Forma-romanzo

Si può parlare di forma-romanzo, come si parla di forma-sonata, avendo però chiara l’idea che la forma-romanzo non è qualcosa di strutturato come la forma-sonata; per cui si può parlare di forma-romanzo solo come idea possibile di una forma che, di per sé, a differenza di quanto avveniva con la forma-sonata, non si è mai manifestata. Questo indipendentemente dal carattere multiforme del romanzo, che non può essere stabilito con l’artificio di una formula – anche se può essere ricordato con l’accenno ad una formula, come qui appunto avviene.
Il romanzo è la forma della vicinanza prosastica. Il massimo esempio di vicinanza prosastica si ha con la figura dell’Altro e con ciò a cui il protagonista del romanzo si deve adattare, cioè il mondo degli altri.
L’Altro è diventato sempre più, nella forma-romanzo, il diverso, il difforme, il mostro; ciò che bussa alla porta della prosa della vicinanza del romanzo. Ma appunto questo è il senso del romanzo quando la forma-romanzo chiama una forma superiore. Quello che occorre, dopo il tempo del romanzo, è l’epica della distanza tra uguali – che fa a meno dell’Altro. Se il romanzo è la forma della vicinanza prosastica, che ha nell’adattamento al mondo dell’Altro, e nella ricerca dell’Altro, la sua parabola, adesso serve la forma della distanza epica, che ha nell’epica della distanza tra uguali la sua completa controtraiettoria. Non serve più l’Altro, perché bisogna invece cercare l’uguale – allo scopo di farne suonare non la vicinanza ma la distanza.
Questo riconduce alla domanda sull’uomo. Nelle Regole per il parco umano Peter Sloterdijk precisava come l’umanesimo abbia sempre svolto la sua funzione primaria nel tentativo di educare attraverso i libri. Questa funzione si è contrapposta storicamente alla disinibizione furiosa, che aveva invece il suo archetipo nei giochi circensi cruenti della civiltà romana. L’uomo educato dall’umanesimo era così smascherato come il risultato di un particolare allevamento. Nietzsche insisteva circa la possibilità di un altro tipo di allevamento, che Nietzsche vedeva ormai necessario, perché l’allevamento previsto dall’umanesimo era ormai giunto alla conclusione. Nietzsche teorizzava quindi soltanto l’allevamento di un possibile tipo superiore di uomo.
In pratica Sloterdijk precisa che l’uomo dell’umanesimo (che è l’uomo acculturato) è il risultato di un allevamento, che ha la sua caratteristica nella selezione prevista da quel tipo di allevamento, cioè di educazione. L’uomo dell’umanesimo non è quindi un prodotto della natura bensì il prodotto di un progetto. Questo progetto, basato sulla selezione, è stato attuato in vista di una utilità precisa. Ma allo stesso modo altri tipi di progetti sull’uomo possono essere messi in atto dall’uomo, per quanto attualmente essi possano creare spavento nell’uomo.
L’allevamento dell’uomo non avviene mai in modo grottesco, ma impalpabile. L’umanesimo è una forma impalpabile di allevamento e di selezione, che ha un suo costo in vite umane. L’allevamento previsto da Nietzsche sarà ugualmente impalpabile, per quante vite esso possa costare.
Educazione = allevamento. Allevamento = educazione. Ma se ne esce?
Thomas Pynchon: invisibilità; Sloterdijk, Fusaro: in visibilità. L’in visibilità è sempre il meticciato, che si dà a vedere attraverso la propria invisibilità. La filosofia deve diventare dimensione di terra bruciata nella maniera in cui terra bruciata sarà ciò che prenderà il posto della filosofia.
Il realismo magico toglie una possibilità alla forma-romanzo. Si è mai notato quanto le opere del realismo magico siano insolventi rispetto alla forma del romanzo proprio attraverso l’incuranza che queste opere hanno nei confronti della forma?
Così il romanzo potrà evolversi abbandonando il “romanzo” e avvicinandosi alla “forma”. Che è quanto solo la forma-romanzo può essere chiamata a prevedere.
