Viaggi

Viaggio in Italia di Goethe e Viaggi in Grecia di Heidegger possono essere confrontati a partire dal ruolo particolare che in entrambi i casi gioca l’Italia. La meta è sempre la Grecia, meta ideale in Goethe, poiché egli era fermamente intenzionato a trovare e continuare a cercare la Grecia in Italia, soprattutto a Roma; meta anche in Heidegger ideale, poiché, nonostante la meta del viaggio fosse lì – esplicitamente – la Grecia, Heidegger sapeva benissimo che il paese da lui trovato nel viaggio sarebbe stato ben diverso da quello dell’origine del pensiero occidentale. Ma in entrambi i casi l’Italia getta sulla Grecia un’ombra strana, e tutta ancora da pensare. Questo perché quando si ha a che fare con l’Italia è ancora da pensare la domanda fondamentale: “Che cosa ci fa l’Italia in Europa?” Vale a dire: “Qual è il senso dell’Italia in Europa?”
Il testo di Heidegger comprende due brevi resoconti di viaggi: il primo, Dimore, avvenuto nel 1962; il secondo, Le isole dell’Egeo, avvenuto nel 1967.
Heidegger svolge la sua riflessione secondo tre temi fondamentali:

Tema 1 – La modernità
Già all’inizio di Dimore l’Italia gioca un ruolo di smaccata e torbida convivenza con la modernità. È quanto restituisce nel testo l’immagine di Venezia, da dove la nave sulla quale Heidegger è imbarcato parte alla volta della Grecia. Venezia vi appare modernamente «decaduta a oggetto della storiografia, a tema attraente di scrittori confusi, a campo di gioco di esposizioni e di congressi internazionali, a porzione di bottino dell’industria straniera.» (p. 419).

Tema 2 – L’epoca delle macchine
Che l’accostamento dei due testi non sia una stravaganza lo si deduce anche dal fatto che Heidegger, in un punto di Dimore, ricorda con precisione il Viaggio in Italia di Goethe: «Dopo la seconda notte di viaggio, al mattino si mostrò presto l’isola di Corfù, l’antica Cefalonia. Che fosse questa la terra dei Feaci? Il primo sguardo non si volle accordare con ciò a cui il poeta, nel VI libro dell’Odissea, ha dato forma. […] Ma era già Grecia? Il presentito e l’atteso non apparivano. Le rappresentazioni portate con noi erano esagerate e travisate? Tutto assomigliava piuttosto a un paesaggio italiano. Ma Goethe fece esperienza certamente in Sicilia, per la prima volta, della vicinanza dell’elemento greco. Là gli si impose il progetto di una tragedia su Nausicaa, non scritto ma schematizzato in una riflessione continua fin nei particolari. Perché questo progetto non fu realizzato? Egli subì ancora le fattezze di una Grecia romano-italica, vista alla luce di un umanismo moderno? Bastò al poeta questo sguardo sul mondo per annunciare poi, nella vecchiaia, il sorgere dell’epoca delle macchine?» (pp. 421 e 423).

Tema 3 – La Terra del Sacro
Riflessione al tempio di Afaia: «Il rapporto greco con la divinità del dio e degli dèi non era né una fede né una religione nel senso romano della religio.» (p. 467).
Anche nelle Isole dell’Egeo si trovano dei passi che segnano la distanza tra la Grecia, da una parte, Roma e l’Italia dall’altra: gli antichi greci non avevano l’equivalente della nostra parola “paesaggio” (p. 501). «Questi rapporti tra natura e divinità diventano ragionevoli solo se ci liberiamo dal concetto romano-cristiano di natura, e se rimeditiamo sul senso principale della natura come physis, se però pensiamo la physis come far schiudere e lasciare presenziare del presenziante.» (p. 501).
«Al contempo svanisce la possibilità d’interpretare il rapporto col divino nel modo della religione romana e di parlare di una “religiosità” dei greci e della loro “fede”.» (p. 501).

