Michael Punke, Il crinale – Recensione

Fantasia quasi una Recensione

 

1

Considerando la possibilità che abbiamo di partire dal romanzo storico sviluppatosi in terra d’Europa, forse nient’altro quanto le guerre indiane, combattute in territorio d’America, dimostrano come, per ciò che riguarda la necessità di considerare le fonti a favore di una risalita all’origine, l’America sia qualcosa di europeo – e quanto allora il romanzo storico Il crinale (2021) dello scrittore americano Michael Punk, sia qualcosa riguardante il tema europeo dell’origine e del romanzo storico, per quanto un romanzo riguardante il tema dell’origine non implichi qualcosa riguardante l’origine quanto il richiamo a qualcosa che l’Europa deve portare a conclusione, in quanto cosa che ha avuto origine in Europa.

Questo almeno a livello di ciò con cui il pensiero è stato chiamato a fare i conti: da configurare come obbligo alla sopportazione della degenerazione e del meticciato, di ciò che si può identificare come “meticcio” nei confronti con ciò che si presenta come altro; infatti la storia è proprio quella pezza in cui la razza bianca è stata invischiata quando “storia” è il pezzo identificato come ciò che sembra mancare all’America. Cosa distingue allora il meticciato? L’onda che dalla terra coinvolge coloro che, in un certo periodo di tempo, hanno l’occasione di stare in quella terra, in quanto ciò che abita quella terra, o in quanto ciò che occupa o scorre quella terra.

Così viene in mente quello che Michel Houellebecq ha scritto a proposito di Lovecraft: «Lovecraft risale qui a una fonte fantastica molto antica: il Male come prodotto di un’unione carnale contronatura. Idea che si integra perfettamente al suo razzismo ossessivo: come per tutti i razzisti, per lui l’abominio è nel meticciato più che in qualsiasi altra razza.» (p. 63); per questo in Lovecraft lo sguardo sul meticciato è ciò che porta allo sguardo all’indietro, che è ciò che porta alla consapevolezza della propria origine meticcia; ma ciò che porta a guardare indietro è ciò che rivela l’origine meticcia da parte di colui che aveva relegato il meticciato nel recinto di uno sguardo, mentre il meticciato sembra qui determinarsi come la biforcazione che si apre per coloro che sono chiamati ad avere a che fare con la terra, la cosa che pone il dilemma della storia come ciò che può essere considerata attraverso la polifonia dell’insieme dei punti di vista – è cioè la grammatica del senso della possibilità che sta a fianco del senso di realtà. I due esploratori che si incontrano durante la lettura del Crinale, Jim Bridger e James Beckwourth, avevano preso moglie all’interno di tribù indiane.

Miguel Serrano non indica un modo di agire da parte di coloro che abitano la terra, quanto un modo di rispondere da parte della terra su coloro che abitano la terra oppure si trovano ad occuparla: «La terra è un essere vivo, animato; ogni zona ha il suo proprio magnetismo e le sue proprie vibrazioni, attraverso cui essa agisce sugli esseri che l’abitano, modificandoli, trasformandoli.» (p. 85). Da qui il significato dell’abitare, per cui è possibile parlare dei monumenti megalitici come di un sistema di agopuntura della terra; e Lovecraft presenta un modo di rispondere della terra su coloro che la occupano, in quanto banda di degenerati o in quanto forme isolate di ciò che in vari punti può abitare la terra. Sono modi di agire che si trovano perfettamente sintetizzati da Renzo Giorgetti: «Ma, se sono i popoli a dare vita alle patrie, non è detto che queste ultime nascano per caso o in qualunque luogo della Terra. Ogni luogo a sua volta forma i suoi abitanti e in una certa misura li sceglie, rendendo più agevole o difficile la sopravvivenza su di esso, ponendosi essa stessa in risonanza con determinati tipi umani, piuttosto che altri.» (p. 212).

Nello stesso modo la guerra può essere vista come guerra realistica, cioè come cronaca di battaglie che si sono svolte in un arco di tempo che pone esseri umani da una parte all’altra di un fronte; oppure come guerra mitica che pone esseri divini contro esseri demoniaci.

Come tante altre guerre, le guerre indiane possono essere viste come una forma completamente rovesciata della Battaglia di Arminio, se considerate dal punto di vista del mito: l’esercito invasore può non essere l’esercito di meticci posto in piedi da Roma per invadere la Germania; la comunità aggredita può non essere un popolo di razza bianca; la terra può non essere la terra che è stata presa, – ma il tratto costante di queste guerre è la presenza del meticciato; ora confitto in un punto della terra quale ago, ora in un altro come punto in una serie, ma il meticciato è sempre quella cosa che deve essere distrutto, sia l’esercito di Roma o siano le bande urlanti dei nativi americani. Non può esserci terra dove c’è la presenza del meticciato, perché il meticcio è ciò che sporca, annulla, violenta la terra. Questo perché la violenza del meticcio sulla terra è ciò che comporta la manifestazione della sua stessa forma sulla terra.

La tecnica delle due battaglie è la stessa: nel Crinale, su consiglio del meticcio indiano Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo studia con attenzione il nemico dall’alto di un crinale, come prima di lui aveva fatto Arminio di propria scelta, nel tempo in cui era stato portato a Roma, in modo da trovare il punto debole del nemico – e poter sferrare, in quel punto stabilito come serie matematica di punti lungo un territorio, l’attacco decisivo. Entrambi, cioè il guerriero di razza bianca Arminio e il meticcio indiano Cavallo Pazzo, sanno di dover affrontare un esercito nemico gigantesco, disponendo di forze minime. Cavallo Pazzo avrà dalla sua la pura quantità, la pesantezza di duemila meticci indiani che potevano facilmente opporsi a un centinaio di soldati di razza bianca; Arminio/Hermaðr, l’uomo della schiera, la sola pesantezza del mito che giunge fino alla possibilità di queste note.

Perché, nel 2021, si è avvertita la necessità di costruire un romanzo che porta a celebrare la vittoria del nemico di razza in una battaglia avvenuta in America nel 1866? Nel tempo in cui non si vedono più le razze, non si ha più occhio per ciò che si vedeva appena a stento allora, prima di quel punto. È un fatto che la vittoria indiana sia offuscata dallo sguardo storico che l’autore applica nella composizione del romanzo, che si evince dalla malinconica certezza che i suoi indiani hanno in quanto cosa destinata a perdere la guerra; e dalla consapevolezza che quella terra non sarà mai più la terra che quelle cose avevano conosciuto come “terra”; ma la vittoria dei bianchi è qualcosa che, a malapena, riguarda la consapevolezza della razza bianca – eppure proprio questa malinconica consapevolezza è ciò che viene presentata come consapevolezza della razza bianca.

Questo mentre gli indiani sono proprio quella cosa che non pensa; così il romanzo Il crinale regala, con un perfetto gioco di prestigio, offerto dalla formula del “romanzo storico”, agli indiani la facoltà di abbozzare l’atto di pensare – che sarà allora il non pensiero della razza bianca.

Questo regalo che suona come bluff è ciò che mostra la debolezza del pensiero che sta alla base del romanzo storico, che riguarda entrambe le parti in lotta. L’indiano acquisisce un pensiero che non aveva mai avuto; la persona di razza bianca è piegata a pensare quello che potrebbe avere pensato il meticciato – se quella cosa che è il meticciato fosse stato appena luogo di un pensiero (pensiero che sarebbe stato comunque, come questo romanzo storico dimostra, il pensiero della razza bianca).

La vittoria indiana è offuscata, da parte del meticciato indiano, dalla malinconica certezza che gli indiani sono la cosa destinata a perdere miseramente la guerra – e a scomparire dalla terra d’America, che comunque non è mai stata la loro terra; e dalla consapevolezza che, anche dopo quella vittoria, quella terra non sarà mai più la terra che quell’insieme di cose aveva permesso di conoscere; ma la vittoria dei bianchi è qualcosa che, a malapena, riguarda la consapevolezza della razza bianca. La vittoria dei bianchi è infatti ciò che manterrà in vita il meticciato indiano e darà la possibilità al meticciato indiano di invadere il pensiero della razza bianca; così come solo un’appendice meticcia della razza bianca aveva invaso la terra occupata allora dal meticciato indiano.

Partendo dalla differenza fra genocidio ed etnocidio, è proprio la polifonia di Bachtin, che deve essere richiamata, meno che mai permettendo essa la composizione di un romanzo storico.

Bisogna riconoscere il merito a Lovecraft di considerare la terra come ciò che guida ciò che occupa la terra – o si trova nella posizione di colui che abita la terra che è stata occupata, soltanto per mostrarla come la Cosa in grado di adeguare un comportamento nei confronti di ciò che si trova su quel tratto di terra, sia in posizione di colui che occupa la terra, o – all’opposto – in posizione di colui che abita la terra.

Parlare di guerra mitica, dopo che il mito ha ceduto il passo al romanzo, è la cosa più contraddittoria che un romanzo possa porsi a plasmare, perché deve parlare di ciò che è, essendo la cosa che non è, parlando di battaglie che sono state battaglie eroiche proprio perché hanno infranto lo schema di ciò che può essere definito eroico, e poi di uomini che sono umani in quanto sono proprio ciò che sono in quanto meno che mai sono esseri umani; come si è detto, deve parlare di ciò che è in quanto ciò che è proprio in quanto non è ciò che è.

Così noi ora possiamo dire che il massacro di Wounded Knee è stato un atto eroico perché qualunque soppressione del meticciato, per quanto isolato in un canto della storia esso sia stato poi posto, suona come atto di eroismo. Ma se abbiamo canzoni che denunciano il massacro di Wounded Knee in quanto puro massacro che niente ha di eroico, non abbiamo canzoni che denunciano il massacro di Fetterman – che è l’episodio centrale su cui il romanzo storico Il crinale di Michael Punke è fondato, e che pure, in quanto episodio puro, ha diversi tratti in comune con il massacro di Wounded Knee. Fermo restando le due diverse mentalità che hanno progettato lo stesso schema di massacro – fermo restando che il romanzo storico Il crinale, nel momento in cui considera l’episodio storico del massacro di Fetterman”, compiuto dai meticci indiani di Cavallo Pazzo e di Nuvola Rossa, non mostra alcuno sdegno per la modalità di quel massacro, come se in quel caso si dovesse provare vergogna a manifestare sdegno, in rapporto ad una origine – che non viene mai indagata; il meticcio è sempre l’essere più disgustoso con cui capiti di avere a che fare, sia che si tratti di un meticcio indiano, sia che si tratti di un meticcio italiano come il meticcio italiano Fabrizio De André, che in quel di Genova ha confezionato la piccola gradevole canzonetta Fiume Sand Creek.

Ma che cosa mostra la posizione di Michael Punke, se così considerata, all’interno della costrizione del romanzo storico, quando entrambi i massacri rimandano all’archetipo mitico della Battaglia di Arminio, che era essa stessa, per le proprie modalità, massacro anziché battaglia?

Vale la pena ricordare questa puntualizzazione di Nietzsche: «I due valori antitetici, “buono e cattivo”, “buono e malvagio” hanno sostenuto sulla terra una terribile lotta durata millenni; […] Il simbolo di questa lotta, espresso in caratteri che sono restati sino a oggi leggibili al di sopra di tutta la storia degli uomini è “Roma contro Giudea, Giudea contro Roma”; – non c’è stato fino a oggi alcun avvenimento più grande di questa lotta, di questa posizione del problema; di questa contraddizione pervasa d’inimicizia mortale. Roma sentì nell’ebreo qualcosa come la contronatura stessa, per così dire il suo monstrum antipodico; in Roma si considerava l’ebreo un provato colpevole di odio contro l’intero genere umano: a buon diritto, in quanto si ha un diritto di ricollegare la salvezza e l’avvenire del genere umano all’assoluta supremazia dei valori aristocratici, dei valori romani.» (Genealogia della morale, p. 250).

Allo stesso modo il nativo americano deve essere considerato, dopo la lettura di Nietzsche, un provato colpevole di odio contro l’intero genere umano, allora presente nel territorio d’America. Si rilegga il brano di Nietzsche sopra riportato sostituendo “Giudea-ebreo” con “il nativo americano” e “Roma-romano” con “la razza bianca”. La questione è la lotta della natura nei confronti della contronatura, per quanto i toponimi e le parti in lotta cambino, che è la piega della terra che chiama il suo abitante o manda via colui che non vuole accettare come suo abitante.

Lonesome Dove (1985) di Larry McMurtry coglie perfettamente, nell’arco di un dialogo, il gioco di pedine che pone in gioco indiani, civili, ranger, esercito: «– Donne e bambini e coloni sono solo carne da cannone per avvocati e banchieri. Fanno parte del quadro. Se gli indiani ne massacrano abbastanza, la gente grida allo scandalo e noi [ranger] diamo la caccia agli indiani. Se poi gli indiani tornano, interviene l’esercito e la caccia si inasprisce. Alla fine l’esercito sconfigge gli indiani e schiaffa i pochi rimasti in qualche riserva, così possono arrivare avvocati e banchieri e dare il via alla civiltà. Tutte le banche del Texas ci dovrebbero [a noi ranger] una commissione per il lavoro che abbiamo fatto. Senza di noi, tutti quei banchieri sarebbero ancora in Georgia a mangiare erbe selvatiche e cime di rapa.» (p. 84).

Un meticcio rimane un meticcio, che sia chiuso in una riserva oppure libero di massacrare gli invasori e di cacciare gli animali che ha trovato nella terra occupata dai suoi avi, che egli stesso occupa e che lascerà ai suoi figli come terra da occupare, oppure di celebrare la cultura della propria stirpe secondo modalità del pensiero propri degli invasori, questo mentre vediamo che adesso storia non è altro che cammino verso una legittimazione possibile del meticciato che, di volta in volta, si è posto in gioco; cammino sporco: Italian jobmi trovo costretto a dire io, scrivendo purtroppo, io, in italiano, italiano vero, cioè italiano sporco: il problema sono gli indiani, così come il problema sono gli zingari, così come il problema sono gli italiani, cioè l’altra “cultura”, ovvero l’Altro, che esiste solo in quanto sguardo verso un materiale autenticamente diverso, perché diverso di razza, come avviene attraverso lo sguardo all’interno di un museo, a partire dalla razza bianca, che, fra le altre cose, nel suo percorso di colonizzazione globale, si è presa la briga di creare puranche tanti musei.

Sostengo che questo discorso funzioni fra i personaggi del romanzo solo perché il discorso di razza fra le persone è ciò che è stato bandito – al di fuori dello spazio del romanzo.

La questione è che un meticcio è un meticcio, anche se nessun pensiero unico moderno giammai ciancia di meticciato. Che sia un indiano d’America, uno zingaro o un italiano, ciò che lo sguardo riconosce come “altro”, è ciò che una cultura ha l’obbligo di porre in un canto; ma il semplice sguardo di disprezzo è opera di conoscenza, cioè di vera cultura, se c’è stato vero disprezzo.

Come applicare la storicizzazione del nostro sguardo sul materiale che compone il romanzo storico Il crinale? Leggere un romanzo storico è qualcosa di simile a ciò che implica la visita di un museo – cioè l’attivazione di uno sguardo a partire dall’occhio, che non è fatto per guardare – questo vale per qualunque museo, così come per qualunque romanzo storico, sia un romanzo storico di Walter Scott, oppure quel gioiello in miniatura di romanzo storico che è La figlia del capitano di Puškin, o un romanzo storico, giustamente costruito nell’ottica in cui si costruiscono i musei moderni – quale è il romanzo storico Il crinale di Michael Punke.