Adolf Frisé ha notato una cosa molto interessante a proposito dei Diari di Musil: «scrivere è più importante dell’opera, scrivere è l’opera.» (Adolf Frisé, Prefazione all’edizione tedesca, in Musil, Diari, 2 voll., Einaudi, Torino 1980, vol. I, p. XXIV). Questo comporta l’abbandono della forma del romanzo così come noi la conosciamo – o ci ostiniamo a riconoscerla.
Non è impossibile che il romanzo non consista proprio nella tensione verso una “forma” disgregatrice del genere. Non la bella forma del raccontino ma il tentativo di “inglobare” il mondo attraverso l’impulso discontinuo. Il romanzo, ovvero l’espansione verso l’infinito delle forme dei discorsi nel discontinuo possibile.
Un pensiero nasce come ammasso di possibilità, intuizione del continuo dove tutto si collega a tutto. La razionalizzazione spezza il legame tra pensiero e continuo e, da quella forma medusoide che il pensiero costituiva, ne estrae il filo lineare. Il nuovo romanzo collega questa nascita di molti pensieri.
Un pensiero deve essere pura energia suicida, pura intuizione, puro salto di un istante favorevole tra tanti mille altri istanti, che non richiede spiegazione o precisazione, ma solo di essere raccolto in tutta la sua energia distruttiva. Infatti la cosa importante, nel romanzo, non è nelle parole ma nei collegamenti che stanno tra le parole.
L’eliminazione della rappresentazione è quindi il punto di volta di questa forma-romanzo.
Il romanzo è il regno del si impersonale descritto da Heidegger in Essere e tempo. Da qui il carattere deprimente, prosastico, destinato alla sconfitta che caratterizza la materia del romanzo. Può esistere una forma diversa di romanzo, che conduca dal si al sì? Questo è solo possibile passando dalla forma attuale del romanzo all’epica della distanza tra pari.
Tuttavia il romanzo è il resoconto del trionfo del si impersonale. Non può esserci romanzo al di fuori di questo si impersonale. Semmai è possibile stabilire dei punti d’appoggio: l’opposto della forma-romanzo del si impersonale non sarà un romanzo tipo Il fuoco di d’Annunzio, cioè il romanzo di un vittorioso, ma una forma-romanzo dove tutto ha lasciato dietro di sé il si impersonale. Che è appunto ciò che comporta meno di tutto una vittoria, poiché la rappresentazione di tale vittoria rientrerebbe ancora nel regno del si impersonale.
Il futuro dovrà chiedersi se lasciare che l’Europa diventi terra per negri, semiti e meticci o se invece il suo compito non consista nel concedere all’uomo l’ultimo permesso affinché l’uomo avvenga realmente al ruolo di padrone del mondo. Questo sarà allora la fine e il compimento del mondo come mondo che ha nell’uomo il suo centro. Gramsci aveva notato il collegamento tra Superuomo ed eroi dei romanzi popolari. Aveva intuito più di quanto non avesse compreso. Per quanto auspicabile, un progetto del genere non può non rivelare i suoi agganci con la paraletteratura.
Un caso tipico della forma-romanzo è la “costruzione” del romanzo, cioè la costruzione pezzo per pezzo di quanto avviene nel racconto nel pieno rispetto dei canoni ufficiali dell’arte del raccontare. Stevenson ne è un esponente, ma il caso più allarmante si trova e ritrova nei romanzi di Umberto Eco. Nel regno del si impersonale l’arte è qualcosa di costruito nel contrabbando della funzione di uno scopo. La costruzione fa risaltare il bando contro il pensiero, tipico del regno del si impersonale. Infatti lì non si pensa a niente, tantomeno si deve pensare. La “costruzione del romanzo” è anche l’evidente inevitabilità del regno del si impersonale.
Qui sta il punto: la differenza tra azione (narrazione di una serie di azioni, come è nel romanzo tradizionale) ed evento: infatti non bisogna narrare l’azione, ma prevedere la traiettoria di un evento, che è ciò che comporta la messa a punto di una struttura, che noi non siano in grado di manipolare.
In pratica viene meno la differenza tra progetto e realizzazione, ed è ormai tempo che venga meno questa differenza.