Notare come in Heidegger sia sufficiente solo la somiglianza di un tratto di paesaggio greco con quello italiano per gettare un dubbio sulla sacralità della Grecia effettiva (cioè della Grecia che si contrappone a quella imparata dai libri e dal pensiero). Anche in un altro punto del testo Heidegger fa un’osservazione dello stesso tipo. Precisamente durante l’avvicinamento ad Olimpia: «Ancora più difficile, a dir il vero, era pensare che proprio in questo paesaggio, che potrebbe trovarsi anche in Italia, fosse istituito il luogo di festa della grecità e con esso la misura per la cronologia delle Olimpiadi.» (p. 427). L’Italia è meno che mai una terra del sacro, è semmai un luogo della religione; mentre la Grecia, agli occhi di un visitatore attento, potrebbe ancora nascondere qualcosa del Sacro.
Paesaggio, dimora, uomini e dei, Terra del Sacro: i temi ci sono tutti. Ma perché la deviazione? Vale a dire: perché l’Italia? In Goethe la deviazione è cercata e non verrà mai rinnegata. Goethe si mette in cammino verso l’Italia; per lui l’Italia è la chiave indispensabile per comprendere la Grecia classica. Per Heidegger l’Italia sarà la commistione romano-italica, responsabile infine dell’umanesimo. Un inciampo verso la Grecia; un fraintendimento della grecità. L’Italia è comunque l’ombra – ombra riconosciuta, nella versione di “ombra rinfrescante” in Goethe, ombra scansata, in quanto nascondimento in Heidegger – della Grecia.
In entrambi i casi rimane ferma la posizione della Grecia come posizione ereditata dalla tradizione. Tuttavia sembra anche indispensabile che non si possa trovare la Grecia senza dover affrontare l’Italia. La religio romana aveva finito per istituire quello che con Platone aveva cominciato a presentarsi. Ma il male che l’Italia propaga era già presente in Grecia.
La questione è questa: siamo sicuri che la degenerazione sia intervenuta a partire da un certo punto? Heidegger sembra notare proprio questo nel suo appunto iniziale su Venezia. Ecco il brano completo: «A Venezia i freddi giorni piovosi offrirono uno strano preludio. L’anonimo hotel di lusso nel quale eravamo capitati si era confermato col suo squallore alla decadenza che caratterizza la città. Storicamente più tarda di molti secoli, e per questa ragione temporalmente più vicina a noi rispetto alla Grecia, Venezia rimane priva di forza direttiva. È decaduta a oggetto della storiografia, a tema attraente di scrittori confusi, a campo di gioco di esposizioni e di congressi internazionali, a porzione di bottino dell’industria straniera. La magnificenza e la potenza passate della repubblica si sono allontanate da ciò che è rimasto, il cui intrico sfaccettato si lascia dipingere sugli edifici e nelle piazze sempre in maniera diversa e senza fine.» (p. 419).
Questo è un pensiero che dal pensiero fa rotta verso un pensiero più nuovo e incandescente… Ma se fosse proprio il momento di passare da questo movimento, che dal pensiero porta al pensiero, a un qualcosa di più concreto e sconcertante, che pure il pensiero genera? Piccole scorciatoie sono alla base di grandi traversate. Se fosse proprio questo il momento di passare dal pensiero alla razza? Dal punto di vista etnico Grecia, Roma e Italia costituiscono un insieme omogeneo, che l’umanesimo non ha avuto difficoltà ad accogliere e riproporre nell’insieme della sua manifestazione. Un nuovo pensiero dovrà infatti riconoscere nel pensiero ad esso precedente, quello nel quale ancora poniamo le domande, l’inadeguatezza di razza, che pure lega Grecia, Roma e Italia (e prima ancora i fatti della Giudea biblica) – e consolidarsi infine sulla base della razza.
Bisognerebbe precisare: perché tanto Nietzsche quanto Heidegger non hanno potuto modulare la possibilità di un pensiero non coinvolto con il fosco asse Grecia-Roma-Italia? La questione coinvolge anche Hölderin. Perché cercare in tutti i modi la Grecia per dare terra al proprio pensiero? Perché non si è mai posta la domanda se proprio quel pensiero, cercato così accanitamente, non si sia sviluppato proprio a partire da una mancanza di terra su cui poggiare, vale a dire sulla mancanza di una autentica Terra del Sacro?
Questo per quanto riguarda il pensiero della terra abbandonata dal sacro, che è la terra che si oppone al Nord, la terra della razza giudaico-latina. Ma il pensiero che inizierà dopo la fine dell’epoca della metafisica sarà un pensiero che avrà la sua casa nella terra germanica, poiché solo nel Nord potrà riconoscere la Terra del Sacro. Il pensiero potrà così articolarsi a partire da una razza diversa. Con conseguenze attualmente imprevedibili.

