Enciclopedia dei morti (1983), dello scrittore “jugoslavo” Danilo Kiš, è una raccolta di nove racconti in cui manca, programmaticamente, qualunque brivido metafisico, brivido spesso presente nei racconti di Borges, intendo nei suoi migliori racconti, pienamente presente nel racconto La biblioteca di Babele (1941), racconto certamente presente a DK nella stesura del suo racconto L’Enciclopedia dei morti, presente in quella raccolta. La mancanza del brivido metafisico è trovare la grigia realtà dove invece doveva esserci il sublime, anche se il sublime come esperienza del terrore. Ho sempre pensato che il racconto di Borges derivi da uno dei migliori racconti di Lovecraft, L’ombra calata dal tempo (The Shadow Out of Time), scritto tra il novembre 1934 e il febbraio 1935 e pubblicato nel 1936. In questo racconto di Lovecraft, come negli altri suoi migliori, c’è il brivido di un tempo colto come tempo che non può essere misurato con gli strumenti maneggiati dagli umani, perché non appartiene al tempo umano, bensì esposto, logicamente, alla piena estraneità di quella esperienza, e che per questo porta il brivido. Che cosa presenta, invece, qui il colto racconto di Kiš? soltanto la biografia di una persona qualunque, nella cornice metafisica di un racconto che rimanda soltanto al racconto di Borges in quanto rimando colto affidato all’ombra della persona qualunque che legge la lettura di una notte qualunque a Stoccolma, ad una luce molto incerta, molto oltre l’orario di apertura della biblioteca, di un libro incatenato allo scaffale. Questa tecnica (se si può parlare di tecnica) si ritrova poi ripetuta nel racconto finale.
Di sicuro Borges conosceva – e, a suo modo, stimava – l’inimitabile arte di Lovecraft, come dimostra il suo racconto There Are More Things del 1975, inserito nella raccolta Il libro di sabbia.
Torniamo a Kiš. Colleghiamo l’ultimo racconto, I francobolli rossi con l’effigie di Lenin, al racconto l’Enciclopedia dei morti, presente nella stessa raccolta: il tema comune è la storia banale che non può essere fatta oggetto di racconto alcuno, conducendo esso solo ad una più che mediocre narrazione, a causa della banalità, ma che, tramite uno spicciolo di stratagemma, può essere proposta come cosa che vale ancora la pena raccontare ancora volta per volta. I due racconti hanno tratti comuni: sono in forma di lettere redatte da donne: una figlia che vuole ricordare il padre preservandone i tratti suoi più banali, indifferenti, comuni, di vita comunque qualunque di lui; una donna che ricorda l’amante, un grande poeta, poi coinvolto nell’ala turbinosa della dissidenza sovietica, infine vittima di quel potere, volta a preservare la mediocrità di tante parole scambiate dalla ineluttabilità della critica letteraria occidentale; in entrambi i casi, il racconto, ridotto al suo nucleo, non dice niente, perché non c’è niente da dire, ma solo la cornice, in cui esso viene posto a gravitare, è in grado di garantire, di volta in volta, la parvenza di un nuovo contenuto, e quindi a riproporlo.
Bisogna distinguere sempre l’arte dello scrittore di razza bianca, che oltrepassa i limiti della forma che trova all’inizio della propria attività, come ciò che gli viene consegnato per ottenere una forma assolutamente diversa, che è però la piena realizzazione di quello che egli aveva ottenuto, dalla falsa arte (che è arte degenerata, e quindi ciò che non va assolutamente da nessuna parte) del meticcio, che è sempre ciò che è per razza, cioè solo un meticcio, che è lì perché sta lì, così come, in alcuni casi, va via da lì. Ma non vi sembra che questa frase «Nelle vaste biblioteche che essi avevano accumulato c’erano testi e raccolte d’immagini in cui erano compendiati gli annali della terra: storia e descrizione di tutte le specie che erano o sarebbero esistite, con la loro arte, scienza, lingua e psicologia.» (H.P. Lovecraft, In Id. Edizione annotata H.P. Lovecraft, a cura di Leslie S. Klinger, Mondadori 2022, traduzione di Giuseppe Lippi, pp. 982-83) sia calata dal tempo di Lovecraft a Providence dritta addosso al tempo impettito di Borges a Buenos Aires? Dico che, per quello che mi riguarda, il vero obiettivo è sempre la mentalità del meticcio.
Sulla stessa linea, da precisare non è la comparsa dei Protocolli (racconto dal titolo Il libo dei re e degli sciocchi della raccolta) nel mondo, ma la stupidità, che ha fatto sì che quelle cose apparissero tutte come degne di attenzione. Quello che invece deve essere affrontato è la semplicità, che riguarda ciò che non può più essere ritenuto in quanto tale, cioè il fatto che non si possa discutere di ciò che ha diritto di vivere, dividendolo da ciò che invece deve essere soppresso. Perché, allora, stupirsi dei campi di sterminio, quando si ha solo a che fare con “cose” – cioè cose che sono state, cioè semplicemente eliminate, congedate, tolte dickianamente dalla falsa circolazione imposta dai falsari?
L’interpretazione del mondo, che coinvolge il racconto dedicato allo gnostico Simone il Mago, così come il racconto dedicato alla formazione del testo conosciuto come Protocolli dei Savi anziani di Sion, è ciò che le parole, comunemente riservate per la rappresentazione del mondo, non valgono più, che è quello che accomuna il racconto sulla Enciclopedia a quello sui Francobolli con l’effigie di Lenin. DK avrebbe dovuto considerare, che, ciò che fa lo scrittore, è selezionare le tante parole che gli si presentano a disposizione, fra tutte le parole del mondo, che è invece ciò che non ha fatto, creando così quest’opera effimera, dove non può che mancare il richiamo alla razza. Il meticcio deve sapere di essere di un tipo di razza che non è razza, perché è antirazza. Questo è ciò che dimostra l’arte del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio: Stefano Jossa ha giustamente definito lo stile del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio come stile del “superuomo umile”, che però deve essere distinto dal “grande stile” di Nietzsche, che è ciò che riguarda la differenza tra lingua e parola.
Essere chi scrive è, in ogni caso, essere signore delle tante parole giunte anche, per caso qualunque, a sua disposizione; ma sta sempre a chi legge, ricomporre poi il testo che gli è capitato di leggere, anche se solo per un caso qualunque, perché lì sta la differenza.
Danilo Kiš, Enciclopedia dei morti, traduzione di Lionello Costantini, Adelphi 2001.