Umanesimo

Heidegger rileva come la fine dell’umanesimo non debba aprire, automaticamente, a qualcosa di inumano.
Più sottilmente, Nietzsche aveva aperto a una diversa possibilità: la possibilità per cui la soppressione di esseri umani (o di individui di quel tipo che noi, a tutti i costi, vogliamo sempre chiamare “esseri umani”) non debba più incidere su qualunque concetto riguardante l’“umano”; bensì possa diventare una cosa su cui non valga la pena riflettere. Dov’è l’antiumano in questa possibilità? Infatti, tutto dipende da ciò che si chiama “essere umano”.

M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, p. 81: «Che l’opposizione all’“umanismo” non implichi affatto la difesa dell’inumano, ma apra altre prospettive, dovrebbe essere ora un po’ più chiaro.» (p. 81).

Chi parla?

Losurdo: «Come sappiamo, in Nietzsche il richiamo alla grecità autentica, pensata in contrapposizione anche con la romanità, cede progressivamente il posto al richiamo al mondo greco-romano nel suo complesso, travolto dalla sovversione ebraico-cristiana. È per questo che, sul finire della seconda guerra mondiale, Heidegger rimprovera al filosofo di essersi ispirato non già alla Grecia bensì a Roma. E la celebrazione della prima in contrapposizione alla seconda è ben presente anche in intellettuali e personalità più direttamente legati al nazismo. Non così in Hitler, che bolla il cristianesimo in quanto responsabile della “fine di un lungo regno, quello del luminoso genio greco-latino”. Roma è tutt’altro che sinonimo di decadenza: “L’impero romano non ha mai avuto l’eguale. Essere riusciti a dominare completamente il mondo! E nessun impero ha diffuso la civiltà come quello”. In questo senso ha ragione lo Heidegger che comincia a prendere le distanze dal Terzo Reich a rimproverare congiuntamente al nazismo e a Nietzsche di essersi lasciati affascinare dall’opzione romana.» (D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 845-6.)
È proprio da constatazioni del genere che si può pensare alla possibilità di una storia razziale del pensiero. Così come Cacciari pensava a una geofilosofia.
La Lettera sull’«umanismo» di Heidegger, stesa nel 1946 per motivi quasi occasionali,  è un bilancio del suo pensiero. Il punto di partenza è l’umanismo, che si caratterizza proprio a partire da Roma, e dalla distanza che Heidegger prende nei confronti della romanità: «È al tempo della Repubblica romana che l’humanitas viene per la prima volta pensata e ambita esplicitamente con questo nome. L’homo humanus si oppone all’homo barbarus. L’homo humanus è qui il Romano che eleva e nobilita la virtus romana attraverso l’“incorporazione” della paideia assunta dai Greci. I Greci sono i Greci della tarda grecità, la cui cultura era insegnata nelle scuole filosofiche. Essa riguarda la eruditio et institutio in bonas artes. La paideia così intesa viene tradotta con “humanitas”. L’autentica romanitas dell’homo romanus consiste in tale humanitas. A Roma incontriamo il primo umanismo. Nella sua essenza, quindi, l’umanismo resta un fenomeno specificamente romano, che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cosiddetto Rinascimento del XIV e del XV secolo in Italia è una renascentia romanitatis. […] All’umanismo storicamente inteso appartiene perciò sempre uno studium humanitatis, che attinge in un determinato modo all’antichità, diventando così di volta in volta anche una ripresa della grecità. Ciò si vede da noi nell’umanismo del XVIII secolo sostenuto da Winckelmann, Goethe e Schiller. Hölderlin, invece, non appartiene a questo “umanismo”, perché pensa il destino dell’essenza dell’uomo in modo più iniziale di quanto non possa fare questo “umanismo”.» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, pp. 41-2).
Franco Volpi: «La retorica del mito tedesco lo risucchiò [il problema dell’umanesimo] nell’orizzonte della contrapposizione tra la germanità, che rivendicava un primato culturale e, sul piano filosofico, un rapporto originario con la grecità, e la romanità latina, considerata “secondaria”, al pari dell’Umanesimo e del Rinascimento che ne dipendevano.» (Nota introduttiva, in M. Heidegger, cit., p. 23). Da notare quello che lo stesso dice in nota: «Se e in quale misura anche Heidegger cavalcasse il motivo di questa contrapposizione sviluppandola soprattutto sulla scorta della propria interpretazione di Hölderlin, è una questione che richiede un giudizio articolato e prudente.» (nota 2, p. 23).
In questo campo le ricerche di Faye sono benvenute. Ma bisognerebbe anche affrontare attentamente la posizione di Heidegger nei confronti della romanità e dell’Italia.
È importante mettere in campo il discorso sulla razza in filosofia. È il modo più veloce per arrivare alla domanda: “Chi parla?”