M. Heidegger, Hölderlin. Viaggi in Grecia, Bompiani, Milano 2012.

Ascolto

Si può definire questa epoca come epoca dell’ascolto. La psicoanalisi ne è forse la dimostrazione meno evidente, ma sempre a favore della definizione proposta. L’epoca dell’ascolto, l’epoca più impacciata per quanto riguarda il movimento, con il suo passo da oca zoppa è però in cammino da molto tempo. Viene infatti da lontano. Nel Viaggio in Italia Goethe la rintracciava nella forma del recensire, in opposizione a quella del fare.
Le epoche vanno viste nell’ambito di lunghi e lunghi, e sempre ancora più lunghi tempi. Quindi un’epoca dell’ascolto chiamerebbe un’epoca passata, o tutta ancora a venire, dove l’ascolto non era e non sarà importante. Ma non è certo che si avrà di conseguenza una nuova epoca del fare. Una nuova epoca potrebbe anche scegliere il non fare come un non fare che non si oppone più ad un fare, e che quindi non avrebbe niente a che fare con un’epoca dell’ascolto. Quindi a quella nuova epoca mancherebbe l’attimo della decisione fondante. Ma resterebbe caratterizzata, nella sua origine, da una scelta di fondo, che resterebbe come una scelta di non fare.

Losurdo: due note

Nota 1: «Come sappiamo, in Nietzsche il richiamo alla grecità autentica, pensata in contrapposizione anche con la romanità, cede progressivamente il posto al richiamo al mondo greco-romano nel suo complesso, travolto dalla sovversione ebraico-cristiana. È per questo che, sul finire della seconda guerra mondiale, Heidegger rimprovera al filosofo di essersi ispirato non già alla Grecia bensì a Roma. E la celebrazione della prima in contrapposizione alla seconda è ben presente anche in intellettuali e personalità più direttamente legati al nazismo. Non così in Hitler, che bolla il cristianesimo in quanto responsabile della “fine di un lungo regno, quello del luminoso genio greco-latino”. Roma è tutt’altro che sinonimo di decadenza: “L’impero romano non ha mai avuto l’eguale. Essere riusciti a dominare completamente il mondo! E nessun impero ha diffuso la civiltà come quello”. In questo senso ha ragione lo Heidegger che comincia a prendere le distanze dal Terzo Reich a rimproverare congiuntamente al nazismo e a Nietzsche di essersi lasciati affascinare dall’opzione romana.» (pp. 845-6).
Temi: Roma ha dunque affascinato Nietzsche e Hitler? Heidegger ha riconosciuto in Nietzsche e in Hitler la presenza di questo fascino e ne ha preso le distanze? Domanda fondamentale: che cosa era la Grecia? Perché la Grecia (e poi Roma), anziché il Nord?

Nota 2: La denuncia e la critica della Rivoluzione francese costituiscono l’unico modo per intendere il pensiero di Nietzsche come coerente unità (p. 897). «Solo non rimuovendo l’elemento che l’attraversa in profondità, solo tenendo ben presenti la critica e la denuncia militante della rivoluzione e della modernità, è possibile cogliere l’unità del pensiero di Nietzsche e la sua interna coerenza.» (p. 900). È più esatto dire che il pensiero di Nietzsche è un pensiero autenticamente aristocratico, che non scende mai a compromessi con i pregiudizi democratici della modernità. Il carattere autenticamente aristocratico di questo pensiero è contenuto in una frase, e in una fase, del giovane Nietzsche in riferimento a Socrate: “l’aristocratico comanda; il democratico deve convincere”. Tutto il pensiero di Nietzsche si svolge a partire da questo nucleo, subito intravisto. La difficoltà di comprendere Nietzsche dipende dalla nostra difficoltà ad accettare un principio del genere, espresso con questa (per alcuni) semplicità sconcertante. Ma la formulazione di questo principio è ciò che chiama in causa la possibilità di stendere testi. Il fatto che su Nietzsche la modernità ritorni sempre, dimostra che Nietzsche è ciò a cui noi, in quanto partecipi della modernità, siamo chiamati. Ma siamo chiamati in quanto chiamati a trovare una via d’uscita dalla modernità. La comparsa di questo libro di Losurdo ne è una dimostrazione. Il libro, infatti, sarebbe divertente, se non fosse soporifero.