A presentare ciò che potrebbe comportare la storicità del moderno romanzo storico è proprio ciò che fa fuori la possibilità del romanzo storico a partire dalla modernità, e cioè la terra (vale a dire offrendo alla terra la possibilità di dire qualcosa su chi ha diritto ad abitare la terra): consideriamo il modo in cui Jack London mostrava gli indiani come forme primitive dell’origine. Se ci poniamo il problema dell’origine, scopriamo che storia è solo un modo di porre in gioco parole (puri esseri primitivi, per ciò che riguarda gli indiani, se ricorriamo a Jack London; forma vivente della terra, se ricorriamo a Lovecraft, che mostrava la terra che era stata occupata dagli indiani come una terra per sempre impossibile da abitare per individui di razza bianca perché rovinata dalle onde che l’occupazione del meticciato indiano aveva inflitto alla terra). Abbiamo così una terra passiva a un insediamento quanto una terra estremamente sensibile a individui in grado di accogliere le vibrazioni che provengono dalla terra, che possono condurre individui predisposti al male a sviluppare progetti di sterminio dell’intera razza umana, quanto individui rivolti al bene a combattere il pieno sviluppo del meticciato quanto a scoprire la propria implicazione nella degenerazione della razza, che in un primo tempo sembrava essere la cosa da combattere. Ma la posizione nei confronti del meticciato è ciò che distingue la differenza tra bene e male, che a sua volta si determina a partire dalla scelta della posizione di razza. In nessuno di questi casi l’indiano era l’essere umano, proprio perché l’essere umano era la postazione che non poteva più essere difesa. Noi possiamo avere dei romanzi storici aggiornati alle ultime considerazioni della storia, ma non possiamo ancora avere il romanzo che dia voce alla terra così come non possiamo avere il romanzo che dia voce al linguaggio come ciò che determina l’agire degli esseri umani che da quel linguaggio traggono la propria verità, cioè il loro pervenire al linguaggio in quanto narrazione.

Parlare di un romanzo storico è parlare di qualcosa che implica la domanda: “fino a che punto il romanzo storico può riconoscere la storia?”, che implica il punto in cui la storia si manifesta all’interno di una serie. Guardiamo come la vicenda su cui è basato il romanzo storico Il crinale viene riportata in Mondi perduti di Aram Mattioli (pp. 205-6). Il romanzo storico si fa avanti quando i fatti possono chiamare dei personaggi, morti da tempo, che vengono rianimati solo per ripetere i gesti fondamentali in quel Locus Solus che diventa allora il romanzo storico alla presenza di un pubblico di invitati, che sono i lettori, e di un Canterel, che è l’autore, che ne spiega le motivazioni e si fa carico di ricrearne la meticolosa ambientazione, affinché lo spettacolo possa funzionare e i gesti avere il massimo della precisione.

Due parole quali “etnocidio” e “genocidio” rappresentano la situazione. La nozione di etnocidio intende la cultura come accessorio facilmente sostituibile negli individui che costituiscono una nazione; mentre la nozione di genocidio intende la cultura come elemento integrato a un dato gruppo etnico, continuamente riprodotto da ogni manifestazione di quel gruppo in vita, per cui, l’unica difesa, è la soppressione del gruppo portatore di quella cultura. La cultura è una forma di manifestazione vitale che però deve determinare. dall’altra parte, la possibilità di togliere la vita.

Qui si tratta di sviluppare l’orecchio per leggere – e non solo l’occhio per ascoltare un romanzo storico. Se il pensiero è pensiero storico, ogni personaggio deve pensare nell’ambito del periodo storico in cui viene fatto agire: che è la logica del romanzo storico – poi, per il resto, ogni libro deve essere… “senza opera”.

Gli italiani meritavano la stessa sorte toccata a zingari ed ebrei, che è la stessa sorte che meritano anche adesso – perché la razza è sempre la stessa ed è sempre rimasta la stessa, da quando quella cosa che sono italiani, zingari ed ebrei purtroppo esistono.

Dove trovare il punto di raccordo tra lontananza e vicinanza, carro bestiame e canna fumaria? riverrun un altro modo di pensare e di giudicare – in un appunto dell’autunno 1883 di Nietzsche si legge: «Creare poeticamente qualcosa di più elevato di ciò che l’uomo è stato finora.» (Frammenti postumi, p. 237).

Per quanto la storia possa essere vista come qualcosa di estraneo, il meticcio è quella cosa che, nel corso della storia, sembra sempre perdere, ma che in alcuni casi perde quando vince, così come perde per vincere. Il meticcio indiano Cavallo Pazzo sa che perderà; noi sappiamo che il meticcio indiano Cavallo Pazzo è destinato ad una brutta fine. Cavallo Pazzo fa una morte miserabile: ma con la sua morte miserabile, il meticcio indiano Cavallo Pazzo fa la morte miserabile che attende ogni meticcio, perché ogni meticcio è quella cosa destinata ad una morte meschina, anche quando muore eroicamente: un indiano d’America, così come uno zingaro o un qualunque altro meticcio, ad es. un meticcio italiano, non è che una cosa che occupa un tratto di territorio finché uno sguardo che comprende ciò che implica l’abitare non implica lo spostamento o la cancellazione di quella cosa in quel punto. Il meticcio vince perdendo senza rendersene conto. Un meticcio è quella cosa che nasce come meticcio, crepa come meticcio e quindi scompare, perché non esiste una memoria per il meticcio.

Quello che il romanzo storico presenta è qualcosa di quello che un personaggio può avere pensato in certi momenti della propria vita, prima che uno sguardo retroattivo potesse definire semplici momenti occasionali che capitano a tutte le persone, come appartenenti a una serie speciale di momenti che costituiscono quel dato personaggio storico. Il romanzo storico è così soltanto il capriccio di un autore, che può scegliere di scrivere tra tipi diversi di romanzi: così quello che questo personaggio storico può avere pensato è comunque qualcosa di arbitrario, in quanto selezionato successivamente, cioè molto dopo, nel momento in cui avviene la decisione di scrivere un romanzo storico.

Gli Stati Uniti hanno dedicato alcuni francobolli ai grandi capi indiani – con la stessa logica con la quale lo Stato del Vaticano potrebbe dedicare un francobollo al Diavolo, fermo restando che lo Stato del Vaticano non ha mai dedicato e mai dedicherebbe un francobollo al Diavolo. Una guerra mitica non è mai vinta perché non è mai finita; si rinnova ciclicamente nel tempo, ma il romanzo storico, così come lo conosciamo attraverso la forma nata in Europa con Walter Scott, è proprio ciò che indica il modo di porre lo sguardo che indica il superamento di un periodo storico.

L’episodio della morte di Orso Solitario rappresenta il modo in cui crepa il meticcio; il modo in cui crepa il meticcio indiano Orso Solitario si oppone al modo in cui muore il soldato di razza bianca Adolph Metzger, il trombettiere armato solo della sua tromba, con cui riesce pure ad ammazzare un meticcio indiano. Chi era Adolph Metzger? Il trombettiere Adolph Metzger aveva pensato, prima di partecipare all’ultima battaglia, che, se fosse stato un nativo d’America, avrebbe combattuto contro l’esercito nel quale egli si trova in quel momento ad eseguire gli ordini. Ma un individuo di razza bianca non può mai combattere a fianco del meticciato, anche se in base al ragionamento potrebbe pure porsi in capo di farlo. Il trombettiere Adolph Metzger è stato l’unico corpo ricoperto dalla pelle di bisonte che imponeva ai meticci indiani di non oltraggiare quel corpo, nel solito modo che i meticci indiani erano soliti oltraggiare i corpi dei nemici. Il romanzo Il crinale mostra che è il meticcio indiano Schiena Alta a gettare la pelle di bisonte sul corpo del trombettiere Adolph Metzger in segno di rispetto, ma questo è irrilevante, perché un gesto di rispetto compiuto da un meticcio è comunque un gesto compiuto solo da un meticcio, che non ha nessuna rilevanza, ma che cade comunque a disprezzo verso il meticcio che lo ha compiuto. Questo è quello che il romanzo non dice, nel momento in cui questo è quello che dice il romanzo Il crinale. L’arte di scrivere chiama l’arte di leggere. Ma l’arte di scrivere il romanzo storico è arte degenerata, arte inquinata dal non pensiero del meticciato, che, per quanto nato all’interno della razza bianca degenerata, non può essere che parodia del pensiero della razza bianca.

Così noi ora possiamo dire che il massacro di Wounded Knee è stato un atto di eroismo, perché ogni tentativo organizzato di distruzione del meticciato è un atto di eroismo, non essendo la soppressione del meticciato, a tutti gli effetti, ancora cosa accettata a livello di diritto della razza chiamata dalla terra ad abitare la terra. Non c’è mai stata la volontà di soppressione del meticciato da parte della razza bianca in quanto volontà di dare forma al mondo – e questo è colpa della razza bianca. Le guerre indiane d’America mostrano il rimpianto, da pare dell’Europa, della mancanza di un pensiero volto alla realizzazione dello sterminio integrale delle forme esistenti nel territorio d’America.

Il romanzo storico così costruito è allora storia della terra che non è mai stata presa, ma solo della terra che è stata percorsa. Pensare quello che il personaggio storico può avere pensato, è pensare quello che ogni persona può pensare in qualunque momento della propria “storia”, come si evince da quello che Jim Bridger pone come domanda a Beckwourth: “È giusto quello che facciamo?”, ma la questione sulla verità o meno di ciò che si fa rimanda sempre alla presenza del meticciato, che non deve mai avere diritto di essere presente, cioè di esistere. «– E pensi che sia colpa tua? [la brutta città che è sorta vicino al grande lago deserto che Bridger per primo ha visto] – ribatté Beckwourth. – Se non fossi stato tu, l’avrebbe scoperto qualcun altro, non ti pare? | – Ma sono stato io, – disse Bridger.» (Il crinale, p. 116). Qui è il tema della responsabilità della razza bianca, che riguarda comunque la soppressione del meticciato: non può esserci rispetto per la bellezza della natura se non si elimina il meticciato, che è ciò che offende alla base la bellezza del mondo, bellezza che deve venire prima di tutto, perché bellezza di origine divina che rimanda al dio della razza bianca, mentre il meticciato è proprio ciò che non ha nulla che fare con ciò che è divino.

Il crinale suggerisce nell’azione di spionaggio compiuta da Cavallo Pazzo sul modo di agire dei bianchi nella valle durante la costruzione del forte Beckworth, una condanna della matematizzazione del mondo.

Torniamo a Bridger, che ha scoperto il Lago Salato: la storia della colonizzazione dell’America da parte della razza bianca è storia della cartografia di quel paese; la cartografia rimanda a una matematizzazione, che Lonesome Dove di Larry McMurtry presenta subito in modo umoristico: «In piedi accanto al carro, Bol [il cuoco] liberò la vescica per quello che a Newt parve un quarto d’ora. Quando Bol cominciava, spesso il signor Gus tirava fuori la sua vecchia cipolla d’argento e la sbirciava finché l’altro non aveva finito. A volte prendeva perfino un mozzicone di matita e un taccuino dal vecchio gilè nero che indossava sempre e annotava il tempo impiegato da Bol a spandere acqua. | – Mi serve a capire se si sta indebolendo, – spiegava. – Alla fine i vecchi la fanno a gocce come un vitellino appena nato. Meglio che prenda nota, così sapremo quando è ora di cercare un altro cuoco.» (p. 29). La storia così considerata si pone allora solo come incasellamento di dati. Propongo a questo punto un collegamento tra L’ombra che viene dal passato di Lovecraft e La biblioteca di Babele di Borges come archetipo della falsità che è alla base del romanzo storico – sia europeo che americano. La storia della necessità di sterminare il meticciato è qualcosa che non è mai stata considerata finora; è qualcosa che si comincia a delineare dai libri che meno che mai mostrano la tensione verso questa parola.

Se la matematizzazione del mondo è quella cosa che può essere resa nello sguardo di ciò che, dal punto di vista di ciò che è sano, guarda ciò che è degenerato, la musica di Rossini è quella cosa che rivela il ticchettio come degenerazione di ciò è ritmo, cioè del ritmo che è alla base di ciò che è musica, quindi di quella degenerazione che, come musica rossiniana, inquina la musica. Questo perché il meticcio è quella cosa che inquina ciò che è vivo soltanto con il suo respiro, cioè con la manifestazione minima della sua esistenza.

È questa quadratura nell’arte della narrazione che sembra indicare qualcosa che non va bene, per cui il romanzo storico così pensato spiega il fantastico attuale, che dà vita alla serie di Harry Potter.

L’arte di scrivere chiama l’arte di leggere, ma entrambe le arti frenano davanti a una terra che non è mai stata presa, onde che non rendono il volto da reggere di nessuna creatura d’onda gettata sulla spiaggia di una terra che non è mai stata acchiappata – quello che posso dire è che noi abbiamo perduto l’arte di leggere il romanzo storico perché abbiamo perduto il vero disprezzo verso l’altro – che è l’Altro di razza. Se infatti il romanzo tratta di individui, ciò che serve adesso è un romanzo che tratti di razze. A che cosa serve un romanzo costruito secondo le vecchie regole del romanzo storico? bene che vada può servire a disprezzare il meticciato.

 

2

Si è richiamato Lonesome Dove a proposito del Crinale, ma Lonesome Dove può essere pienamente confrontato col Crinale a proposito del tema dell’origine. Lonesome Dove è organizzato in tre parti: la prima parte considera la vita in quel punto zero, al confine tra Texas e Messico, che è il villaggio di Lonesome Dove, dove i due ex Texas ranger, Woodrow Call e Augustus McCrae, si sono sistemati: un puro punto di non origine; ma punto dove viene portato l’impulso a uscire ad opera di un loro compagno ex ragner, Jake Spoon, trasferendo una grande mandria di bovini dal Texas al Montana, dove i bovini non ci sono. La seconda parte presenta il viaggio. Qui incontriamo i due pericoli: il pericolo dell’altra razza, che è il pericolo dell’antirazza, del meticciato, rappresentato dal meticcio indiano Blue Duck; e il pericolo della degenerazione della razza, rappresentato dal personaggio di Jake Spoon. Blue Duck è un bandito orgoglioso di essere un bandito, perché quello è il suo modo di essere nel mondo, cioè di essere un meticcio, un meticcio vero. È una persona che non ha fatto una scelta, perché l’essere nel mondo, in lui, non può che tendere ad essere un bandito. Jake Spoon è invece il caso di degenerazione della razza. Una considerazione su basi psicologiche di questo personaggio potrebbe indicarlo come un caso di debolezza di carattere, invece è il caso di degenerazione della razza bianca, che lo ha portato al punto dove è possibile scegliere tra il bene e il male. Poteva scegliere il bene, ma ha scelto il male. Egli non partecipa ai crimini della piccola banda costituita da tre bianchi degenerati (i fratelli Suggs) e un negro alla quale si è aggregato, ma comunque è riconosciuto colpevole insieme agli altri, e impiccato dai suoi vecchi compagni ranger, quando questi fermano la banda. La parte terza è dedicata alla Natività e alla possibilità della Casa.

