il futuro darà occasione di perdere.
La festa del Natale cristiano rimanda alla festa precristiana che aveva luogo più o meno nello stesso periodo di tempo; prima della cristianizzazione dell’attuale Europa. Tolkien usa la parola inglese Yuletide per indicare le feste del calendario hobbit che riguardavano il periodo in oggetto. La parola inglese “yuletide” definisce il Natale cristiano, ma la parola “yule” è collegata all’antico nordico “Jól”, parola che indicava il periodo di tempo festivo intorno al solstizio d’inverno prima della cristianizzazione. Pensare allora Natale attraverso la parola Jól significa pensare, nel periodo cristiano, il mito precristiano. Quindi pensare il mito consapevolmente all’interno del tempo in cui il mito è assente perché ciò che è stato spazzato via. Dino Buzzati situa invece la propria riflessione all’esterno del tempo cristiano, senza possibilità di raggiungere la sfera del mito autentico, situandosi così come punto, ma punto irrazionale, immaginario perché inconsistente punto di separazione tra due serie.
Questo bolla la letteratura italiana come “letteratura” di un “popolo” che non ha mai preso una terra, che non ha una storia, non ha un popolo, non ha una lingua, ma ha tutto ciò per cui questo popolo deve essere scacciato dalla terra a seguito di una pulizia etnica – il meticciato invadente aggressivo.
Un meticcio è ciò che non abita la terra, ciò a cui mai è giunto il Dono della (possibilità di abitare la) terra, perché un meticcio è colui che occupa la terra oppure scorre la terra; questo perché un meticcio è ciò che spoglia la terra, riducendola a terreno dove soddisfare i suoi bisogni naturali più urgenti, durante il suo occupare o scorrere la terra. È quello che mostra Dino Buzzati in questi scritti dedicati al Natale, quasi regolarmente tenuti, anno per anno, dal 1934 al 1971, con il suo “popolo” di mogli e donne isteriche, uomini in carriera che devono districarsi con impegni delle feste di Natale e di doppi provvidenziali stipendi – e redazioni di giornali come terreno (ma non terra), che danno così vita a un Natale piccolo piccolo, a un Natale che non pensa il mito, a un Natale del Dovere, sulla nave da guerra nel tempo di guerra, a un Natale qualunquista dopo la fine della guerra, a un Natale dell’alchimia fra trovata pubblicitaria e favola vera da consegnare a un bambino, a un Natale qualunque come tutti gli altri, a un Natale dei tempi moderni della ideologia progressista, a un Natale dell’ultimo vecchio rimasto al mondo, a un Natale anti-mito, a un Natale come difesa della piccola favola ancora rimasta – per quanto Natale non significhi nulla, a un Natale piccolo piccolo che va bene così, a un Natale da romanzo storico con l’evocazione di quando il panettone non bastò, a un Natale buonista, a un Natale come rimbrotto, a un Natale fatale, a un Natale da Commedia all’italiana, a un Natale straniato, a un Natale immaginato una volta tanto volutamente senza regali, a un Natale di rabbia, a un Natale come epifania joyciana, a un Natale come ricerca del vero Natale, a un Natale in cui un Gesù Bambino cresciuto gioca a fare il trickster dove il mito bambino non c’è, a un Natale che rifà il verso alla storia di Mr Scrooge, a un Natale pasoliniano basato sull’importanza dei mezzi di comunicazione.
Quello che rivela l’inutilità dello scrittore italiano Dino Buzzati, nella sua piena qualifica di inutilità dello scrittore italiano, è l’abbraccio con lo stereotipo, che è quanto solo un inutile scrittore italiano poteva rappresentare: la decameronizzazione. Non ripeterò mai abbastanza quanto il Decameron di Giovanni Boccaccio, mediocre meticcio italiano, scrittore, sia l’archetipo dei cinepanettoni delle feste di Natale, con i quali noi adesso abbiamo sempre a che fare nel periodo di Natale, tra un acquisto e l’altro. Quello che un meticcio della “letteratura” italiana può scrivere saranno sempre “pezzi” al limite fra giornalismo, pezzi di costume e fiction, ma cose che non costituiranno mai la storia, cioè la saga, che costituisce invece l’insieme della storia del popolo che ha preso la terra legandola alla continuità del suo dire, che è il dire della razza, cioè la saga, che è il dire del mito come ciò che deve essere sempre cercato da parte dello scrittore di razza bianca.
Questo per dire che, in questo caso, cioè ciò che comporta gli scritti di Dino Buzzati, è che non c’è mai stata terra, tantomeno popolo, meno che mai razza, essendo stato Dino Buzzati, se non sbaglio, niente altro che un inutile quanto disgustoso meticcio italiano, che, nell’insieme di quel disgustoso impiastro che è il meticciato italiano, ha scelto di fare lo scrittore, avendo scoperto di avere quella comoda dimestichezza con le parole che poteva tornargli utile per sbarcare il lunario vita natural durante; e così è stato, per lui – no?
E questo basta.
Questo perché quando ci troviamo ad avere a che fare con il meticcio italiano, dobbiamo chiederci “Che cosa vuole, il meticciato, in Europa?”, perché questa è la domanda che deve essere posta in presenza della ANTIRAZZA cui non si deve dare possibilità di essere – mai, in nessun modo. Le parole sono scale che devono portare alla eliminazione del meticciato nella terra della razza bianca.