C’è però da chiedersi: è giusto riunire il discorso di Nietzsche sotto la categoria del “politico”? Losurdo collega il discorso di Nietzsche alla critica della Rivoluzione francese, ma è giusto questo predominio? Il discorso di Nietzsche, con tutta probabilità, avrebbe potuto articolarsi anche senza l’incidente della Rivoluzione francese. La Rivoluzione francese isola infatti dei temi, ma non li origina da un nulla di idee. E nelle idee si annida la degenerazione. Collegare Nietzsche al “politico” vuole capziosamente dire che Nietzsche deve rispettare le basi di ciò che adesso è attinente – secondo noi – alla politica, cioè alla democrazia, alla quale siamo tutti incatenati. Dire che il pensiero di Nietzsche è un pensiero anti-democratico non è schierarsi politicamente, ma è ricollocare il pensiero di Nietzsche in una sua sfera d’origine al di là della nostra origine in quanto facoltà di pensare il politico. Prima di essere una categoria della politica, il “democratico” è una degenerazione del pensiero, che appunto Nietzsche ha contribuito a mettere ampiamente in luce.

Della novità del pensiero di Nietzsche, Losurdo affronta diversi temi finora non recepiti: il pensiero aristocratico; la possibilità di un pensiero “diverso” ai margini, completamente staccato dal tracciato democratico, alla fine dell’Ottocento; la possibile tendenza di un pensiero, fra i massimi dell’Occidente, verso il tema della eliminazione finale delle razze inferiori. È logico che Losurdo vi si muova un po’ spaesato. Infatti questo libro potrebbe essere molto divertente… se solo non fosse così soporifero.

          D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, Torino 2004 (I ed.: 2002).

Un sistema fatto in casa

È probabile che una filosofia, prima di essere la risposta ad altre teorie di filosofia, sia un modo per imbrigliare con parole un insieme composito che prevede un sistema di vita e un ambiente comune, una parte di terra dove della gente abita, e quindi anche delle parole. Così la filosofia di Heidegger sarebbe proprio quel sistema “fatto in casa” che irritava Bernhard. Ma lì non ci sarebbe niente di male; anzi, più le caratteristiche del “fatto in casa” dovessero accentuarsi, più la filosofia potrebbe essere di alto livello, giungendo sempre più attentamente a imbrigliare in parole – strettamente – cose e persone e parole. (Questo, per inciso, costituirebbe poi un modo diverso di affrontare la filosofia – e a ben guardare avrebbe anche poco a che fare con la stessa filosofia.) Infatti la filosofia così considerata si avvicinerebbe a cogliere l’unicità di parole e cose strette insieme, attraverso l’uomo, nell’abitare.

