Orfeo su “La strada”

La strada di Cormac McCarthy (prima edizione 2006; versione italiana, Einaudi 2007) è un romanzo appartenente al filone definito “post apocalittico”, che racconta di un uomo e di suo figlio, ancora ragazzino, mai indicati per nome, che devono confrontarsi con ciò che rimane del mondo che un imprecisato cataclisma ha molti anni prima quasi completamente spazzato via. La strada che essi percorrono è la strada che conduce al mare, dove le temperature dovrebbero essere più alte e le possibilità di sopravvivenza maggiori.
Temi:
1) L’uomo e il bambino (padre e figlio).
2) Il fuoco da portare.
3) I Buoni e i Cattivi.
4) La strada – la fortuna.
5) Dio è con noi perché è nascosto in alcuni di noi.
Alla fine del romanzo, il padre moribondo ricorda al figlio che spetta a lui, da ora in poi, portare il fuoco. Questo perché è sempre stato loro compito portare il fuoco e il bambino lo ha imparato benissimo. Così il bambino deve continuare a camminare sulla strada, perché lì è possibile avere fortuna. Infatti sulla strada loro due hanno sempre avuto fortuna.
Il bambino, quando raggiunge la strada ormai solo, incontra subito uno dei Buoni. Da tempo quella parte dei Buoni teneva d’occhio quell’uomo e quel bambino che procedevano sulla strada tirando un carrello. Il bambino, dopo che lo sconosciuto glielo ha chiesto, decide di seguirlo. Poco distante da quel punto c’è un germe di comunità intesa a mantenere i valori “umani” della vecchia società (rispetto reciproco, rifiuto del cannibalismo praticato dai Cattivi, accettazione del concetto di dio in quanto concetto di Dio semita), e a questa comunità il bambino si aggrega.
Quello che si prospetta è la rinascita del vecchio mondo e della vecchia società. La distruzione non è servita a niente perché non ha insegnato niente: il mondo si divide ancora in Cattivi, che ammazzano gli sconosciuti per cibarsene; e in Buoni, che vogliono ricostruire la vecchia società con i valori del vecchio mondo tramontato.
Ma raccontare è raccontare la lotta dei Buoni contro i Cattivi.
Lo stile scarno della narrativa di McCarthy evidenzia ancora una volta di più la mancanza di pensiero – che diventa così impossibilità di qualsiasi pensiero – che sta alla base di questa storia. Almeno di un pensiero che scenda in profondità, che si muova in quelle profondità per un certo periodo, per risalire infine in superficie come pensiero diverso da quello che era prima. L’abbozzo di pensiero che questo romanzo manifesta è solo ciò che gira intorno alle poche parole di cui sono fatti i dialoghi. Come a recuperare l’essenza di quei dialoghi che allineano parole apparentemente casuali. Ma niente di nuovo nasce da questo movimento, al massimo si prospetta la rinascita del vecchio.
Alla base del romanzo La strada si potrebbe vedere una riproposta del mito di Orfeo. Infatti quello che l’uomo e il bambino menano (non solo per il naso) è proprio il mito di Orfeo. L’uomo e il bambino sono i portatori del fuoco (che qui prende il posto della musica). Sono cantori divini. Camminano sull’asse della strada. Il bambino e l’uomo sanno di portare il fuoco. Ma che cosa è il fuoco? Sono loro due sono a conoscenza di questo fuoco. «Tu porti il fuoco? | Io porto che? | Il fuoco. | Tu sei un po’ fuori di testa, vero? | No.» (p. 121). È quindi possibile sbizzarrirsi a determinare questo fuoco. La loro meta non è l’oltretomba ma l’attraversamento del mondo morto, che è, già di per sé, il mondo della morte. Che è il mondo che essi hanno a disposizione come spazio dove andare. Ciò che essi vogliono riscattare dal mondo della morte è il mondo stesso, che per l’appunto è ciò che è morto. E questo è possibile solo attraverso una aggregazione, che però potrà fare solo il bambino. Il padre (l’uomo) deve entrare a far parte della morte dalla quale non c’è richiamo per permettere al vecchio mondo di ricomparire. Il vecchio mondo ricompare con un movimento uguale, ma di segno contrario, a quello che lo ha fatto scomparire. Il padre morto è quindi ciò che non si deve guardare, poiché ciò che è entrato nel regno della morte; cioè l’occhiata che il bambino non può dare al corpo morto. E che infatti il bambino non dà, accettando di non voler dare, rispettando quindi il divieto imposto a Orfeo nel mito di Orfeo. Il bambino dice all’uomo incontrato sulla strada che vuole vedere il padre per l’ultima volta. L’uomo glielo permette. Il bambino raggiunge il posto dove giace il corpo del padre. Come d’accordo, l’uomo lo aveva interamente avvolto in una coperta; il bambino nota questo, ma il bambino evita di spostare la coperta per guardare il volto del padre morto: «Tornò nel bosco e si inginocchiò accanto al padre. Era avvolto in una coperta, come l’uomo aveva promesso, e il bambino non lo scoprì ma gli si sedette vicino e si mise a piangere senza riuscire a fermarsi.» (p. 122). Evitare così di guardare la persona morta corrisponde al ribaltamento del mito di Orfeo ed è ciò che permette al mondo morto di rimbalzare dal regno della morte – o di tenersi pronto a farlo. L’uomo e il bambino erano quindi in cammino per riportare in vita il vecchio mondo, che giace freddo e inutile nel regno desolato della morte. La morte del padre non ha interrotto la missione. La musica è il fuoco che essi usano per addormentare i nemici che si oppongono alla loro impresa. Il fuoco è qui la falsa fiamma della mancanza di pensiero – che però si atteggia a germe di pensiero. È ciò che permette di riscattare il corpo morto dal regno della morte, ribaltando il regno del mito – anziché solo il mito di Orfeo.