Finnegans Wake è un romanzo basato su un fondo e uno sfondo naturalistico di vecchio tipo allarmante, lo notava John Gordon (Finnegans Wake: A Plot Summary, Gill and Macmillan, Dublin 1986). Un naturalismo di fondo di questo tipo deve essere spazzato via. Rivela che siamo ancora nel campo del romanzo come forma del rapporto con gli altri, mentre ciò che deve comparire è l’autentica epica della distanza tra uguali. Ma l’epica della distanza tra uguali è ciò che si può solo enunciare senza poter fare comparire né tantomeno dimostrare. Finnegans Wake è il romanzo della notte del giorno, così come Ulisse è il romanzo del giorno giornaliero, da qui il richiamo al naturalismo; manca il romanzo della notte stagionale. Manca il romanzo dell’epica della notte polare: l’unico romanzo che può chiamare la forma-romanzo come epica della distanza tra uguali. Il romanzo, che ha nel viaggio del protagonista uno dei suoi temi principali, deve lasciare il posto all’epica delle strade che portanoAllora che cosa è la rappresentazione di un’azione in un romanzo? Un romanzo veramente nuovo dovrebbe comprendere la possibilità di azioni senza sceglierne nessuna in particolare. Ogni elemento dovrebbe contenere linee di azioni. Questo dovrebbe coinvolgere i nomi dei personaggi; i personaggi sarebbero puri nomi, sigle di ciò che agisce in superficie, privi di qualunque profondità (profondità psicologica prima di tutto); fatti accaduti o eventi possibili. Un romanzo formato così dovrebbe dare forma al pensiero totalizzante senza essere una rappresentazione della realtà. Si eviterebbe la ricaduta in quel si impersonale che ha sempre costituito la soglia del romanzo.
In pratica verrebbe meno la differenza tra progetto e realizzazione, ma è ormai tempo che questa differenza venga meno.
I grandi pensieri sono fulmini che il tentativo di fissare trasforma nel guizzo di un fuoco fatuo.
La ricerca dell’uomo è uno dei temi ricorrenti nella forma-romanzo. “Ricerca dell’uomo” indica ricerca del modo più adatto di parlare di quella cosa eterna che sembra sempre essere l’uomo. Non si è mai avuto un vero romanzo in grado di uscire dal problema dell’uomo, cioè del parlare su di sé. Finnegans Wake è senz’altro un limite di questa ricerca, ma è un limite. Finnegans Wake comincia anche così come comincia Ulisse, con il protagonista che entra nel gabinetto. Per la forma-romanzo l’allontanamento dai temi della ricerca dell’uomo comporterà il superamento di ciò che ha costituito la fortuna del romanzo postcoloniale, cioè l’abbandono di tutti i temi del realismo magico.
Il tema del realismo magico forma il suo spazio nella letteratura postcoloniale. Questo è il significato del romanzo come ricerca dell’Altro nella sua tappa attuale – ed è la forma che deve essere abbandonata. Eppure è la letteratura come disprezzo che bisogna riprendere. Questo perché bisogna far comprendere il collegamento con il colonialismo. Bisogna rinunciare al personaggio perché comunque ogni vero personaggio di romanzo deve ragionare con sentimenti che devono suonare anticolonialisti. La creazione di un personaggio favorevole al colonialismo porterebbe al ribaltamento di quelle teorie su cui si regge il vecchio personaggio, inevitabilmente contrario al colonialismo. Invece bisogna superare il complesso del tema. Ma questo vuole dire superare il concetto di uomo. Cioè giungere a un nuovo concetto di essere umano. Allora non si dovrà più rappresentare l’uomo, essendo ormai l’uomo la questione di un’epoca della terra che è stata oltrepassata. La scomparsa del personaggio deve essere allora un canto della terra.
In fondo il tema della forma-romanzo è: “Come parlare dell’uomo?” Questa è la domanda che viene posta nella narrativa saggistica di Musil. L’introduzione del saggismo nella narrativa ha comportato modifiche all’interno della narrativa. Bisogna parlare dell’uomo in un modo diverso rispetto alla narrativa tradizionale. In modo pensante. L’uomo deve essere affrontato con piglio diverso. Un piglio “filosofico”, per quanto non si tratti di fare filosofia. Per così dire il verosimile deve estendersi al pensiero filosofico, così come prima si estendeva a quello che conduceva al tipo umano. Quindi è un campo simile a quello che la “poesia pensante” occupa rispetto al campo della filosofia. L’uomo deve essere affrontato da un punto di vista filosofico anche nel romanzo. Un discorso del genere deve occupare lo spazio lasciato libero dal concetto tradizionale di “uomo” e quindi di personaggio.