Due aforismi di Nietzsche

I due aforismi che concludono il terzo capitolo, L’essere religioso,  di Al di là del bene e del male di Nietzsche, il 61 e il 62, sono strettamente collegati tra loro e complementari. Riguardano la religione, ma lo fanno in due modi diversi: il primo affronta la religione da un punto di vista dei vantaggi che essa può offrire all’interno di una società; il secondo la considera a partite dagli svantaggi che essa può concretamente provocare.
Più precisamente: l’aforisma 61 affronta la religione come mezzo per dominare gli uomini, quindi la religione come strumento di plasmazione in mano a una élite; il 62 indaga invece le conseguenze che si manifestano quando una cosa come la religione viene lasciata a se stessa, libera di agire tra gli uomini senza alcun tipo di controllo sociale: il risultato è, in molti casi, quello di permettere ai malati, intesi come persone non degne di vivere, di continuare a vivere e di impedire la formazione di un tipo superiore di uomo.
Questi due aforismi rivelano come in Nietzsche ci sia tutta una parte di pensiero che sovente l’esegesi nietzscheana ha tralasciato o ha considerato con sufficienza, giusto quanto basta per permettersi di tralasciarla.
È chiaro a chiunque che qui non si tratta di appunti abbozzati da Nietzsche in uno dei suoi tanti taccuini, in attesa di una rielaborazione e di una collocazione finale, come ad es. gli appunti che dovevano confluire nella Volontà di potenza – progettata e mai realizzata – ma di testi completi, inseriti all’interno di una delle opere fondamentale di Nietzsche e del pensiero occidentale, dove essi svolgono la loro piena funzione.
Ecco l’inizio del primo aforisma: «Il filosofo come lo intendiamo noi, noi spiriti liberi –, come l’uomo che ha la responsabilità più vasta e per cui il completo sviluppo dell’umanità è un fatto di coscienza: questo filosofo si servirà delle religioni per la sua opera di plasmazione culturale ed educativa, allo stesso modo con cui utilizzerà le condizioni politiche ed economiche del momento.»
Questo è invece l’inizio del secondo aforisma: «Indubbiamente, per mostrare anche il bilancio negativo di tali religioni e di mettere in luce la loro sinistra pericolosità, occorrerà infine dire che si paga sempre a caro prezzo e in maniera terribile il fatto che le religioni non siano nelle mani dei filosofi come strumenti di plasmazione culturale e di educazione, bensì governino a loro talento e in guisa sovrana, e vogliano essere per se stesse gli scopi ultimi e non mezzi accanto ad altri mezzi.»
Ad una prima lettura, sarebbe giusto chiedersi: “Veramente la religione può essere ridotta a una cosa di questo tipo?” È probabile che qui Nietzsche sia troppo riduttivo nel considerare le religioni. Le religioni non possono essere solo strumenti in mano a poche persone, «mezzi accanto ad altri mezzi», poiché hanno una loro storia e una loro vita. Ma è un atteggiamento giustificabile, nel senso che Nietzsche era premuto da una cosa molto importante, per lui, da esporre. Che cosa? Il fatto che una élite avrebbe dovuto padroneggiare una ideologia a esclusivo consumo di certe masse. E, contemporaneamente, il fatto che una religione era dilagata talmente nel mondo moderno in un modo tale da impedire la formazione di tipi superiori e di mantenere in vita ciò che invece doveva essere condannato a morire.
Allora che cosa indicano queste considerazioni di Nietzsche sulle religioni? Semplicemente uno spostamento. Il discorso non riguarda tanto le religioni, che Nietzsche dimostra qui di non comprendere come fenomeno antropologico inscindibile dal fenomeno umano, ma la creazione di gruppi umani tenuti in vita per uno scopo preciso (quello di svolgere certi compiti) e ai quali deve essere fornita una ideologia particolare, costruita in modo tale da fare accettare loro una sorte estremamente gravosa. Questa, più che essere la religione che noi conosciamo, è un qualcosa che viene creato a modello della religione, perché è provato che la religione ha anche un effetto palliativo verso i dolori del mondo, ma che non è, in tutto, una religione. È infatti un pensiero creato “a tavolino”, e il “filosofo” citato da Nietzsche in questi due aforismi non è un filosofo a sé stante, come, ad es., poteva essere il filosofo Nietzsche, che componeva i suoi libri e se li faceva stampare a proprie spese, in totale solitudine, ma un componente attivo di un gruppo dominante (sia essa una élite o una nuova casta). Ma componente di quale gruppo dominante?
L’attenzione deve quindi spostarsi sui due punti estremi della catena: i creatori di questa “religione” e i fruitori della stessa. Il discorso può essere meglio affrontato se si parte da ciò che permette il lancio della catena.