Dopo la prima parte, che presenta in venticinque capitoli il modo di vivere estremamente ripetitivo e inconcludente di Lonesome Dove, le altre due parti sono lanciate a partire da interruzioni della storia principale. La prima parte finisce con la partenza della grande mandria (messa insieme attraverso diverse ruberie in territorio messicano compiute dai protagonisti del romanzo); la seconda parte presenta personaggi nuovi in un un altro luogo: lo sceriffo July Johnson, sua moglie Elmira, il giovane figlio di lei Joe, il vicesceriffo Roscoe Brown. La causa che ha fatto sì che Jake Spoon abbandonasse il luogo dove si era trovato a passare, Fort Smith, è la causa che ha comportato la sua comparsa a Lonesome Dove, con l’idea di trasferire il bestiame su nel Montana, che ne è attualmente sprovvisto. Egli non parla solo del profitto possibile, ma parla della bellezza di quel paese, incomparabile con quanto si può vedere in quella striscia di confine del sud del mondo. Il riconoscimento della bellezza del mondo è solo l’impiccio di uno sguardo tra altre incombenze più importanti (guadagnarsi la vita), ma è quello che metterà in moto il meccanismo del romanzo: il trasferimento del bestiame, cioè il viaggio irto di pericoli dal Texas al Montana.

Per quanto riguarda Fort Smith, l’invito a compiere il viaggio compare nel momento in cui July Johnson, deve mettersi in viaggio per arrestare Jake Spoon. Se il viaggio della mandria dal Texas al Montana era un’impresa rabberciata alla bell’e meglio, questo viaggio è ancora peggio. La moglie insiste affinché il marito porti con sé il figlio, poi, una volta rimasta sola, scappa imbarcandosi su un barcone di trafficanti di whisky per andare alla ricerca del suo primo nascosto marito, Dee Brown. Quando la notizia della scomparsa di Elmira si sparge nella cittadina, Roscoe è quasi obbligato a partire alla ricerca dello sceriffo. Se il primo grande viaggio della prima parte del romanzo rimandava alla nobile forma dell’epopea, questi nuovi viaggi rimandano alla forma degradata del romanzo picaresco. E infatti gli incontri che i personaggi faranno lungo i rispettivi percorsi saranno incontri degni del romanzo picaro (il vecchio Sam, la giovane Janey, lo scienziato Sedgwuick, i due banditi). Ciò che caratterizzerà la successiva letteratura on the road americana sarà proprio la possibilità dell’avventura e delle strade che attraversano grandi spazi aperti. È insomma una mentalità che non prevede il rapporto di una comunità con la terra – ma anzi la esclude. Questo perché anziché essere “presa”, la terra rimane sospesa in un mare concreto di possibilità.

Ma ciò che sulla strada si incontra sono i due termini estremi della strada: ciò che costituisce l’antirazza, come mancanza della razza (l’indiano); ciò che costituisce la degenerazione della razza bianca (il bandito).

Giustamente dice McCrea di Blue Duck: «Se un giorno incontrerò Blue Duck, lo ucciderò. Ma se non lo faccio io, lo farà qualcun altro. È grosso e cattivo, ma prima o poi incontrerà qualcuno di più grosso e più cattivo di lui. Oppure lo morderà un serpente o un cavallo gli cascherà addosso o finirà impiccato o uno dei suoi uomini gli sparerà alla schiena. Oppure diventerà vecchio e creperà.» (pp. 505-06). Questa è una perfetta rappresentazione dell’essere nel mondo dell’indiano d’America che occupa la terra solo come carcassa vivente, quando è vivo; che occupa la terra, solo come carcassa morta, quando è morto, così come il personaggio di Blue Duck, come rappresentato in questo romanzo, è una perfetta rappresentazione dell’indiano d’America – noi infatti non abbiamo, in questo romanzo, altra rappresentazione di indiani presentati con quella accuratezza. Per questa ragione Lonesome Dove è una vera opera epica, perché mostra la sporcizia di razza che è alla base del meticcio, che lo determina, sia esso un mediocre indiano o un meticcio che ha consegnato il proprio nome alla storia, come ha fatto il meticcio Blue Duck. Tutti noi ricordiamo la fotografia della carcassa del meticcio e capo indiano Big Foot, distesa nella neve con uno strano angolo ottuso, mentre non abbiamo fotografie della carcassa del meticcio Blue Duck. Lonesome Dove fornisce la serie di punti dove il meticcio manifesta la propria natura, in quanto punto in una serie; cosa che il romanzo storico Il crinale non fa, appuntandosi stretto nel punto dove una cucitura della storia è avvenuta. Un meticcio sporca sempre la terra, anche quando non sporca la terra (così come un italiano ruba sempre, anche quando non ruba mai); gli indiani d’America sporcavano la terra che occupavano e bisogna rammaricarsi che non sia stato possibile, in quell’epoca, pensare un progetto di pieno sterminio integrale della forma degli indiani d’America. È questa mancanza della razza bianca che impedisce di cancellare ciò che ha rappresentato la comparsa del meticcio dell’indiano d’America in tutte le terre che il meticcio ha occupato.

Se ci fosse stato il progetto di sterminio integrale degli indiani d’America, allora sarebbe stato possibile pensare il progetto di dare forma al mondo, anziché di avallare un colossale sistema di rapina – e un mito avrebbe preso pure forma nel mondo; ma questo non è stato possibile e il mito è rimasto romanzo. Devo ricordare che in diversi miti il mondo è creato attraverso l’uccisione e lo smembramento di un essere primitivo e che dal suo corpo smembrato si è sparpagliata qui e là l’incomparabile bellezza di tutto il mondo?

Cartografare la terra come presupposto per il lancio di vie di comunicazione è ciò che Thaddeus Coleman Pound (= nonno di Ezra Pound) si è trovato indirettamente a riconoscere di aver fatto nei Cantos del nipote. «As it costs, / As in any indian war it costs the government / 20,000 dollars per head / To kill off the red warriors, it might be more humane / And even cheaper, to educate.» (p. 101), dove si evince che la cultura viene in quel caso vista come sforzo da spendere in educazione, che comporta alla fine un risparmio economico, e questa differenza nel trattamento comporta pure una maggiore umanità. Così cultura è conformità a un modello – rogo di libri e genocidio suonano come impegno a un Nuovo inizio.

La terza parte presenta il tema della Casa. Ma il tema della Casa, in un romanzo così impoverito come è Lonesome Dove, è soltanto il tema di una Casa possibile – così come punto di partenza e punto d’arrivo sono solo un punto di partenza possibile in un punto d’arrivo possibile, mentre ciò che permette di passare dall’uno all’altro punto vuoto è il viaggio in quanto incontro con ciò che rimane incontrastato nella terra quale vita indegna di vivere: il meticciato indiano e la degenerazione della razza bianca. Qui non si tratta più di partire, ma di accogliere, cioè di offrire una casa. Il primo personaggio ad essere accolto è Elmira, che collega la Casa al tema della capanna della Natività. Elmira giunge stremata da un lungo viaggio in compagnia di un bue e di un asinello; partorito il bambino, Elmira riparte subito. Poco dopo giunge in quella stessa Casa July, sempre alla ricerca di Jake Spoon, ma che nel frattempo ha perduto Joe e Roscoe, a causa del meticcio indiano Blue Duck, che ha incontrato lungo il percorso.

Non aver pensato il progetto di sterminio assoluto dell’indiano d’America (= alleviamento della terra) ha comportato la presenza delle forme estreme raggiunte dal meticciato indiano nella forma del meticcio Blue Duck e poi della degenerazione della razza bianca (rappresentato nel romanzo nella forma del personaggio di pura invenzione, a differenza del meticcio Blue Duck, di Jake Spoon).

La Casa che la parte terza del romanzo presenta è solo una casa possibile, perché, se offre accoglienza ad alcuni personaggi del romanzo (July Johnson e suo figlio, e poi Lorena Wood), nessuno trova lì la propria casa. Infatti tutta la terza parte suona in diversi modi il raggiungimento di una meta vuota intorno a possibilità di radicamento, che però non avvengono.

Il punto del Montana dove verrà deciso di fondare il ranch è un punto vuoto come un punto vuoto era già stato Lonesome Dove, dove il romanzo si era aperto e come un punto vuoto è la Casa trovata nel Nebraska lungo il viaggio. Il ranch è il punto dove Call non dirà a Newt che egli (Newt) è suo figlio, e il punto dal quale Call partirà per seppellire il corpo di McCrae ucciso da una banda di meticci indiani.

È per uno di quei casi che accadono durante un viaggio se, durante il viaggio verso sud, Call ha l’occasione di assistere all’impiccagione del meticcio indiano Blue Duck. Call visita il meticcio indiano Blue Duck in carcere. «Blue Duck sorrise. – Ho violentato donne, rapito bambini, bruciato case, ucciso uomini, rubato cavalli, massacrato bestiame e rapinato chi volevo, da quando sei un tutore della legge. E questa è la prima volta che mi guardi in faccia. Non credo che mi avresti ucciso.» (p. 919). Qui è il Meticcio Eterno, che parla, perfetta incarnazione dell’essere nel mondo del meticcio indiano, così come di ogni altra forma meticcia, per sua natura eterna, incarnazione perfetta del Meticcio Eterno, che non può più essere ignorata: è la rivendicazione di quello che il meticcio fa nel mondo; il meticcio è eterno, ma qualunque individuo di razza bianca, anche il più scalcinato, per un colpo di fortuna, lo può fermare; la cattura di Blue Duck era infatti avvenuta quando un vicesceriffo inesperto aveva colpito il cavallo di quel meticcio indiano; il vicesceriffo inesperto, che per un colpo di fortuna ha fermato il meticcio indiano Blue Duck, è la controparte del vicesceriffo inesperto Roscoe Brown, che non è stato in grado di portare a termine il suo compito, cadendo lungo la strada; ma se il più scalcinato individuo di razza bianca può fermare un meticcio indiano ritenuto invincibile, è colpa della razza bianca se non si è mai attuato un programma scientifico e assoluto di rimozione (sterminio) del meticciato indiano, perché solo la razza bianca può pensare e attuare il completo progetto di sterminio assoluto del meticciato, che solo può portare alla nuova considerazione della terra in quanto terra alleviata.

Un episodio conferma la natura di questa guerra, che è guerra inconsapevole incontrata per caso lungo un tragitto che aveva per scopo, un poco da più parti malcelato, l’arte di scorrere la terra, ma che permette di vedere in un altro modo quello che nel Crinale viene presentato solo nella forma di storia: il torello texano, personaggio episodico in questo romanzo, ma fondamentale per il suo rimando al Táin. Lonesome Dove è un grande romanzo perché espone, in chiave di romanzo tipicamente americano, elementi di un mito che hanno trovato la formulazione di origine in Europa. Il torello compare all’improvviso in I/24, non piace a nessuno e si unisce alla mandria in movimento, seguendola poi puntualmente. È tutt’altro che bello e ci si chiede se sia giusto portare nel Montana un animale del genere, cioè così lontano dai canoni di bellezza riconosciuti per le razze bovine. «A dire il vero, il torello non piaceva a nessuno dei cowboy; ogni tanto caricava un cavallo, se gli bolliva il sangue, e con gli uomini appiedati faceva anche di peggio. Una volta Needle Nelson era smontato da cavallo per fare acqua in santa pace e il torello lo aveva caricato così all’improvviso che Needle era dovuto balzare in sella mentre ancora pisciava. Tutta la squadra si era spanciata a sue spese. Needle si era infuriato tanto che voleva catturare il toro e castrarlo, ma Call si era opposto. Gli pareva un bel toro, nonostante quello strano miscuglio di colori, e voleva tenerlo. | – Lascialo stare. Ci serviranno dei tori nel Montana. | Augustus se l’era spassata. – Dio santo, Call. Vuoi riempire il paradiso con animali come quello? | – Non è così brutto, se non guardi il colore.» (p. 234)». Ma la sua impresa fondamentale è la lotta contro il grizzly. Nessuno dei due animali vince, e i due alla fine si separano, il grizzly tornando nella foresta da cui era sbucato, il torello tornando nella mandria, dove poi verrà curato e raggiungerà infine il Montana. In questo scontro si può vedere un simbolo della lotta contro gli indiani. Considerare: nessuno dei due muore; il torello è ciò che difende la mandria, che in quel momento è il simbolo di ciò che è minacciato; il torello texano è una forma sgangherata, capitata in quella mandria per caso da chissà dove così come come la razza bianca rappresentata in America e trovatasi a combattere contro gli indiani sono un qualcosa di rabberciato qua e là in Europa.

Nell’episodio della lotta tra il torello texano e il grizzly questo romanzo-epopea si alza a livello del Táin – e infatti di una razzia si tratta – e i due marginali personaggi di origine irlandese che si aggregano al gruppo per caso ne sono la simbolica indicazione. Ogni tema mitico della razza bianca è destinato a rinascere, anche nelle forme più contaminate offerte dal romanzo moderno; mentre ogni controforma del meticciato, sia il resoconto islamico del viaggio dantesco o la decameronizzazione del mondo inaugurata da Boccaccio, è destinata a rimanere a esempio del disprezzo del meticciato.

Il torello bastardo, brutto, violento, dai colori sgargianti, odiato da tutti è il simbolo di ciò che rimane adesso come simbolo della razza bianca; il grizzly che esce improvvisamente dalla foresta è il simbolo di ciò che era presente in quel mondo: il meticcio indiano. Entrambe le forme suscitano un qualche disgusto, ma sono le due vere forze che possono scontrarsi in quel momento: «Il toro texano era l’unico a fronteggiare l’orso. Lanciò un muggito di sfida e cominciò a raspare il terreno. Avanzò di qualche passo e lo raspò di nuovo, gettandosi nuvole di polvere sul dorso. | – Quel torello non sarà così pazzo da caricare l’orso, vero? – domandò Augustus.» (p. 801). La lotta tra i due animali non determina nessun vincitore, perché i due animali si separano, e infatti dalle guerre indiane non è uscito un vincitore, perché ciò che avrebbe dovuto determinare un vincitore avrebbe dovuto passare attraverso la soppressione completa del nemico, ma che doveva prevedere il piano del genocidio, che solo poteva essere pianificato dalla razza bianca, ma che non poteva essere pianificata da ciò che rappresentava, in quel punto, in quel momento, la razza bianca.

Le guerre indiane, dal punto di vista dell’Europa, possono soltanto rappresentare il rimpianto per la mancanza di un piano integrale di sterminio delle popolazioni locali – fermo restando che un tale programma non deve mai fare capo a un progetto di rapina, bensì a quel progetto di rispetto nei confronti della terra, che ha per fine la terra alleviata.

A noi non rimane che contare quello che non ci sono mai stati: i morti.

Faye su Heidegger: «C’è un secondo testo sui campi di sterminio nel volume delle conferenze di Brema [Il pericolo]. Meno conosciuto ma ancor più denso delle ombre nere che invadono la mente del suo autore, il brano testimonia ciò che abbiamo deciso di chiamare il negazionismo ontologico di Heidegger. In verità, quello che egli sostiene rientra nel campo di quanto Paul Celan definisce “indicibile”, tuttavia l’espressione negazionismo ontologico esprime chiaramente il fatto che Heidegger attacca non solamente la realtà storica dei fatti riducendo sostanzialmente il numero delle vittime dei campi e negando ogni specificità al genocidio nazista, ma l’essere stesso di quelle vittime.» (p. 429).

Longerich su Himmler: «If we consider Himmler’s empire and the plans and utopian fantasies he developed in their entirety, it is also evident that he had amassed a potential for destruction that far exceeded the catastrophes that Nazism itself actually caused: for the systematic murder of the European Jews, with which above all the name Himmler is connected today, was not in his eyes the ultimate goal of his policies but rather the precondition for much more extensive plans for a bloody “new ordering” of the European continent.» (p. 748).