Musica automatica

Ho sempre pensato che la “genialità” di ciò che ci si ostina a chiamare popolo italiano non consista in nient’altro se non nella possibilità, che ha avuto il “popolo italiano”, di intravedere la nostra epoca moderna, fatta di decadenza e idiozia, grazie alla degenerazione razziale che fatalmente lo costituisce. Dante ha visto la moderna società multirazziale, soggetta all’islam, nella sua idiozia di poema e commedia all’italiana. Heidegger riconosceva nel Faust il merito di avere previsto l’epoca delle macchine. Niente di tutto questo si vede nella puttanata di Dante. Eppure in un punto gli Italiani hanno previsto l’epoca moderna: nella musica. In realtà la musica degli Italiani è sempre stato uno straccio di vergogna per quel popolo miserabile. Niente è più lontano, da quello straccio di popolo che sono gli Italiani, quanto la musica. Che riassume ciò che si può fare nella filosofia richiamando ciò che nella filosofia non si può fare. Per quale motivo si può dire che la musica italiana abbia precorso e percorso i tempi, fino a configurare l’epoca moderna? C’è un punto in cui la musica italiana ha previsto il futuro: il punto fisso piantato dalla stupida musica di Vivaldi. Ho sempre odiato la musica di Vivaldi. Musica automatica, musica che infastidisce. “Musica automatica” è l’espressione con cui io identifico quello che Miguel Serrano definiva con l’espressione “replicazione golemica”. Musica che è solo attesa di qualcosa che non si sa bene che cosa sia. Qualcosa che non arriva mai e che, appunto in quanto attesa, dà sui nervi. Musica che sembra volere distrarre, ma che invece ha lo scopo di infastidire. Perché è musica che non è musica, essendo solo fatta per riempire qualcosa che non si vuole fare vedere. Ma musica che tuttavia riempie il tempo. Quale tempo? Il tempo dell’attesa. Ma che senso ha, per una musica, fissarsi come tempo dell’attesa? Eppure quello che mi ha sempre infastidito nella musica di Vivaldi è questo essere fissata in un tempo dell’attesa. Ma ora ho capito in che cosa consiste la musica di Vivaldi: è la musica delle segreterie telefoniche. Genialmente preparata in quello schifo di città cloaca. Musica che dà sui nervi, musica ripetitiva. Ma anche per questo ci voleva genio: il genio latino, il genio cloaca. “Genio” della razza. Genialità dell’idiozia. Musica automatica. Ora capisco perché non ho mai amato la musica di Vivaldi.

Colombo

Colombo ha scoperto l’America cinquecento anni dopo Leifr Eyríksson. Miguel Serrano ricorda come Colombo fosse un Giudeo. Pochi ricordano l’impresa di Leifr. Tutti ricordano quella di Colombo. Nella storiografia che premia Colombo, solo un Giudeo poteva avere fortuna. Borges sfiora l’argomento: l’epoca vichinga è passata come un sogno, sfiorando appena quella realtà nella quale essa non riuscirà mai a produrre effetti duraturi. Appunto: un sogno e solo un sogno; ma da dove vengono i sogni e da dove viene la delicata bellezza di tutti i sogni? Perché scegliere la realtà anziché il sogno? Infatti il sogno è ciò che viene contrapposto all’impianto stabile che viene definito realtà. Proprio all’interno di quella logica e di quella contrapposizione, il giudeo Colombo si troverà a proprio agio e così in grado di costruire la propria sgangherata fortuna. Cioè nell’agio della degenerazione. Colombo non era solo un Giudeo; era soprattutto un Italiano, astuto e calcolatore, pronto a sfruttare l’occasione che fa il ladro uomo. Lì infatti, in quel piccolo immortale giudeo italiano, si ritrova tutta la planetaria sporcizia italo-giudaico-massonica da bruciare.

ABB

Anders Behring Breivik ha chiesto scusa ai nazionalisti per non essere riuscito ad ammazzare di più.
Nessuna persona poteva portare a compimento una impresa del genere.
La soppressione della degenerazione, anche degli elementi degenerati della propria razza, è qualcosa che va oltre le possibilità di un individuo.
Ci vuole un governo che concretamente renda la terra inabitabile alle razze inferiori e un governo che, concretamente, metta a punto un piano di soppressione delle razze inferiori.
Finché non ci sarà qualcosa del genere, le iniziative individuali saranno azioni confuse ed eclatanti, in cui l’autore dovrà chiedere scusa ai nazionalisti.