Il pensiero di Nietzsche è un pensiero antidemocratico. Questa affermazione è stata fatta molte volte in diverse occasioni, sempre con intento di biasimo; più con l’intenzione di chiudere, anziché impostare un discorso. Infatti raramente si è cercato di pensare che cosa possa significare un “pensiero antidemocratico” e che cosa possa mettere in gioco come nuovi valori, alternativi a quelli del presente. Questo perché non si vede niente di sano al di fuori della presente modernità democratica.
Dal punto di vista della modernità il cristianesimo, prima di essere una religione, è l’ideologia che massimamente riproduce e tiene insieme tutta la modernità. È l’ideologia più rappresentativa della modernità. Il cristianesimo è quindi quella ideologia la quale, una volta avviata, ha fatalmente trascinato con sé tutto il pensiero e tutti gli esseri umani nella modernità nella quale, ancora adesso, essi si trovano invischiati e sballottati.
Il discorso di Nietzsche sul cristianesimo è quindi un discorso che, in Nietzsche, trascina con sé il discorso sulla modernità. Affrontando così il discorso sulla religione, Nietzsche poteva affrontare nello stesso modo il discorso sulla modernità
Il pensiero di Nietzsche è antidemocratico perché riconosce nel cristianesimo l’ideologia più dannosa per il genere umano, e perché riconosce questa estrema dannosità nel fatto di essere la vera ideologia dispensatrice del concetto di “uguaglianza” tra tutti gli esseri umani, concetto cardine della modernità. Il superamento del cristianesimo è quindi possibile, nel pensiero di Nietzsche, attraverso progetti che devono suonare come inconcepibili nella compagine cristiana. E – di riflesso – in tutta la modernità. Questa fase e la fase dell’affermazione “Dio è morto!” sono quindi inscindibili.
Il primo aforisma mostra la situazione della religione quando essa è dispensata da una élite, cioè dai nuovi dominatori del mondo; la seconda mostra il funzionamento in occasione dell’assenza dei nuovi dominatori.
Il guaio è che si vuole adattare Nietzsche alle proprie convinzioni: un Nietzsche “di sinistra” per Foucault, un Nietzsche “epurato” per Heidegger… In realtà bisognerebbe cominciare a cercare il pensiero di Nietzsche in un terreno sconosciuto, dove si sgretola e frana senza fine il bozzolo angusto della modernità.
Quello che costituisce lo sfondo del pensiero di Nietzsche è un uso diverso del pensiero, diverso da quello cui la modernità ci ha lentamente e inevitabilmente abituati. Su questo sfondo, cioè su un pensiero che funziona in base a una diversa ripartizione dei gruppi sociali rispetto alla modernità democratica, tutti i grandi temi del pensiero nietzscheano – volontà di potenza, eterno ritorno, superuomo – sono progettati e articolati. Quindi in questo aspetto andrebbero analizzati.
Ma seguire questo pensiero non vuole dire seguire un pensiero che urta la democrazia, quanto seguire un pensiero che cerca di farsi pensiero a partire da una uscita della democrazia così come è praticata nell’Occidente della modernità. Tutto il pensiero maturo di Nietzsche si costituisce infatti a partire da uno “sfondo” frattale che prevede l’avvio di una nuova epoca. Questa nuova epoca è caratterizzata grazie alla fissità di lampi frattali. Ma questi lampi fissano come punto fermo il possibile ritorno di ciò che la nostra modernità non può più accettare per nessun motivo e che il cristianesimo, germe suo malgrado della modernità, ha avuto come suo principale nemico. Tutto il pensiero di Nietzsche è sostenuto dalla certezza di un possibile quanto inevitabile ed auspicabile ritorno della forma della schiavitù: di una formazione di nuovi schiavi da una parte, e di nuovi proprietari di schiavi dall’altra; dall’innalzamento e dall’inabissamento di gruppi umani. Quindi di una forma di pensiero sbiadito, sia esso religioso o no, per gli schiavi. E questo non avverrà per sopraffazione, ma per consolidamento di un nuovo modo di pensare, preciso e leggero come il passo di una colomba.
Non è questo un modo più complesso di leggere Nietzsche, un modo che evita le insidie dei “nietzscheani inselvatichiti” quanto quelle di un “Nietzsche epurato”?
Soprattutto, non è questo ciò che porta a rivelare ciò che Nietzsche ha intravisto come futuro dell’Occidente e come sua più grande prossima fase? C’è da chiedersi perché non ci sia stata una riflessione filosofica seria su questi temi e su altri del tutto analoghi. Perché Heidegger non si è mai soffermato su questi due aforismi? Probabilmente, tutta l’interpretazione di Heidegger di Nietzsche è da ripensare a partire da considerazioni del genere.

F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, in Opere di Friedrich Nietzsche, volume VI, tomo II, Adelphi, Milano 1976, pp. 66-70.