 

 

Michael Punke, Il crinale, traduzione di Gaspare Bona, Einaudi, Torino 2023
Aram Mattioli, Mondi perduti. Una storia dei nativi nordamericani. 1700-1910, traduzione di Elena Sciarra, Einaudi, Torino 2019
Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, Milano 2001
Friedrich Nietzsche, Opere, vol. VI/2, Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, traduzione di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1976
Friedrich Nietzsche, Opere, vol. VII/1**, Frammenti postumi 1882-1884, traduzione di Leonardo Amoroso e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1986
Larry McMurtry, Lonesome Dove, traduzione di Margherita Emo, Einaudi, Torino 2017
Miguel Serrano, Il Cordone dorato. Hitlerismo esoterico, traduzione di Nicola Oliva, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2007
Renzo Giorgetti, Il dizionario di Miguel Serrano, Passaggio al Bosco, Firenze-Roma 2019
Ezra Pound, The Cantos, Faber and Faber, London 1975
La grande razzia (Táin Bó Cúailnge), a cura di Melita Cataldi, Adelphi, Milano 1996
Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, traduzione di Livia Profeti, L’Asino d’oro, Roma 2012
Peter Longerich, Heinrich Himmler, translated by Jeremy Noakes and Lesley Sharpe, Oxford University Press, Oxford 2012

Jack London, il “Wild”

(Fantasia su un tema di Jack London)

1. Il Wild

Nella sua traduzione di White Fang di Jack London (Feltrinelli, 2019), Davide Sapienza precisa: «Per rispettare il profondo significato originale voluto da Jack London, nella traduzione italiana il termine “Wild” verrà mantenuto in inglese per tutto il romanzo. “Wild” sta per “la natura selvaggia”, “lo stato naturale”, “la vita allo stato brado”, “il selvatico”.» (n. 1, p. 205).

A­ livello concettuale, si potrebbe indicare Wild con “Aperto”: quando l’Aperto è ciò che si apre all’animale (che in questo romanzo si presenta come il cane) in quanto natura selvaggia di cui esso, avendone fatto parte in origine, in quanto lupo, è chiamato, a un certo punto, in quanto cane, ad avere la possibilità di tornare di nuovo a fare parte di nuovo; l’Aperto è allora uno spazio contrapposto a quello umano, che pertanto si presenta come uno spazio meno che mai “aperto”, bensì “circoscritto”, ma che riguarda l’animale che ha subito il processo di domesticazione della specie, e che si riversa sull’essere umano in quanto artefice del processo che, dalla specie lupo, ha comportato la specie “cane domestico”.

Il romanzo White Fang segue il romanzo The Call of the Wild perché il richiamo non comprende più un singolo individuo, cioè un cane, ma un insieme di cose e persone posti fra loro in rapporto.

Tanto un uomo quanto un cane possono presentare allora il conto all’uomo per la creazione del cane – posto che per “conto” si intenda, qui ciò che tiene in conto la forma del romanzo.

In Zanna Bianca abbiamo quattro elementi nel gioco: il cane, il lupo, il nativo, l’essere umano.

“L’Aperto” è ciò che si presenta al cane come puro “richiamo”, perché è ciò che riguarda ciò di cui l’animale non è più parte, ma che pure lo riguarda – perché ha sempre la forza di chiamare, essendo l’incubo ormai il fantasma che aiuta ad aprire la porta per chiedere aiuto, che è il sogno della mara della porta.

In questo spazio aperto, il cane, che è stato creato dall’uomo, è raggiunto dal richiamo dell’Aperto. Ma il richiamo dell’Aperto è ciò che riguarda l’uomo che avverte la responsabilità in quanto specie responsabile della creazione della specie “cane”, che ha comportato l’imprigionamento parziale e il danneggiamento parziale della specie lupo. Ma ciò che del lupo rimane nel cane, riguarda pure l’uomo, che ha sottoposto la propria specie allo stesso processo di allevamento-addomesticamento, ma che, ad un certo punto della propria evoluzione, viene chiamato alla creazione di una nuova specie umana; diversa dall’uomo, così come il lupo è diverso dal cane; ma che, a quel punto, con sindrome di Marco Polo, l’uomo sembra fare orecchie da mercante – non avendo più intenzione di andare oltre a mercatantare.

Sappiamo che la nuova specie deve comportare la nuova polifonia che sarà alla base di ciò che la terra avrà diritto di chiamare come ciò che avrà il diritto di essere identificato come proprio abitante. Che è ciò che l’uomo deve avere a che fare infine come ciò che lo riguarda in quanto specie.

L’aperto che si presenta al cane – animale creato dall’uomo – è simile all’aperto che si presenta all’uomo come progetto di creazione di tutto un nuovo tipo umano: l’animale cancella la sottomissione, l’uomo crea la nuova sottomissione per alcuni tipi e cancella così la propria millenaria sottomissione a tutti i tipi.

2. I tre padroni

Consideriamo i tre padroni che Zanna Bianca riconosce come “dèi”, cioè come autorità che non devono essere attaccati e che avrebbero pure il “diritto” di picchiarlo, se questo deve garantire la propria posizione in quanto dio.

Perché a un cane sarebbe allora permesso quello che a un essere umano è invece rigorosamente vietato?

Vediamo i tre dèi:

Castoro Grigio: è il dio imbecille. È il capo di una tribù di nativi americani. È un tipo semplice, rozzo e brutale. Ma questo è ciò che lo costituisce come dio della sua razza. È destinato a una fine grottesca, farsesca, pienamente meritata (in quanto farsesca apoteosi della sua razza, più che del suo singolo carattere egoista e primitivo che egli pone allora in gioco). Come capo, egli incarna perfettamente la fine che aspetta alla sua razza miserabile (ma meglio è dire: antirazza). La sua fine è la farsa che chiude la mancanza della nota di tragedia, poiché la sua razza è sempre stata nota di commedia, che il romanzo adesso compendia, cosicché in Castoro Grigio non ci sono che due dimensioni, quando nello stadio successivo, la razza bianca, vediamo tre dimensioni riconosciute.

Beauty Smith: è il dio folle. È la rappresentazione della degenerazione della razza bianca. La razza bianca viene subito riconosciuta come superiore al meticciato di cui è qui rappresentante Castoro Grigio col suo pacifico dio imbecille. Beauty Smith è il bianco degenerato. Eppure, indirettamente, anch’egli ha un grande merito nel disegno complessivo del romanzo: determina la rovina del meticcio Castoro Grigio, vendendogli il whisky che ne determinerà il grande stordimento finale, permettendo il passaggio di Zanna Bianca dal primo dio (il dio imbecille) al nuovo dio, il dio folle, e quindi il passaggio all’ultimo dio. Il nuovo dio e l’ultimo dio sono le due forme di dèi presenti nella razza bianca, che chiamano la forma della quarta dimensione. Il disgustoso bianco degenerato Beauty Smith determina la rovina e la scomparsa del disgustoso meticcio Castoro Grigio; il dio folle uccide indirettamente il dio imbecille perché il “dio folle” è superiore al “dio imbecille” per razza, perché un bianco degenerato, per quanto folle, è – comunque – superiore a un qualunque meticcio piattamente conforme alle regole del meticciato della razza di cui viene ad essere il casuale esponente: il degenerato Beauty Smith è un caso individuale di degenerazione della razza; il meticcio Castoro Grigio non è un caso individuale di degenerazione della razza, ma è esso stesso la manifestazione di una razza inferiore, di un meticciato.

Weedon Scott: è il dio umano. È il dio dell’amore così indicato nella sua seconda manifestazione, che riguarda gli esseri umani, cioè gli individui di razza bianca, e non più i nativi americani. Weedon Scott ha fatto quello che ha potuto per Zanna Bianca, lo ha salvato, gli ha fornito un riparo, ha evitato di restituirlo al Wild nel momento in cui egli aveva capito che il Wild non era più l’ambiente di Zanna Bianca; ma adesso il progetto deve passare dall’individuo alla specie, che è ciò che collega l’individuo Weedon Scott e l’individuo Zanna Bianca, rimediando non solo il danno fatto all’individuo di una specie ad un’altra specie), o ad una specie ad una sottospecie, ma anche al danno fatto a se stesso in quanto specie, impegno che comporta la soppressione del tipo primitivo e del tipo degenerato. Ma qui si pone la domanda: che cosa vuole dire la definizione “dio dell’amore”, ampiamente utilizzata da Jack London all’interno di questo romanzo, a proposito di Weedon Scott nei suoi diversi rapporti con Zanna Bianca? Se nessuna domanda poteva riguardare il dio imbecille e il dio folle (essendo il dio imbecille la perfetta manifestazione del meticciato e il dio folle la perfetta realizzazione della degenerazione della razza bianca), invece questa nuova domanda viene posta verso questa nuova figura, che riguarda che cosa si intende con amore, vale a dire: amore verso che cosa? cioè una forma che, nella piena sua manifestazione, tende a una forma completamente diversa – da ciò che noi, frettolosamente, potremmo intendere come “dio dell’amore”.

Tre tipi di centri abitati si presentano nel romanzo: Fort McGurry, che è la meta che i due primi personaggi incontrati nel romanzo cercano di raggiungere; di questi due personaggi sapremo solo i nomi, Bill e Henry; Bill e Henry trasportano il corpo morto chiuso in una bara di un terzo personaggio, successivamente, e solo per una volta, identificato come lord Henry; Bill e Henry e il loro carico silenzioso sono inseguiti da un branco di lupi, una serie anonima da cui si determina un solo individuo, una lupa, che viene indicato come probabile frutto di incrocio fra il lupo e il cane, perché anche il suo modo di fare ha qualcosa delle astuzie di chi ha frequentato una forma qualunque di essere umano, anche la più inferiore, come appunto è la forma rappresentata dal meticcio Castoro Grigio, e che quel meticcio potrà poi riconoscere con il nome datole da un altro meticcio a lui molto vicino per vincoli naturali, il proprio fratello, per cui, il meticcio Castoro Grigio, essendo nel frattempo crepato il fratello, “reale padrone” della lupa, pensa di potersi appropriare della lupa in quanto “cosa” che apparteneva al fratello, e per far valere questo diritto, il meticcio Castoro Grigio non fa altro che chiamare la lupa con il nome che il meticcio suo fratello, prima di crepare, le aveva riservato, cioè il nome “Kiche”, e, al suono di quel nome, la lupa si sottomette, destando la meraviglia, e quindi la sottomissione, per imitazione, del figlio della lupa, da un meticcio qualunque chiamata Kiche, e che un altro meticcio qualunque darà poi il nome di Zanna Bianca. Infatti un meticcio vede solo gli elementi con cui ha a che fare come cose senza rendersi conto che esso stesso è una di quelle cose, e senz’altro una delle più disgustose e meritevoli di essere soppresse – ma di questo verrà fatto cenno in seguito.

Intanto è importante notare l’uso del dialogo attraverso tutto questo romanzo, essendo il linguaggio ciò che caratterizza la specie umana, separando tale specie dagli animali.

Il romanzo Zanna Bianca presenta tre tipi assolutamente diversi di linguaggi: il dialogo elementare tra Bill e Henry lungo tutta la prima parte del romanzo; il dialogo costituito da richiami elementari fra i nativi, che può essere tutto riassunto nel richiamo del meticcio Castoro Grigio alla lupa: “Kiche” (III/1); infine il dialogo evoluto che intercorre tra Weedon Scott e il suo dipendente Matt (IV/5), – che riguarda ciò che finalmente viene indicato come ciò che ha diritto di vivere. Questo perché il pieno raggiungimento del dialogo, in quanto tempo del linguaggio umano è ciò che riguarda chi ha diritto di vivere. Infatti il primo balbettamento di dialogo comporta solo il modo di portare in salvo la pelle; il secondo balbettamento di dialogo comporta il riconoscimento dell’imposizione del bastone per salvaguardare la propria carcassa; ma il terzo dialogo, dialogo a tutti gli effetti, perché basato sulle autentiche caratteristiche del linguaggio, comporta la questione di ciò che ha diritto di vivere. Vale a dire ciò che riguarda la forma cui spetta il diritto di vivere. Il dialogo oltrepassa Beauty Smith, perché è a tutti gli effetti ciò che riguarda l’approssimazione all’essere umano in quanto garanzia della propria vita, ponendosi verso la formazione di un nuovo discorso basato su ciò che ha diritto di vivere.

Nel primo caso (stadio elementare del meticciato) il linguaggio è una serie di luoghi comuni; nel secondo caso (stadio del meticciato della razza bianca) il linguaggio è una serie di segnali; ma nel terzo caso (stadio autentico della razza bianca), il linguaggio serve a stabilire a chi spetta il diritto di vivere, che comporta il diritto di abitare la terra, ma poi il diritto di chiamare i nuovi dèi della terra, che saranno, allora, i veri padroni della terra. Infatti l’uomo non sarà mai il vero padrone della terra finché non avrà accettato il diritto di stabilire a chi spetta il diritto di vivere.

Bill e Henry scorrono la terra allo scopo di raggiungere Fort McGurry, così come anche il dio folle Beauty Smith scorre la terra spostandosi da Fort Yukon a Dawson, dove avrà la sfortuna, per lui, di incontrare Weedon Scott, che lo priverà della sua grande fortuna e fonte di reddito, Zanna Bianca, come egli aveva prima fatto, privando il meticcio Castoro Grigio della propria modesta fonte di reddito, cioè lo stesso Zanna Bianca.

Weedon Scott ha un legame con la terra, che non è l’Aperto da scorrere (come nei trasferimenti di Bill e Henry), né il luogo circoscritto da raggiungere (come nel trasferimento di Beauty Smith), ma una terra che pone la domanda al suo abitante e, sulla base della risposta, la terra gli pone infine il nuovo stadio a cui giungere.

Il primo centro abitato è un forte da raggiungere, Fort McGurry (è ciò che impegna Bill e Henry nella loro corsa attraverso l’Aperto), poi abbiamo un miserabile accampamento indiano, dove agisce il capotribù Castoro Grigio, destinato alla ridicola brutta fine che sappiamo, fine nella quale, tuttavia, c’è un sacco di divertimento, posto che la si voglia suonare fino in fondo, con tutti suoni della veglia che le spetta – da quel disgustoso meticcio che, per razza, era sempre stato; poi una città, dove agisce il degenerato Beauty Smith, e infine una “grande città” (dove avviene la morte di Dio e si sancisce ciò che, a partire dalla morte di Dio, deve essere stabilito come responsabilità della razza bianca su ciò che comporta l’accettazione della morte di Dio). Infatti altri e più potenti dèi possono adesso comparire, essendo Weedon Smith, a tutti gli effetti, l’ultimo dio.

Un posto a parte occupa JIM HALL, che pur non essendo un “padrone di Zanna Bianca” condivide la divinità dei suoi veri padroni, essendo esso una cosa di razza bianca, ma presentandosi come una specie di sintesi: è primitivo, mezzo bambino, rozzo come il “dio imbecille”; non è folle come Beauty Smith, ma è un caso di degenerazione della razza bianca, come appunto lo era stato Beauty Smith, con la sua bruttezza e il suo carattere odioso. Zanna Bianca uccide il “dio” Jim Hall e l’uccisione è approvata dagli dèi giusti, vale a dire dai rappresentanti dell’autentica razza bianca. Jim Hall non ha mai avuto rapporti con Zanna Bianca, prima che, di propria iniziativa, entrasse di nascosto nella casa sorvegliata da Zanna Bianca allo scopo di uccidere il proprietario della casa, il padre di Weedon Scott, scatenando così l’attacco dell’animale. Jim Hall è il primo caso di uccisione di un dio di razza bianca, per quanto degenerato, legittimata dagli autentici dèi della razza bianca.