C’è da chiedersi che tipo di musica, portando il fuoco, i due trasportino. Detto d’un colpo, il vecchio pensiero è la vecchia musica. La vecchia musica è una musica metronomica, che non pensa. Monteverdi, con la sua musica, ha aggiunto un soffio alle parole; c’è però una musica che toglie il pensiero alle parole che trasporta. Puro ticchettio di accenti, puro solletico per l’orecchio. Appunto di questa musica, qui si tratta. Il dialogo tra il bambino e lo sconosciuto sopra riportato (“Tu porti il fuoco?”) ne è la conferma: il fuoco è la possibilità di riportare fuori dal regno della morte, che solo il musico Orfeo possiede. Ma questa musica è una musica che non pensa, che non crea niente di più di quanto non ci sia già stato, perché si manifesta solo come puro andare e venire di accenti.
Ma il problema è questo: che cosa è la musica? La musica continua il pensiero o ne è feice dispensa? Che cosa è la musica nel momento in cui la musica è qualcosa che è fondamentale portare, come in altri tempi era fondamentale portare il fuoco?
“L’uomo” sembra essere stato un medico («E tu che ne sai? | Perché la pallottola viaggia più veloce del suono. Entrerà nel tuo cervello prima che tu la senta. Per sentirla ti servirebbero il lobo frontale e degli affari chiamati collicolo e giro temporale, che tu non avrai più. Saranno ridotti in poltiglia. | Sei un medico?» [p. 30], ma ricordare anche la destrezza con la quale egli cuce i lembi della ferita dopo essere stato colpito da una freccia e poi la destrezza con la quale rimuove i punti di sutura [pp. 115-17]). Ma a quale tipologia di medici può essere ascritto allora, questo medico? È un medico che non esita a togliere la vita ad altre persone, se egli li riconosce un pericolo per sé e per il figlio; che non esita a sottoporsi a una pratica dolorosa per riacquistare la salute, ma è un medico che non pone mai la domanda fondamentale. La domanda fondamentale, che in quel momento andrebbe posta, soprattutto da parte di un medico, è la domanda che dovrebbe riguardare il nuovo mondo. Perché fare di un medico il protagonista di un romanzo, se poi, proprio il personaggio fondamentale del medico permette di accantonare la domanda fondamentale che quel romanzo permetterebbe di rivolgere a un medico? Tutto quello che questo medico fa, lo fa per il nuovo mondo, che sa che ha possibilità di nascere e che solo il figlio potrà vedere. Quando capisce di stare per morire, egli dice al figlio di continuare lungo la strada, perché lì è possibile avere fortuna. È un medico che si affida alla fortuna? Però ogni incontro fatto nel mondo dovrebbe essere già una fortuna. Niente è stato più lontano dalla sua mente quanto il pensiero di prendere in mano le sorti del mondo. La scienza di medico serve a questo medico solo per continuare a riproporre il vecchio mondo, e quindi a mantenere in vita il vecchio mondo. La tristezza di questo romanzo non viene tanto dalla rappresentazione del vecchio mondo in frantumi, quanto dalla certezza della sua inevitabile rinascita. È il meccanismo che sconcerta i lettori.
Anche in questo romanzo di McCarthy non vengono usate le virgolette per indicare le singole battute dei dialoghi. Ma il problema è proprio questo: la narrativa – sempre un po’ fastidiosa – di McCarthy ripropone una “letteratura” che “pensa” di “fare fuori” il pensiero – a tutti gli effetti.
Un discorso sulla narrativa di McCarthy andrebbe impostato su queste basi:
1) È una narrativa dal carattere cinematografico. Tutto il ritmo di quella narrativa è fatta per chiamare il cinema.
2) Più che una narrativa da leggere, è una narrativa da vedere. Ma proprio questo chiama i limiti del cinema, che qui si addossano sulla letteratura. È sempre un tipo di letteratura che arriva dopo che la letteratura si è arresa al cinema. È un tipo di letteratura che ha senz’altro un posto speciale nella fede cocciuta al vecchio tipo di letteratura. È una letteratura che non permette di vedere o creare qualche cosa di nuovo. È in fondo un tradimento della letteratura.
3) È però un tipo di letteratura che evoca ancora un certo mito. Il personaggio del bambino della Strada è infatti stato accostato a un nuovo “messia” (temi accennati da Erik Hage in Cormac McCarthy: a Literary Companion, McFarland & Company, Jefferson 2010).
Non si sfugge al pensiero. Qualunque tattica di fuga si usi.
La lingua chiama il pensiero. La lingua è un esercizio di selezione. Ma la selezione deve chiamare il pensiero.
Guai a una selezione che pensi di fare a meno del pensiero. Sarebbe un qualcosa destinato – o prima o poi – a ridestarsi senza lingua – e senza pensiero.

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