Il figlio del dio del Tuono di Arto Paasilinna è un esempio di “letteratura brillante” basato sul tema del ritorno degli dei della razza e sulla cacciata degli dei semiti che occupano l’Europa. La letteratura brillante è ciò che brilla nel periodo in cui tutto deve essere spento per fare posto alla Terra bruciata. Un romanzo brillante come Il figlio del dio del Tuono è quello che della letteratura simula la casa del Capo. Simula un luogo dove si dice il vero. E infatti questo romanzo tratta un tema importantissimo. Ma lo tratta nel modo brillante che è la chiacchiera che suona come chiacchiera da salotto. Qui è la domanda fondamentale sul mito che viene trattata come battuta da salotto. La domanda fondamentale del mito, che lega adesso la letteratura da Joyce in poi è: “Come torna il mito nella nostra epoca?” Per ora bisogna così parlare di forma-romanzo brillante e di forma-romanzo pensante, che è la linea seguita da Musil.
Di tanto in tanto si fanno incanti. Di tanto in tanto si è soggetti a incantesimi. “Come parlare dell’uomo?” Questo è ciò che adesso – di tanto in tanto – viene all’incanto, cioè porta ad essere incantati. Come delimitare l’uomo? come trovarlo? ma come farne infine a meno? Infatti l’uomo è ciò che deve essere trovato per poi poterne fare a meno; questo implica l’approccio filosofico che deve essere stabilito con precisione d’incantesimo. Io non ti avrei mai perduta, se tu non mi avessi mai cercato.
Il mondo del modo in cui si può parlare dell’uomo è un dato inevitabile della filosofia (che qui compare come “saggistica”), che pone l’uomo come elemento della serie del mondo. Esso è collegato al dato relativo a dove trovare l’uomo, visto che questo è comunque un luogo in una serie, cioè nient’altro che un punto in uno spazio seriale.
Come parlare dell’uomo? A che cosa risponde l’uomo? È il modo di parlare dell’uomo in un romanzo che deve cambiare. Non si tratta di descrivere un caso individuale quanto ciò che determina di volta in volta il tratto costitutivo che fa capo a una individualità.
È importante il fatto che l’uomo risponde a qualcosa che lo chiama. Dal punto di vista filosofico l’uomo è l’ente che è chiamato. La forma-romanzo nuova deve narrare l’attenzione a questa risposta e questo porsi in ascolto di ciò che chiama, spostando così il suo baricentro.
Porre la domanda sull’uomo è porre la domanda sull’epoca nella quale la domanda sull’uomo viene infine posta. Così, fino ad ora, la domanda sull’uomo rispondeva a una domanda che l’epoca aveva posto all’uomo. Ma la domanda posta adesso sull’uomo è ciò che pone l’uomo come risposta a una domanda che l’epoca non permette ancora di porre nella sua interezza all’uomo. Infatti l’epoca che pone adesso la domanda sull’uomo è l’epoca che ha posto la scomparsa dell’uomo come dato ineluttabile dell’epoca in quanto riflessione dell’uomo sull’uomo. Da qui la via d’uscita che la forma-romanzo non può che non prendere, ponendo il suo percorso attraverso le logiche non classiche.
Uscendo dallo spazio del romanzo si nota così che l’epoca moderna pone una frattura nell’arte della narrazione. Prima della modernità la narrazione riguardava la risposta dell’uomo a una domanda che all’uomo veniva posta. Nelle Íslendinga sögur l’uomo accettava di stabilirsi nella terra che la terra stessa gli aveva indicato come terra in cui andare ad abitare. In questa accettazione della terra l’uomo poneva la sua risposta alla terra. Nell’epoca dove la terra è solo terra dove andare, questa accettazione della terra non è più possibile. E l’uomo deve allora diventare la stratificazione di una risposta dispersa verso una domanda che non è ancora stata posta per lui.

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