3. L’uccisione del dio

Castoro Grigio è il meticcio che insegna a Zanna Bianca il rispetto verso gli dèi con le bastonate: ma, sotto quel dio, Zanna Bianca imparerà, furbescamente, a mordere impunemente un dio e poi un animale appartenente a un dio, e imparerà infine a uccidere il dio inferiore e gli animali posseduti da un qualunque altro dio inferiore, perché è giusto che così sia: perché o non esistono dèi del tutto, o esistono dèi di razze inferiori e dèi di razza pura. Le bastonate di Castoro Grigio scandiscono la decameronizzazione del mondo, perché sono la decameronizzazione che il mondo ha dovuto subire. Questo perché il meticciato è uguale in tutto il mondo e può essere riconosciuto in tutto il mondo, sia che riguardi il Decameron del paroliere del disgustoso meticcio italiano Giovanni Boccaccio, sia che riguardi un sistema mitico del meticciato dei tanti nativi americani che compongono le diverse tribù laggiù presenti: infatti un meticcio italiano, che sia il meticcio italiano Giovanni Boccaccio o un qualunque altro meticcio italiano, è uguale a un qualunque altro meticcio che occupi per caso il mondo. Un meticcio è sempre un meticcio qualunque, cioè la cosa intorno alla quale deve imporsi il discorso relativo alla soppressione del meticciato, affinché una nuova e superiore forma di specie umana possa comparire e un luogo possa ritornare parte del mondo.

Io parlo solo del meticciato, del meticciato italiano prima di tutto, essendo il meticciato italiano la forma di meticciato nella quale mi sono trovato, indipendentemente dalla mia volontà, ad arrabattarmi per una questione di nascita. Detto questo, devo aggiungere che è la stupidità del meticcio, che non tollero.

Per cui il meticcio italiano è il mio bersaglio.

È importante l’opposizione “Nativi/Esseri umani”. Il nativo è un essere primitivo, di intelligenza limitata, sempre più vicino alla natura che alla cultura; l’essere umano è rappresentato dalla razza bianca, è più variegato e complesso del nativo americano, ma è interamente dalla parte della cultura. Notare che Jack London definisce i nativi “Gli dèi del Wild”, cioè coloro che sono compresi nel Wild; i bianchi vengono definiti “Gli dèi superiori”, coloro che non appartengono al Wild, che possono entrare nel Wild per avere con esso rapporti temporanei, ma che non ne costituiscono parte inscindibile, perché ne sono staccati. Tuttavia Jack London riconosce una grande differenza tra questi tipi di dèi: che comporta il dio folle (la degenerazione della razza) e il dio dell’amore (il dio della razza bianca, al quale spetta il confronto con la domanda fondamentale: “A chi spetta il diritto di abitare la terra?”, ma che comporta la domanda: “A chi spetta il diritto di scegliere chi ha il diritto di vivere?”).

Infatti l’essere umano ha creato il cane, ma ha permesso la diffusione delle varie forme degenerate della propria specie, cioè la specie “umana”. Ora un nuovo compito lo attende e chiama: non solo la responsabilità per la forma creata in modo irresponsabile, il cane dal lupo, bensì la creazione di una nuova specie di essere umano, che non avrà più nulla a che vedere con ciò che si è finora definito “essere umano” – e che comporterà infine la vera liberazione del lupo dal cane (eppure forma davanti alla quale, a questo punto, l’uomo fa orecchie da boccaccesco mercatante).

Non si tratta più della possibilità di uccidere un individuo, per la cui azione ci si trova poi a chiamare il castigo, ma della possibilità di annullare come delitto tutta quanta l’uccisione di una razza – passare cioè dal delitto al genocidio – forma per la quale nessun romanzo sulle sue storte gambette si è mai fatto avanti sinora, ma non più portato all’accettazione del castigo, bensì legittimato dalle nuove leggi della razza, che non imporranno mai un castigo per questo perché non deve suonare come delitto.

Il compito che spetta al vero dio della razza bianca è la soppressione del meticciato e del degenerato di razza bianca. Il compito che lo aspetta consiste nel compito di alleviare la terra, creando così il simbolo della terra alleviata, allo scopo di creare la nuova armonia tra chi ha il diritto di abitare la terra e la terra stessa, a cui bisogna rendere il compito di scegliere il proprio abitante, cioè il compito di siglare il nuovo patto fra la terra e coloro che hanno diritto di abitare la terra, che devono essere scelti, in quanto veri abitanti della terra, dalla terra stessa, consistendo in questo il nuovo sigillo.

L’uccisione di Dio non consiste solo nella constatazione della morte di Dio, riguardando invece, l’uccisione di Dio, il confronto di ciò che l’atto di aver ucciso Dio, e di aver autorizzato l’uccisione di Dio, deve poi comportare per tutti coloro che, anche indirettamente, hanno ucciso Dio.

Zanna Bianca passa così, attraverso le forme dei suoi tre padroni, attraverso il Meticcio, il Degenerato, l’Ultimo dio. L’ultimo dio non può che confermare ciò che il Meticcio ha a suo tempo combinato, fornendo all’individuo che il meticcio ha combinato (cioè il cane Zanna Bianca), il luogo dove restare, ma volgendo in essere ciò che è il nuovo compito della razza bianca: alleviare la terra, vale a dire creare il nuovo spazio come spazio di terra destinato alla razza bianca, spazio che deve passare attraverso la soppressione della razza inferiore (il nativo) e la soppressione della degenerazione della razza superiore, che è il meticciato.

Il romanzo inizia con l’Aperto. La figura che si delinea dalla serie è la lupa, dal dio imbecille chiamata Kiche prima della sua fuga, e che porterà alla comparsa di Zanna Bianca, che presenterà, per la seconda volta, l’episodio della carestia, elemento scatenante della fuga della madre, quindi della fuga dallo spazio occupato dal dio imbecille e poi il ritorno allo spazio occupato dal dio imbecille (non essendo più quell’individuo adatto al Wild). Il capitolo finale è ambientato nello spazio circoscritto, con Zanna Bianca che scompare in esso, perfettamente integrato dopo una morte simbolica che ha comportato lo squartamento e poi la ricomposizione simbolica del proprio corpo, la necessità di imparare di nuovo a camminare e il riconoscimento da parte dei cuccioli come affine, cioè un ritorno, da parte di Zanna Bianca, allo stato del cucciolo nella tana.

A questo punto bisogna chiedersi: in quale momento, Zanna Bianca, ottiene il pieno riconoscimento all’interno dello spazio circoscritto (la tenuta del giudice Scott) nel quale gli è capitato di trovarsi ad essere sistemato? Quando ammazza il bandito Jim Hall, il secondo tipo di bianco degenerato che il romanzo presenta, dopo l’attacco al primo tipo di bianco degenerato, rappresentato da Beauty Smith (che Zanna Bianca non ammazza, ma solamente ferisce; e ferisce solo dopo che il degenerato Beauty Smith si era introdotto di nascosto nella proprietà di Weedon Scott allo scopo di rubare Zanna Bianca, portando con sé gli emblemi araldici della sua antirazza: il randello e la catena).

Perché Jim Hall viene ucciso, mentre Beauty Smith viene soltanto ferito (vale a dire “risparmiato”)? La vita dell’uno non è più importante di quella dell’altro, poiché, in entrambi i casi, si tratta di “vita indegna di vivere”; ma questo non toglie che l’accettazione della soppressione del degenerato possa avvenire solo in alcuni momenti, momenti divinamente privilegiati – almeno per ora. L’uccisione del meticcio Beauty Smith non avrebbe nessuna importanza simbolica: la vita del meticcio, in quanto vita indegna di vivere, ha importanza solo a livello di simbolo. Jim Hall deve infatti morire così come Zanna Bianca deve sopravvivere, perché solo così può funzionare il passaggio del compito riservato alla razza, che è ciò che dall’individuo passa alla specie.

Questo apre la questione dei tre tipi riguardanti l’annientamento riservati ad altrettante persone presenti nel romanzo. Castoro Grigio crepa come alcolizzato, ed è nella forma farsesca di anticapo che la sua tribù lo vedrà tornare – per poi crepare. Beauty Smith crepa con il braccio devastato da Zanna Bianca, particolare che si aggiunge al suo fisico già ampiamente bollato come fisico di degenerato di razza bianca. Jim Hall crepa dilaniato da Zanna Bianca nel corso della battaglia alla quale egli tiene arditamente testa, ferendo gravemente Zanna Bianca, poiché il suo è, a tutti gli effetti, un fisico imponente, che può stare alla pari con quello di Zanna Bianca (Jim Hall non è, infatti, come Jak London precisa, un individuo bollato dalla nascita, ma il prodotto di un fascio di circostanze che si sono trovate ad agire malignamente contro di lui, quasi coalizzandosi per provocarne la rovina).

Zanna Bianca è un romanzo che, attraverso la messa in gioco di una tripartizione di figure mitiche, retroattivamente procede dalla farsa verso la tragedia; e attraverso questi tre tipi di annientamenti, Zanna Bianca viene sempre più direttamente a trovarsi coinvolto – questo perché la sua funzione consiste nel condurre a destinazione la domanda: nel primo tipo di annientamento (quello che riguarda il meticcio Castoro Grigio), Zanna Bianca è solo indirettamente coinvolto: Beauty Smith vuole acquistare Zanna Bianca dal suo “legittimo” proprietario, e, rifiutando, il meticcio, la vendita, l’unico modo per appropriarsene è fare in modo che il meticcio Castoro Grigio non capisca più niente, vale a dire stordirlo con l’alcol, come il degenerato Beauty Smith astutamente decide di fare, allo scopo di risolvere la questione altrimenti irrisolvibile. Il secondo tipo di annientamento vede Zanna Bianca coinvolto in quanto ferimento di Beauty Smith. Il terzo tipo di annientamento vede invece Zanna Bianca più che attivamente coinvolto, proprio perché l’attacco di Zanna Bianca provocherà l’annientamento immediato (e non ritardato, come nel caso di Castoro Grigio) del secondo e ultimo tipo di bianco degenerato che il romanzo presenta e la stessa morte simbolica di Zanna Bianca. Notare che Beauty Smith viene aggredito fuori casa, mentre Jim Hall viene aggredito dentro la casa: nella prima aggressione, apertamente diretta contro Zanna Bianca, Zanna Bianca non aveva diritto di entrare all’interno della casa, mentre nella seconda aggressione, in nessun modo diretta contra Zanna Bianca, Zanna Bianca aveva un parziale diritto di entrare nella casa, in virtù del patto che si era stabilito fra la donna della casa e il cane del Wild.

L’annientamento di Jim Hall è indirettamente permesso dalla moglie di Weedon Scott, che, come consuetudine ormai da tempo, di sera, ella faceva entrare in casa il cane Zanna Bianca, facendolo poi uscire presto di mattina, all’insaputa di tutti quanti all’interno della casa – e questo patto segreto, fra la donna e il cane, ha permesso al cane di sorprendere l’intruso nel momento in cui l’intruso aveva l’intenzione di uccidere il padrone della casa, casa nella quale egli si era furtivamente e fraudolentemente introdotto. Questo patto di lealtà fra la donna e il cane si contrappone all’antipatto che legava gli indiani femmina (le squaw) e il cane (Zanna Bianca), quando il cane (Zanna Bianca), cercava di rubare la carne e il pesce agli indiani femmina (le squaw) che lo custodivano come loro compito, e gli indiani femmina (le squaw) lo allontanavano con lanci di pietre.

Infatti il tipo Jim Hall non è altro che l’aggiornamento del tipo Beauty Smith: questo tipo non ha la vigliaccheria e nemmeno l’impotenza di Beauty Smith, ma rappresenta l’aggiornamento del tipo Castoro Grigio. Ma questo è l’aggiornamento sempre possibile di un tipo, almeno fino a quando il tipo base non verrà superato, cioè soppresso (questo deve essere chiaro, ma questo può avvenire solo attraverso un progetto statale, che il romanzo non può presentare, e non come iniziativa individuale, come il romanzo invece indirettamente presenta) – per cui, a quel punto, non vi saranno più aggiornamenti. Così abbiamo superato lo stadio del dio imbecille, rappresentato dalla presenza dei nativi americani, ma siamo in presenza di due tipi di bianchi degenerati, non di divinità, che sono il dio folle e il dio che non crede più in Dio.

Weedon Scott è il dio che legittima la morte di Dio, ma è colui cui spetta il nuovo compito, che il romanzo non presenta, né potrebbe mai presentare – come tipo di romanzo: la creazione della terra alleviata, che sarà la nuova apertura della terra, come piena accettazione della morte di Dio, perché dovrà finalmente, in armonia con i propri abitanti, avere a che fare con l’annientamento del meticcio e del bianco degenerato, battaglia che costituirà il nuovo patto stipulato con la terra, ispirato all’amore della terra fra coloro che la terra avrà scelto come propri abitanti e la terra stessa – e in questo senso, cioè nel nuovo patto stabilito con la terra e con chi ha diritto di abitare la terra, Weedon Scott può essere definito, adesso giustamente, senza bisogno di ulteriori precisazioni, “Dio dell’amore”, come Jack London lo ha più volte definito in questo romanzo.

Rapagnetta

Leggendo gli scritti del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio, si ha a che fare, alla grande, con ciò che è lo scrittore del meticciato – per una volta tanto.
Nella sua gracile genialità, Gabriele d’Annunzio ha assemblato parole del meticciato italiano allo scopo di comporre opere di “letteratura” per il meticciato italiano; ha assemblato spicchi e parole, forme e terriciattole prelevandole dal patrimonio comune del meticciato italiano; ha assemblato, nell’ultimo suo progetto, spicchi e spacchi di terreno per il meticciato italiano.
In che cosa consiste, vale la pensa chiedersi, l’arte inimitabile di d’Annunzio? nel comprendere, forse, il problema del meticciato? nel rivestirlo, forse, di parole più che adatte a giustificare tutta quanta la maledetta Italia?
Pensare in che cosa consista la gracile genialità di d’Annunzio è pensare la rapagnetta qualunque da cui il progetto d’Annunzio ha preso perfido salto d’inizio. D’Annunzio era una rapagnetta qualunque, che solamente con il rivestimento delle giuste parole sarebbe stato in grado di svolgere la funzione di annunzio di ciò che non s’era mai visto in quel campo di rapagnette a lui sì prossimo sol per nascita. A malapena, volendo rinascente la letteratura nella maledetta, vecchia e bisunta Italia, d’Annunzio poteva comparire qual personaggio di un romanzo di (oppure alla) Jack London. Ma questo non dice molto, visto che anche Dante era piccola, squallida istessa cosetta.
Prima di essere un paese senza eroi, l’Italia è un paese senza poeti. Fare poesia è ciò che permette di passare dalla parola, che è ciò che garantisce la comunicazione tra coloro che compongono anche per caso una società, alla lingua, che invece è il tesoro della razza.
D’Annunzio è stato il nuovo Dante – nell’arte piena del bluff, per cui non si faranno mai i conti con d’Annunzio se non si faranno i conti con Dante. Rapagnetta è solo un nome che nulla annunzia, perché alcune persone sono sempre tagliate per restare fari d’ignoranza.
Due cose sarebbero da considerare alla pari: la letteratura, che il meticcio italiano non ha; la terra, che il meticcio italiano non ha. Due cose riassunte nel poeta e nel paroliere, la terra e la razza, e il luogo dove infine nascondersi.
Ma due cose che il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio ha sospeso in entrambi i casi, tramite arte sua, come sintesi che investe soltanto parole, terreno e poi nient’altro. Per qualunque meticcio avere dove andare è disporre di avere terreno sotto i piedi dove espletare i propri bisogni fisiologici di volta in volta più urgenti: in certi casi scrivere, in altri casi costruire.
Il Vittoriale ha funzione di mezzo teatro beffardo di Bayreuth; il teatro è ciò che viene da lontano e che meno che mai appartiene agli incubi della razza bianca; il Vittoriale è ciò che è fatto per funzionare come meta beffarda e poi lazzo turistico. Per il meticcio italiano il Vittoriale è solo la brutta copia beffarda del teatro di Bayreuth – sbeffeggiato più volte da Nietzsche.
Ma… Se d’Annunzio, nella sua posizione di rapagnetta, avesse immaginato qualcosa? Intendiamoci, d’Annunzio era un genio che ha piegato la propria genialità, la questione è verso che cosa s’è inclinata la sua piegatura. Se avesse pensato di giocare un brutto tiro – alla fine di una carriera che egli poteva avere avuto il tempo di comprendere, nonostante tutto, come fallimentare (perché fondata, derisoriamente, sul niente, quando egli non voleva che così fosse), perché nascere poeta richiede una nascita di razza (che comporta una terra, che si deve prendere, e una lingua, che si deve ottenere come allontanamento dalle parole, e non la nascita da una rapagnetta qualunque in un terreno di misere rapagnette piantato a suon di piatte parole e terriciattole)?
Abbiamo l’opera di d’Annunzio e abbiamo il Vittoriale degli italiani voluto da Gabriele d’Annunzio. Nella costruzione della sua casa-mondo, d’Annunzio ha rinunziato una volta per tutte alla catapecchia carducciana di vecchie parole in disfacimento della maledetta Italia. Così il Vittoriale potrebbe funzionare come L’Esegesi di Philip K. Dick – ma ancora più spropositato a livello di chiusura, perché non circoscritto alla sola arte di scrivere, ma aperto all’arte di segnare il terreno capitato per caso di segnalare sotto i piedi.
Scrittore è colui che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualunque è stato lasciato per caso lì in mezzo – però nel momento in cui lo scrittore è giusto colui che può passare dalle parole alla lingua della razza, quindi nel momento in cui è possibile cominciare a pensare per razze. Così scrittore è lo strappo che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato solo tra le cose del mondo nel momento in cui le cose del mondo non sono diventate altro che parole; per cui abbiamo la serie: le parole e le cose, la lingua e la Cosa, la Cosa e il þing, che è la riunione di cose.
Questo comporta porre su di uno stesso piano di interrogazione le parole e le cose, la Cosa e la lingua.
Comprendere l’arte di un meticcio è sputare in faccia al meticciato ciò che, al caso limite, costituisce l’indiscutibile genialità di quel meticcio, che comunque deve essere soppresso in quanto cosa che occupa la terra.
Divertente! Allora d’Annunzio sarebbe il vero poeta della razza bianca, che il meticciato può avere in quanto tale, perché lo spirito va dove vuole (come notava Dumézil a proposito dell’ambiguo personaggio di Loki), anche attraverso il meticcio italiano d’Annunzio, magari per andare oltre lo stesso meticcio italiano d’Annunzio (nome di razza: “rapagnetta”). Se d’Annunzio avesse capito che gli italiani sono solo meticciato e avesse, allora, veramente, per la prima volta, pensato Nietzsche, autore che, nella sua opera multiforme, per quanto più volte trattato, platealmente ha sempre dimostrato di non avere mai capito, a partire da un’arte che non era fatta per pensare, e avesse invece atteso il progetto del Vittoriale per dimostrare di avere quello che aveva donato, cioè buttato via, vale a dire il pensiero, cioè di avere afferrato il nocciolo, in un singol sito, della sua arte, picciola arte, arte-bluff?
Così le sale di un museo possono funzionare solo come autentiche sale di museo in quanto esibizione di ciò che è stato l’essere stato nel mondo di un dato essere sulla terra, dopo che quella presenza è stata annullata, e quel dato modo di essere è stato gioiosamente spazzato via. Non prima. Solo in rapporto alla presa della terra, che è il riferimento alla parola dell’antico nordico landnáma, si può comprendere l’ossimoro che è alla base del riferimento scelto da Gabriele d’Annunzio. Che cosa significa il motto “Io ho quel che ho donato”?
Dobbiamo ricordare che in ballo c’è solo una rapagnetta. Solo arrivando al bluff il meticciato italiano può arrivare al confine ben protetto con la terra de la poesia – alla quale il meticciato meno che mai ha accesso, né come meticcio italiano Dante, né come meticcio italiano Gabriele d’Annunzio. Il motto beffardo di d’Annunzio spiega che d’Annunzio ha quello di cui non ha mai goduto, cioè l’arte delle parole in quanto arte della lingua; così come il “popolo” che egli si arroga, ma che meno che mai è un popolo, perché non ha mai preso la terra che occupa e che egli stesso occupa, grazie a un nome, in quanto rapagnetta promossa ad altisonante annunzio di ciò che non ci sarà mai.
Per comprendere veramente d’Annunzio, così come per comprendere Dante, bisogna non apprezzare, ma disprezzare: DISPREZZARE IL METICCIATO. Questo perché non esiste né poesia né terra quando si ha a che fare con ciò che è l’andare e il venire del meticciato. Bisogna quindi fare in modo di vedere il meticciato come il niente sospeso sul niente che, a un certo punto, nella veste di una rapagnetta qualunque, ha vittoriosamente basato la propria causa sul niente – al fine di fare piazza pulita del meticciato.
Se la letteratura è ciò che è possibile solo in quanto arte della menzogna, allora creare letteratura è possibile solo se si sa di mentire, cioè di praticare l’arte che ha nella menzogna la propria paradossale unica e propria forma di verità in quanto conformità.
La rapagnetta d’Annunzio era ciò che non poteva avere accesso al tesoro della razza, poiché non esiste razza italiana, mentre noi sappiamo che esiste il meticciato italiano, cioè l’ANTIRAZZA. La perfida rapagnetta d’Annunzio ha avuto qui la funzione del furto di ciò che ha permesso la circolazione dell’arte, in questo caso, della finta poesia, che suona entro il canto del furto della bevanda di immortalità.
Ma d’Annunzio è stato un signore dell’arte di combinare parole; quello che lì, cioè in lui, mancava era l’arte della lingua, che sola avrebbe potuto chiamare la razza, che sola poteva portare alla lingua in quanto tesoro della razza. D’Annunzio ha donato la parola, di cui ha potuto fare rocambolesco uso in tutta la sua carriera di ladro e paroliere del meticcio italiano, ottenendo nient’altro che ciò che non ha mai avuto che nella forma finale del Vittoriale, cioè di terreno da riempire con un ammasso di tanta piccola chincaglieria e paccottiglia di salsicce kitsch, futili massicce deiezioni dello scorrere la terra, così come tutta la sua arte letteraria non è stato che un allineamento di piccole parole-forme kitsch. Ma questa doppia prospettiva, il nulla dell’arte dannunziana della letteratura, il nulla dell’assemblaggio kitsch del Vittoriale, non è altro che il modo migliore per sputare in faccia al meticcio italiano il nulla in cui insiste il terreno parallelo a dove consiste il nulla della terra occupata dal disgustoso meticcio italiano. Si dona quello che non si è mai posseduto, cioè l’arte di scrivere, prendendo in cambio la finzione del prendere terra, che è l’arte di descrivere, il tutto nel bluff del progetto del “Vittoriale degli Italiani”. Perché tanto la letteratura italiana, quanto l’Italia, sono soltanto disgustoso bluff ai danni della razza bianca.
Se d’Annunzio avesse voluto veramente colpire la letteratura italiana, dopo avere compreso che si trattava solo di “parole per il meticciato”? Vale a dire: se il progetto del Vittoriale fosse servito a fermare il progetto che si era manifestato, in tutta la sua genialità, verso l’indirizzo di una nuova letteratura, con La Leda senza cigno?
A quel punto il Vate del meticciato si era reso conto di non avere più terra dove andare, perché oltre c’era veramente la letteratura – ma un vero meticcio non vuole rinunciare al meticciato, che è il marchio di razza che costituisce l’antirazza, che è il motivo della sua esistenza, che permette il cambio di nome, ma non il salto di razza – e se comprende che basta un passo per entrare nel regno della letteratura, quel passo, allora, il vero meticcio si guarda bene dal compierlo – costi quel che costi.
Un legame perfetto lega l’opera di d’Annunzio al progetto del Vittoriale in base a ciò che lega parole e lingua in uno scrittore – legame che in d’Annunzio non può che essere assente – a ciò che lega letteratura e presa di una terra, che nel progetto del Vittoriale si presenta come bluff, motto beffardo inciso in pietra all’entrata: “Io ho quel che ho donato”. Ma che, in un meticcio, comporta il momento della scelta. Gabriele d’Annunzio, in quanto paroliere massimo del meticciato italiano tra Ottocento e Novecento, riconosce di non avere preso mai terra, ma proprio per questo, può riconoscere di avere proprio quello che non ha mai preso, perché solo in quel modo (facendo riferimento alla sua arte di parole che mai ha potuto rimandare ad una lingua) può incidersi come parola che non rimanda a una lingua nella cartapecora della sua razza, come terra che non è mai stata presa, nel terreno che fa da supporto alla sua antirazza (perché di questo si tratta) – così come le parole che aveva sempre usato prima lungo la sua carriera di Vate, erano parole che non rimandavano a una lingua, bensì parole destinate a rimanere sospese in ciò che non è letteratura e meno che mai poesia.
Se poesia è ciò che rivela alla razza il destino della razza attraverso la lingua cui la razza non ha immediato accesso, ma alla quale solo la poesia può giungere attraverso la parola, allora d’Annunzio è il paroliere che rivela al meticciato la caduta in un destino fatto di parole, in un tempo, fatto di soprammobili, in un altro, che inevitabilmente lo attende in quanto nient’altro che paroliere del meticciato, anziché di poeta della razza, che comporta invece l’incontro con la lingua e la Cosa.
Scrittore è colui che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato a vedersela da solo col mondo – però nel momento in cui scrittore è ciò che è in grado di passare dalle parole alla lingua che è il tesoro della razza, che solo il poeta porta con sé senza sapere, quindi nel momento in cui è possibile cominciare a pensare per razze: così scrittore è strappo che ha a che fare con le parole quando le parole sono solo ciò con cui uno qualsiasi è stato lasciato solo tra le cose tante del mondo. Per cui abbiamo la serie che comprende le parole e le cose, la lingua e la Cosa, la Cosa e il þing (che è la riunione delle cose del mondo).
La fabbrica di mostri viene interrotta, nel romanzo di Mary Shelley, quando il protagonista rifiuta di creare il mostro che potrebbe mettere in pericolo il genere umano.
L’arte di Gabriele d’Annunzio ha una forte, costante, beffarda, valenza funebre (pensate alla potenza del romanzo Trionfo della morte), così come beffardo è il motto finale, che suona “Io ho quel che ho donato” – che si vorrebbe salutarmente rivolta contro l’ANTIRAZZA alla quale il Vate maledetto pure apparteneva per la sola forma delle parole, ma questo non è stato, perché l’arte di d’Annunzio è arte tutta quanta sospesa. Destinata a rimanere arte sospesa, perché giustamente arte senza terra e arte senza lingua – vale a dire arte d’accatto.
Come persona, Gabriele d’Annunzio aveva qualcosa di viscido – ma questo vale per tutti gli italiani: gli italiani sono viscidi perché il loro modo di parlare è un modo di parlare viscido, che fa forza su zampette e antenne (fateci caso! per trovare, in Europa, simile viscido modo di parlare, bisogna farsi vicino vicino al modo di parlare degli slavi, ma questo, direbbe Lukács, “è un’altra storia”) –, che i filmati restituiscono appieno, qualcosa dell’iguana cortese che ha imparato a stare ritta su due gracili zampette, per quanto storte siano, zampette che sorreggono assai modesta statura, e nella mimica facciale – molto di funebre che era lezzo foriero di sora nostra comune putredine. Non è il caso di dire che Gabriele d’Annunzio possedeva, coerentemente in tutto ciò che lo connotava, la sgradevolezza del meticcio? D’Annunzio è l’artefice e l’amministratore di una parola viscida: lo si nota soprattutto nella sua poesia; la parola di d’Annunzio non è una parola che colpisce, è una parola sinuosa che avvolge, distrae, svicola e stordisce, che non si fa cogliere con facilità, che costringe a una rilettura, è insomma una parola viscida a tutti gli effetti; questo lo deve in parte alla lingua (la lingua italiana è una lingua viscida), in parte al suo modo di comporre, perché d’Annunzio stava soprattutto attento a non rivelare, a nascondere sempre qualcosa ai suoi lettori più che a incamminarli verso un tragitto, che invece è quello che il vero scrittore deve fare – ma succede con lo scrittore quello che succede per chiunque stia su una terra che non ha scelto il proprio abitante; era un falso Vate, un cattivo poeta, perché era un vero bugiardo, su questo non c’è dubbio – e questo è il punto più alto che possa raggiungere uno scrittore italiano.
Dopo d’Annunzio, mediocre meticcio italiano, nonostante tutto, nella media, spunta in istesso campo Pasolini, mediocre finocchietto italiano, allora del tutto fuori dalla media – e si è finiti tutti quanti giù per “terra” in un mare mondo di tanto petrolio sversato, come skáldfífl, che è la quota che spetta al meticcio italiano in quanto “poetastro”: niente di più. Fine. Punto.

Buzzati, “Il panettone non bastò”

Miguel Serrano vedeva nei monumenti megalitici la prova dell’esistenza di un qualcosa paragonabile ad una forma di agopuntura della terra, coerentemente applicata in quanto tale, volta a convogliare l’energia presente nelle profondità della terra in punti sensibili sulla sua superficie, che poteva essere recepito da ciò che si trovava sulla superficie: allora in grado di agire benevolmente sui popoli che hanno il diritto di abitare la terra, perché scelti dalla terra; ma di agire in modo tutt’altro che benevolo sui gruppi di cose e genti che non hanno il diritto di stare in quel punto della terra, perché quelle cose scorrono oppure occupano la terra – e allora non c’è altro da aspettare che vengano rimossi da lì.
Dino Buzzati: lo scrittore inutile.
Che è il caso di fare in modo che venga rimosso da lì.
È difficile definire l’utilità di uno scrittore in una formula sintetica, ma, di sicuro, la definizione di “scrittore inutile”, come formula descrittiva per uno scrittore, si addice perfettamente allo scrittore italiano Dino Buzzati, riflettendo, tale definizione, l’inutilità della letteratura italiana – considerato che, per quanto possa essere difficile stabilire l’utilità di una letteratura nell’insieme della Weltliteratur, la letteratura italiana si può definire solo grazie alla perfetta sua rumorosa et assoluta et spettrale singolarmente piena sua INUTILITÀ. (Che cosa vuole, c’è da chiedersi, questo meticcio di italiano, con la sua letteratura d’accatto?)
Fare lo scrittore come mestiere è la tentazione che riguarda colui che si trova ad avere il giusto gusto per le parole, quando il senso della lingua è andato perduto e scrittore è colui che si ritrova, ormai, sperduto ad avere senso per il gioco della lingua, tra le macerie delle parole – non avendo più senso alcuno il fatto di essere scrittore.
Lovecraft è stato lo scrittore che nelle sue opere ha rappresentato l’effetto delle vibrazioni della terra su coloro che, in dati tempi si trovavano ad abitare, oppure ad occupare, porzioni diverse della terra. Una cosa, oppure il suo opposto, vuole dire stare sovra una terra che ha comportato la presenza, in superficie, di tipi diversi di forme. La terra che è stata occupata dai nativi d’America trasmette vibrazioni sempre negative, che hanno effetti “positivi” sui degenerati, cioè sui meticci, perché ne sviluppa la potenza e porta quei meticci a completare, almeno in parte, i loro piani criminosi; mentre le stesse vibrazioni risultano disastrose per i sempre più dispersi individui di razza bianca – questo perché un meticcio non abita mai la terra, ma ha con essa soltanto un rapporto che non implica mai il fatto di “abitare la terra”, essendo il rapporto che un meticcio ha con la terra conseguente ad una occupazione. È il toponimo di origine indiana a rivelare la prima occupazione della terra, vale a dire ciò che costituisce la vibrazione originaria, sempre appena nascosta nel nome, a infondere forza al meticcio, ad attrarlo come calamita verso riti la cui finalità è nascosta all’individuo ma chiaro alla razza in quanto antirazza; ma a portare l’uomo che può scegliere a scegliere la parte sbagliata (è la sorte che spetta a Charles Dexter Ward tra le figure che gli fanno triste corona). Solo la razza bianca abita la terra, perché solo la razza bianca può arrivare a pensare, in termini di filosofia, ciò che significa abitare la terra. Un meticcio non abita mai la terra; un meticcio occupa la terra, come la occupa una pietra che si trova a stare in un punto preciso della terra, che occupa col suo peso quella parte di terra, se è difficile da spostare; oppure che scorre la terra, se basta un calcio soltanto per farla rotolare lontana da dove si trovava. La stessa Miskatonic Valley, al centro di tanti attacchi da parte del sovrannaturale, deve la sua vulnerabilità a causa del primo insediamento di nativi, che ne ha contaminato per sempre la geografia.
La domanda che dobbiamo porci davanti a un pezzo scritto da uno scrittore italiano, è una domanda da porci, che suona come domanda fantozziana posta nel tipo di una domanda che suona: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano?”. Domanda indispensabile per deterritorializzare il punto dal quale il pezzo è stato puntualmente – lì, in quel punto della terra – posto insieme, fantozzianamente. Questo perché, in Italia, solo un clown può giungere a interpretare come gag ciò che invece è seriamente da pensare: vale a dire il collegamento tra opera d’arte e “cagata pazzesca”, che ha la sua spiegazione nella razza, solo se si accetta la possibilità della ANTIRAZZA, che è appunto ciò che non deve essere pensato.
Dino Buzzati rappresenta la possibilità di una antiterra di cui scrivere, nel momento in cui, in quanto “scrittore”, con estremo candore ti scodella la possibilità di costruzione di case senza Natale, messe a punto da parte di un gruppo di architetti, che, per quanto decisi a mantenere il segreto di corporazione, relativo a non rivelare mai come costruire case senza Natale, comporta la realizzazione di case dove non arriva in nessun modo più lo spirito del Natale dalla terra – con il vantaggio di un prezzo di mercato irrisorio, indipendentemente dal punto dove costruire (La casa senza).
Sancire l’assenza di una festa come Natale in un paese cattolico come l’Italia comporta comprendere il Natale come assoluta e fastidiosa destrezza di gesti quanto esperienza di Vuoto assoluto. Che sono le due balle tra le quali l’Italia, con i suoi miti che non ha, si trova sballottata.
Il secondo caso è quanto capita a Nora, la protagonista del racconto Il cane vuoto, che di colpo, una vigilia di Natale, ha l’epifania del vuoto in cui consiste da anni la sua vita trascinata all’interno della sua casa di bambola quando deve portare d’urgenza il suo cane da un medico per una visita. Il cane le era stato donato dall’uomo che poi l’ha lasciata ed ella si era abituata a vedere in quel cane l’ultimo legame con l’uomo per mantenere il legame che ormai non c’era più, ma che doveva essere portato avanti all’interno della sua casa di bambola, che pure doveva essere portata avanti, per dare senso alle cose del mondo. La diagnosi è favorevole, poiché il disturbo è passeggero e non implica danni irreversibili nell’animale, ma quando cane e padrona raggiungono un parcheggio di taxi, e il parcheggio si rivela vuoto, la signora, di colpo, ha il senso del vuoto, che, dal cane, finora docilmente portato da una parte all’altra, fisso ora in quel punto, si propaga a tutto il resto del mondo e la signora capisce che quella fonte, che in lei le permetteva di riempire le cose del mondo di un senso, ormai si è esaurita, per cui quel cane è soltanto il ricettacolo del vuoto assoluto, che tutto il resto dell’ambiente manifesta.
Questa raccolta di trentatré pezzi (tra articoli, racconti, poesie) qui riuniti con il titolo Il panettone non bastò, mostra come Dino Buzzati abbia sempre pensato il tema del Natale con una perfetta, propria interna coerenza che convoglia un perfetto gioco di interno/esterno in quanto decoerenza.
Un racconto di Natale è possibile soltanto nella forma del confronto col mito – visto come ciò che non c’è, ma che c’è in quanto esperienza di ciò che ama nascondersi. Un racconto di Natale non può stabilirsi nel rincorrere una festa come insieme di consuetudini vuote (per un popolo che non c’è, raccontato da uno scrittore bluff, come appunto è lo “scrittore” Buzzati del meticciato italiano), ma come domanda da porre riguardante il mito – che c’è. Così un racconto di Natale, indipendentemente da quello che sono stati i racconti di Natale a partire da quelli proposti dallo scrittore Charles Dickens, deve porsi la domanda relativa a che cosa è il mito indipendentemente dal Natale – per cui un racconto di Natale molto riuscito è senz’altro il brevissimo racconto dal titolo freddo di Natale, composto dallo scrittore Friedrich Dürrenmatt. Si cerca solo quello che, nella sua completa assenza, mostra da sempre di esserci stato, ma che in un punto, per caso, a un certo punto, è venuto a mancare, e che coinvolge il popolo che, pur abitando la terra, si trova a porre adesso la domanda relativa a ciò che è il mito, a proposito del Natale, perché la festa di Natale – festa cristiana che rimanda ad una festa precristiana preesistente – è ciò che contiene adesso il mito. Ma meno che mai tutto questo è ciò che ha a che fare con il meticcio italiano. Così il punto, da punto che era in uno spazio, acquisendo consapevolezza del proprio stare come punto in una serie continua di punti, diventa un punto nel tempo in cui fare i conti con il mito che è fare i conti con il meticciato italiano: infatti si trova solo nel presente – ciò che il futuro darà occasione di perdere.
La festa del Natale cristiano rimanda alla festa precristiana che aveva luogo più o meno nello stesso periodo di tempo; prima della cristianizzazione dell’attuale Europa. Tolkien usa la parola inglese Yuletide per indicare le feste del calendario hobbit che riguardavano il periodo in oggetto. La parola inglese “yuletide” definisce il Natale cristiano, ma la parola “yule” è collegata all’antico nordico “Jól”, parola che indicava il periodo di tempo festivo intorno al solstizio d’inverno prima della cristianizzazione. Pensare allora Natale attraverso la parola Jól significa pensare, nel periodo cristiano, il mito precristiano. Quindi pensare il mito consapevolmente all’interno del tempo in cui il mito è assente perché ciò che è stato spazzato via. Dino Buzzati situa invece la propria riflessione all’esterno del tempo cristiano, senza possibilità di raggiungere la sfera del mito autentico, situandosi così come punto, ma punto irrazionale, immaginario perché inconsistente punto di separazione tra due serie.
Questo bolla la letteratura italiana come “letteratura” di un “popolo” che non ha mai preso una terra, che non ha una storia, non ha un popolo, non ha una lingua, ma ha tutto ciò per cui questo popolo deve essere scacciato dalla terra a seguito di una pulizia etnica – il meticciato invadente aggressivo.
Un meticcio è ciò che non abita la terra, ciò a cui mai è giunto il Dono della (possibilità di abitare la) terra, perché un meticcio è colui che occupa la terra oppure scorre la terra; questo perché un meticcio è ciò che spoglia la terra, riducendola a terreno dove soddisfare i suoi bisogni naturali più urgenti, durante il suo occupare o scorrere la terra. È quello che mostra Dino Buzzati in questi scritti dedicati al Natale, quasi regolarmente tenuti, anno per anno, dal 1934 al 1971, con il suo “popolo” di mogli e donne isteriche, uomini in carriera che devono districarsi con impegni delle feste di Natale e di doppi provvidenziali stipendi – e redazioni di giornali come terreno (ma non terra), che danno così vita a un Natale piccolo piccolo, a un Natale che non pensa il mito, a un Natale del Dovere, sulla nave da guerra nel tempo di guerra, a un Natale qualunquista dopo la fine della guerra, a un Natale dell’alchimia fra trovata pubblicitaria e favola vera da consegnare a un bambino, a un Natale qualunque come tutti gli altri, a un Natale dei tempi moderni della ideologia progressista, a un Natale dell’ultimo vecchio rimasto al mondo, a un Natale anti-mito, a un Natale come difesa della piccola favola ancora rimasta – per quanto Natale non significhi nulla, a un Natale piccolo piccolo che va bene così, a un Natale da romanzo storico con l’evocazione di quando il panettone non bastò, a un Natale buonista, a un Natale come rimbrotto, a un Natale fatale, a un Natale da Commedia all’italiana, a un Natale straniato, a un Natale immaginato una volta tanto volutamente senza regali, a un Natale di rabbia, a un Natale come epifania joyciana, a un Natale come ricerca del vero Natale, a un Natale in cui un Gesù Bambino cresciuto gioca a fare il trickster dove il mito bambino non c’è, a un Natale che rifà il verso alla storia di Mr Scrooge, a un Natale pasoliniano basato sull’importanza dei mezzi di comunicazione.
Quello che rivela l’inutilità dello scrittore italiano Dino Buzzati, nella sua piena qualifica di inutilità dello scrittore italiano, è l’abbraccio con lo stereotipo, che è quanto solo un inutile scrittore italiano poteva rappresentare: la decameronizzazione. Non ripeterò mai abbastanza quanto il Decameron di Giovanni Boccaccio, mediocre meticcio italiano, scrittore, sia l’archetipo dei cinepanettoni delle feste di Natale, con i quali noi adesso abbiamo sempre a che fare nel periodo di Natale, tra un acquisto e l’altro. Quello che un meticcio della “letteratura” italiana può scrivere saranno sempre “pezzi” al limite fra giornalismo, pezzi di costume e fiction, ma cose che non costituiranno mai la storia, cioè la saga, che costituisce invece l’insieme della storia del popolo che ha preso la terra legandola alla continuità del suo dire, che è il dire della razza, cioè la saga, che è il dire del mito come ciò che deve essere sempre cercato da parte dello scrittore di razza bianca.
Questo per dire che, in questo caso, cioè ciò che comporta gli scritti di Dino Buzzati, è che non c’è mai stata terra, tantomeno popolo, meno che mai razza, essendo stato Dino Buzzati, se non sbaglio, niente altro che un inutile quanto disgustoso meticcio italiano, che, nell’insieme di quel disgustoso impiastro che è il meticciato italiano, ha scelto di fare lo scrittore, avendo scoperto di avere quella comoda dimestichezza con le parole che poteva tornargli utile per sbarcare il lunario vita natural durante; e così è stato, per lui – no?
E questo basta.
Questo perché quando ci troviamo ad avere a che fare con il meticcio italiano, dobbiamo chiederci “Che cosa vuole, il meticciato, in Europa?”, perché questa è la domanda che deve essere posta in presenza della ANTIRAZZA cui non si deve dare possibilità di essere – mai, in nessun modo. Le parole sono scale che devono portare alla eliminazione del meticciato nella terra della razza bianca.

Raskol’nikov riconsiderato (Divagazioni)

Così come riportato in Delitto e castigo, l’ultimo sogno di Raskol’nikov precisa che: «Quando [Raskol’nikov] era malato aveva sognato che tutta la terra cadeva preda d’una tremenda pestilenza, inaudita e incredibile, che proveniva dal profondo dell’Asia e avanzava verso l’Europa.» (Fëdor M. Dostoevskij, Delitto e castigo, Feltrinelli, Milano 2013, traduzione di Damiano Rebecchini, Epilogo, 2, p. 510).
Il profondo dell’Asia è la fonte del meticciato slavo; così come l’Africa è la fonte del meticciato latino. Ciò che minaccia l’Europa è il Meticciato che soffia alle frontiere nella sua doppia fonte: meticciato slavo, meticciato latino.
Cencioso e parassitario, arrogante e ben piantato alle frontiere d’Europa, questo meticciato ha la stessa funzione della vecchia usuraia Alena Ivanovna, cenciosa e parassitaria, pericolosa e autoritaria in Delitto e castigo, per quanto non lo si comprenda. Ma è come se Dostoevskij, con il particolare dell’ultimo sogno riportato di Raskol’nikov, avesse voluto lasciare un messaggio.
Raskol’nikov ha ucciso, rubato e posto in salvo la ricchezza procuratasi in quel modo nascondendola sotto una pietra. Togliere la vita a un meticcio è come togliere a un ladro la ricchezza che quel ladro ha messo insieme attraverso i vari furti commessi. Ogni meticcio ruba; ogni meticcio ruba sempre, anche quando non ruba. Il meticcio è quell’essere la cui pericolosità consiste nell’essere al mondo, indipendentemente da quello che fa. Comprendere questo è anche giungere a ciò che permette il riconoscimento del meccanismo dell’arte degenerata. Si giunge all’arte degenerata solo quando l’arte permette al meticcio di manifestare la propria condizione, unendola in modo inscindibile alla perfezione dell’oggetto d’arte, ma permettendo di trarre la relativa soluzione finale.
Non si può considerare il delitto “individuale” di Raskol’nikov, riportato in Delitto e castigo, senza pensare al delitto non individuale, perché delitto di razza, che richiede una nuova forma di romanzo per essere considerato. Sempre parlando a livello di romanzo – naturalmente.
Delitto e castigo è un romanzo che non parla della eliminazione di una o più razze, ma considera, come tema di discussione, l’eliminazione di una vecchia usuraia, un “pidocchio”, e che su questa possibile eliminazione innalza la sua costruzione romanzesca. Raskol’nikov è colui che passa subito alla eliminazione del pidocchio – e subito dopo alla eliminazione della innocente Lizaveta, sorella dell’usuraia (del pidocchio) e testimone indiretta del delitto appena avvenuto.
Nella logica del romanzo, l’innocente sorella è destinata a cadere, perché individuo trovatosi, per caso, nel posto sbagliato nel momento sbagliato (infatti, al di fuori, di quel particolare, ella avrebbe avuto pieno diritto a vivere; nella logica della nuova epica, sarebbe invece destinata comunque alla soppressione in quanto appartenente alla stessa razza della vecchia usuraia, per quanto di carattere completamente diverso, particolare inconsistente. È chiara la differenza? Infatti proprio questa differenza ne autorizza la soppressione (mentre invece nel romanzo nichilista Delitto e castigo, nichilista perché scritto dal punto di vista dell’individuo, l’uccisione della sorella dell’usuraia appare come la cosa più ingiusta). L’individuo e la razza devono sempre funzionare in due modi assolutamente opposti.
Ma la degenerazione è qualcosa che riguarda l’individuo solo in quanto l’individuo è il risultato di una degenerazione. Solo così la degenerazione può essere determinata. Ciò che supera l’individuo è la mancanza di degenerazione, che è qualcosa che noi non possiamo ancora vedere, così come non possiamo vedere la nuova forma di epica.
Il romanzo slavo, secondo l’azzeccata formula di d’Annunzio, ha qui il suo inciampo: non pensa per razze, perché è una forma che pensa l’individuo per l’individuo – cioè l’individuo che ha a che fare con l’individuo attraverso la polifonia indicata da Bachtin. Polifonia tutt’altro che intricata.
L’inciampo è ciò che non si scorge essere nelle vicinanze che accade di percorrere, ma che nemmeno si può allontanare di colpo. Così Nietzsche esprimeva dubbi sulla possibilità di creare colonie tedesche o svizzere in Paraguay mescolando l’elemento tedesco con quello latino (cioè con il meticciato): «Da parte svizzera sono stato indotto a pensare che i numerosi, quasi sistematici fallimenti delle colonie tedesche o svizzere negli stati attorno a La Plata abbiano origine nel mescolamento delle nazionalità, vale a dire nella vita promiscua di elementi tedeschi e latini. Non si riesce ad avere un sentimento patrio, la sensazione di una casa, se si ha nelle immediate vicinanze la sporcizia italiana ecc.» (F. Nietzsche, Epistolario. Volume V. 1885-1889, Adelphi, Milano 2011, versione di Vivetta Vivarelli. A Bernhard Förster ed Elisabeth Förster-Nietzsche. Nizza, 2 gennaio 1886, p. 136). Il problema di fondo è sempre lo stesso: alleviare la terra dalla sporcizia che più da vicino la minaccia – cioè dal meticciato.
Delitto e castigo è il romanzo che si costruisce attorno a nozioni di vicinanza e distanza abilmente modificati in rapporto a ciò che scaturisce dall’uccisione del pidocchio. Ma la rinascita di Raskol’nikov avviene sotto il segno della Resurrezione di Pasqua, che è ciò che fa risorgere il concetto di individuo, che comporta il fatto di buttare via il pidocchio con le pulizie di primavera – e che è l’opposto dell’uccidere il pidocchio. Raskol’nikov sconta l’uccisione del pidocchio rendendosi conto che ogni pidocchio è un essere umano, quindi aderendo all’ideologia del meticciato.
Se infine un romanzo è vittoriosamente giunto alla possibilità di considerare l’uccisione di un individuo – quando un individuo non è altro che un pidocchio – una nuova forma epica deve pensare la possibilità di uccidere una razza quando questa non è altro che un pericolo per le forme sane. E allora di passarla liscia, senza castigo né resurrezione.
Si ribadisce che togliere la vita a un meticcio è come togliere a un ladro quella ricchezza che il ladro ha messo insieme attraverso i diversi furti commessi.
La nuova forma epica deve iniziare là dove la vecchia forma si è fermata. Se Delitto e castigo si costruisce attraverso la vicinanza di personaggi intorno al protagonista (Raskol’nikov che deve proteggere la sorella Avdot’ja Romanova insidiata, in forme diverse, da Svidrigajlov e da Lužin, l’amico Razumichin che è parente dell’inquirente Porfirij Petrovič, Sonja, con la quale Raskol’nikov entra in contatto dopo avere incontrato il padre in una bettola ed essere stato testimone, pochi giorni dopo, della sua morte a causa di un incidente stradale, lo stesso metodo di Porfirij Petrovič che ha lo stesso fine: concedere la libertà al colpevole in modo da mantenere la massima vicinanza con lui, vicinanza che permette di stringere la rete addosso a Raskol’nikov, così la nuova forma epica deve stabilirsi come epica della distanza. Ma distanza che farà sì che un pidocchio non potrà mai essere scambiato per un essere umano, tanto meno per il nuovo essere umano, che deve invece essere il risultato di uno sforzo collettivo, vale a dire di un allevamento in base ad un progetto particolare. Né progetto né collettività sono considerati in Delitto e castigo.
Prima di tutto è il concetto di essere umano che deve cambiare. Delitto e castigo recupera il vecchio concetto di essere umano andandolo a ripescare nel sottosuolo fognario di San Pietroburgo: è il profondo dell’Asia, attraverso la Siberia, dal quale la nuova pestilenza avanza verso l’Europa.
Questo equivale a rileggere Delitto e Castigo impostando le giuste domande. Raskol’nikov è il meticcio (perché non è l’individuo, bensì è la razza meticcia, che, nella riconsiderazione della domanda di Raskol’nikov, deve giungere alla domanda circa la legittimità della soppressione dell’altro: è solo il meticciato che può eliminare il meticciato). Alena Ivanovna è il meticciato proiettato, vale a dire il meticciato visto da colui che non ha paura della propria azione, come invece ha dimostrato di avere Raskol’nikov. Raskol’nikov è colui che non ha proiettato il proprio meticciato di razza degenerata come razza che deve essere eliminata, insieme al pidocchio da sopprimere, giustamente individuato nella vecchia usuraia ma come massa alla quale deve essere concessa una resurrezione, poiché, secondo l’istanza avanzata da Sonja, anche il pidocchio Alena Ivanovna sarebbe un essere umano.
In Delitto e castigo c’è la presenza del coro alle prese con la monodia, più che la polifonia. Il coro polifonico in Dostoevskij va bene per far felice il vecchio Lukács – e ingannare Bachtin. Per cui ci si può chiedere: come funziona, questo meccanismo, a livello di romanzo?
La città con i suoi abitanti si stringe in una soffocante vicinanza intorno a Raskol’nikov, mentre le strade della città diventano strade che portano, cioè che lo portano alla sua destinazione finale, come accade appunto nell’episodio narrato in VI/3, quando Raskol’nikov, diretto in casa di Svidrigajlov, dopo aver camminato assorto nei propri pensieri, si accorge di essere giunto fuori strada, e fa per tornare indietro, ma proprio allora vede Svidrigajlov là dove non si sarebbe mai aspettato di trovarlo, e si accorge di essere sulla strada giusta, poiché mai lo avrebbe trovato se avesse preso la strada giusta per trovarlo – indicando come punto giusto dove trovarlo il punto là dove egli avrebbe dovuto essere.
Siamo quindi in una terra che circonda con le proprie attenzioni coloro che la occupano, senza abitarla, non arrivando a drastici interventi come nel racconto La strada di Lovecraft, ma arrivando a “spostare” da una parte all’altra i suoi occupanti, in modo da farli giungere alla decisione definitiva, distruttiva per loro: è una terra degenerata che risponde con vibrazioni ai movimenti dei suoi occupanti più che mai degenerati.
Riconoscendo Raskol’nikov, grazie a Sof’ja Semenovna, la sacralità del pidocchio Alena Ivanovna, Delitto e Castigo riconosce la sacralità del meticciato e la necessità di colpa e redenzione da parte di Raskol’nikov, consistente nell’avere eliminato un singolo pidocchio, il tutto implicitamente compreso nell’atto di difesa del meticciato. Qual è la forma che Raskol’nikov riserva alla propria collocazione nel rapporto con l’Altro?
Un tratto avvicina Delitto e Castigo (1866) a Boris Godunov (1831) di Puškin: la domanda del tipo “perché non io?”, che si pongono i rispettivi protagonisti, il giovane studente Raskol’nikov e il giovane monaco Grigorij, più o meno coetanei. Questa domanda nasce dal nichilismo, che attanaglia l’individuo. L’individuo qualunque può adesso porsi questa domanda perché non riconosce più la distanza fra le cose, le cose e la Cosa. Ma meno che mai riconosce se stesso come forma del meticciato. Questo è ciò che invece dovrebbe fare se rispondesse alla domanda che, implicitamente, egli ha posto guardando l’Altro che aveva di fronte a sé e riconoscendolo come manifestazione del meticciato. Se uno equivale a uno, allora uno qualsiasi può fare quello che prima aspettava a colui che era stato ufficialmente investito di una missione particolare (consistesse questa missione nell’essere Napoleone o nell’essere il figlio vivente dello zar ucciso da bambino).
È sufficiente, questo particolare, a determinare la degenerazione? La degenerazione dell’individuo nobile è qualcosa che riguarda anche la degenerazione dell’individuo non nobile. È qualcosa che riguarda l’individuo solo in quanto l’individuo è il risultato di una degenerazione di per sé. Ciò che infatti supera l’individuo è la mancanza di degenerazione, che è qualcosa che noi non possiamo ancora vedere – e di cui Delitto e castigo non parla, così come non parla il Boris Godunov di Puškin.
Se le strade che portano sono una caratteristica del romanzo moderno (Hans Ulrich Gumbrecht, La strada, in Il romanzo. IV. Temi, luoghi, eroi, Einaudi, Torino 2003, pp. 465-493), allora la lettura di un romanzo deve comportare, nel lettore, il confronto con le varie strutture del romanzo, realizzate o possibili – affinché venga portato nella nuova forma. Così, leggendo un romanzo, noi siamo portati verso nuove forme possibili, che possiamo solo intravedere, attraverso il vecchio tipo di romanzo che stiamo tanto leggendo quanto lasciando.
Il ragionamento di Raskol’nikov blandisce la vicinanza, ma, come succede a Boris Godunov, non è all’altezza della sua azione e rimane vittima di una falsa vicinanza che continuamente lo spia e commenta la sua azione. “Tutti sanno!”, pensa egli diverse volte nel romanzo a proposito del suo delitto, di cui, in effetti, nessuno sa niente, poiché l’unica che, di colpo, aveva saputo, la sorella del pidocchio Alena Ivanovna, era stata eliminata proprio da Raskol’nikov. La risoluzione avviene infatti tramite la riconquista di una vicinanza, questa volta non più ostile. Quindi attraverso una vicinanza fatta infine oggetto di una domesticazione. Cioè una vicinanza falsa.
Subito dopo la condanna a otto anni di lavori forzati in Siberia, Sonja si trasferisce nel villaggio siberiano dove c’è la colonia penale in cui è rinchiuso Raskol’nikov, in modo da stargli vicino. Dal canto suo, Raskol’nikov non prova nessun sollievo per questa vicinanza non richiesta e tiene a distanza gli altri condannati perché non si considera colpevole. Egli è ancora sicuro della distanza che ha instaurato con il gesto compiuto, anche senza averne saputo poi trarne le conseguenze. Infatti, per Raskol’nikov il singolo pidocchio è ancora da eliminare. Sonja si acquista invece la simpatia dei detenuti attraverso la vicinanza che ella manifesta nei loro confronti.
La collocazione di Raskol’nikov come individuo ha adesso l’efficacia di un punto determinabile attraverso una vicinanza che è avvicinamento (o ingrandimento lungo una carta geografica all’inizio comparsa a distanza). Così Raskol’nikov viene rintracciato, nel romanzo, nella sua nuova collocazione in Siberia: «Siberia. Sulla riva di un fiume ampio e desolato sorge una città, uno dei capoluoghi amministrativi della Russia; nella città c’è una fortezza, nella fortezza una prigione. In questa prigione è rinchiuso da nove mesi […]» (Epilogo, 1, p. 497).
Il gesto di Raskol’nikov proietta il meticciato nell’Altro, ma non riconosce l’altro in sé come risultato di una degenerazione, da qui l’impossibilità di via d’uscita – che solo può essere impostata attraverso la distanza; cosicché l’unica via d’uscita deve impostarsi attraverso una nuova formulazione della nozione di vicinanza, che è l’omologo della formulazione nichilistica della nozione di individuo.
Così la vicinanza è qualcosa che condanna il gesto di Raskol’nikov, tanto è vero che i detenuti ritengono Raskol’nikov un “ateo”, un pensatore nichilista, uno che pensa diversamente da loro e che pertanto essi ritengono giusto condannare all’isolamento e al disprezzo, fino a considerare giusto tentare di sopprimerlo. Tutto in considerazione di una falsa distanza.
Soprattutto nella seconda versione, il Boris Godunov di Musorgskij, derivato dal dramma di Puškin, insiste su questa vicinanza con la grande importanza attribuita al coro. Il coro non è più un personaggio indicante una collettività singola, come nelle varie forme del teatro d’opera, che ha uno spazio di movimento ben delimitato, che lo fa entrare in scena, cantare e uscire, ma un elemento fluido che serpeggia plurale intorno all’infanticida, allo scopo di non dargli scampo, e stringerlo fino allo strozzamento. Saltando da una vetta all’altra del tempo, lo si potrebbe vedere come l’anticipazione dello straniamento epico, che sul palco osserva, commenta e condanna i gesti degli odiati potenti.
Dopo una malattia, che ha coinciso con il periodo pasquale, Raskol’nikov avverte una differenza e sente la vicinanza di Sonja. Quella vicinanza della donna, che è amore, gli permette di comprendere la vicinanza con tutti gli altri esseri umani e quindi la mostruosità del suo gesto, per cui egli è pronto a scontare la pena, ormai di soli sette anni, e quei sette anni, che adesso sono paragonabili a sette giorni costituiscono il confronto fra la Settimana di Passione e la settimana di creazione del nuovo mondo fondato sulla vicinanza rinnovata, che egli ha appena terminato di inaugurare.
Abbiamo così una strana ambiguità: l’omicidio è condannato, ma solo grazie a quell’omicidio un uomo ha ottenuto la salvazione – quindi quell’omicidio è stato un bene e se, per disgrazia, esso non fosse mai stato commesso, Raskol’nikov non avrebbe ora nessuna possibilità di resurrezione, poiché la resurrezione era ciò che egli chiedeva, e solo tramite il delitto è adesso chiaro che egli può ottenerla. Qual è dunque la funzione della vecchia usuraia? È la funzione di una domanda mal posta oppure posta fuori tempo. Perché ciò che il nuovo tempo impone, non riguarda l’uccisione di un individuo (alfine di migliorare le condizioni di vita di una piccola comunità – come era nelle intenzioni di Raskol’nikov), bensì l’uccisione di una razza (alfine di alleviare la terra). Infatti questa resurrezione si basa sul delitto individuale, che è ciò che Dostoevskij poteva ottenere tramite la forma del romanzo (e giungendo così alla formula del “romanzo slavo”), mentre ciò che bisogna ottenere – ora – è la nuova forma epica, che non può che mettere il genocidio al posto prima tenuto dal delitto individuale, e cancellare la ridicola resurrezione nel pieno pentimento nella macerazione del meticcio slavo, perché ciò che deve ottenere questa nuova forma, non è una nuova vicinanza attraverso la vecchia forma del romanzo, ma l’epica della distanza attraverso la nuova forma, che noi non possiamo vedere.
Ogni tanto mi chiedo: “Comparirà mai un romanzo, di cui si possa dire: ‘ecco una cosa diversa?’”. Ma mi piace pensare che Dostoevskij, questo disgustoso meticcio slavo, nell’ultimo sogno di Raskol’nikov abbia voluto lanciare un segnale, su ciò che realmente comporta l’arrivo di ciò che è slavo in Europa… In quanto grande artista, Dostoevskij ha messo in guardia sul pericolo rappresentato dalla sua razza.
È un po’ come quello che avviene negli ultimi biglietti di Nietzsche, dove tutti quei messaggi, scritti a persone diverse, sembrano tendere a un unico significato, trasmettendo ai diversi destinatari lo stesso messaggio e dove il senso ultimo, raggiunto nell’ultima lettera, che è anche quello fatto ormai rizoma, riporta il nome “Nietzsche”, che era il nome iniziale, conclusione del percorso, e dove l’avvio è invece nel biglietto a Brandes, che gioca sul fatto di avere scoperto ciò che era ormai facile trovare, ma impossibile perdere.