Su Farías e Faye

In merito alle teorie di Víctor Farías ed Emmanuel Faye: il significato delle loro ricerche cambierebbe notevolmente se il nazismo non venisse più inteso come il male assoluto; un male assoluto con il quale non si può avere a che fare senza compromettersi per sempre. Al contrario, il significato di Heidegger, così come quello di Nietzsche, verrebbe approfondito se si riconoscesse la possibilità di un pensiero che indaga ciò che deve ancora venire; cioè un nuovo modo di pensare – non come fatto eccentrico, ma come destino. Nel caso di Heidegger, questo avrebbe potuto succedere anche grazie al nazismo; ma è allora implicito che il nazismo stesso doveva contenere delle caratteristiche tali da spingere la comparsa di un pensiero del genere. La stessa cosa si può affermare per la ricerca di Domenico Losurdo nei confronti dei rapporti tra Nietzsche e il pensiero reazionario. Fino a che punto un pensiero può essere indipendente dalle mille sfumature di una modernità? Tanto il pensiero reazionario quanto il nazismo hanno posto alcune premesse che hanno costituito le basi per la formazione del pensiero di Nietzsche e per quello di Heidegger. Chi può dire che escludendo l’influsso del nazismo su Heidegger non si impedisca un approfondimento del suo pensiero?
È fondamentale confrontarsi con il fatto che tanto Nietzsche quanto Heidegger abbiano trovato spunti per il loro pensiero con le massime vertigini del pensiero reazionario. In pratica adesso si nega in modo assoluto che il pensiero reazionario e soprattutto il nazismo abbiano potuto creare un pensiero geniale come quello di Nietzsche o di Heidegger, e si cercano tutte le strade possibili per negare influssi del genere. Ma accettare tali influssi senza spaventarsene aprirebbe un nuovo campo alla conoscenza di questi autori.
Così la modernità sarebbe allora a un passo…

Il mago

La mia vita in Germania prima e dopo il 1933 di Karl Löwith contiene un curioso ritratto di Heidegger: «Tra di noi Heidegger era soprannominato “il mago di Meßkirch” … Era un piccolo grande uomo misterioso, un sapiente incantatore, capace di far sparire dinanzi agli astanti quel che aveva appena mostrato. La sua tecnica espositiva consisteva nel costruire un edificio concettuale che poi lui stesso demoliva per porre l’ansioso ascoltatore dinanzi a un enigma e lasciarlo sospeso nel vuoto […] La sua conoscenza era sconfinata quanto la diffidenza dalla quale essa scaturiva. Il frutto di questa diffidenza era una critica magistrale di tutto ciò che della tradizione restava ancora in piedi. […] Intanto egli stesso sorvegliava sospettoso le entrate e le uscite della sua tana di volpe, nella quale tuttavia non si trovava affatto a suo agio …» (cit. in Antonio Gnoli e Franco Volpi, L’ultimo sciamano. Conversazioni su Heidegger, Bompiani, Milano 2006, p. 7).
Che cosa se ne può dedurre?
L’esposizione di Heidegger tendeva a creare un edificio concettuale che subito dopo egli stesso demoliva. In questo consisteva la tecnica di Heidegger come «sapiente incantatore», vale a dire di Heidegger in quanto “mago”.
Egli aveva una forte diffidenza nei riguardi della tradizione, che lo portava a porre quelle domande che di solito, fino ad allora, a nessuno era mai venuto in mente di porre.
Egli stesso non si trovava a suo agio nel proprio pensiero e ne frugava con ansia la struttura, alla ricerca di una possibile via di uscita, se mai ce ne fosse stato bisogno.
Questo ritratto restituisce a Heidegger qualcosa di nietzscheano. Heidegger vi appare come un distruttore del discorso filosofico in una misura analoga a quanto lo è stato Nietzsche.
Quindi: il pensiero tradizionale del passato viene visto come un territorio estraneo nel quale è difficile abitare; un pensiero del tutto nuovo deve isolarsi da quello del passato, per stabilire, faticosamente, la propria fisionomia.

Sporcizia razziale

Nietzsche in una lettera del 2 gennaio 1886 a Bernhard Förster ed Elisabeth Förster-Nietzsche a proposito del progetto di fondazione di una colonia tedesca in Paraguay nel quale i due destinatari erano impegnati: «Da parte svizzera sono stato indotto a pensare che i numerosi, quasi sistematici fallimenti delle colonie tedesche o svizzere negli stati attorno a La Plata abbiano origine nel mescolamento delle nazionalità, vale a dire nella vita promiscua di elementi tedeschi e latini. Non si riesce ad avere un sentimento patrio, la sensazione di una casa, se si ha nelle immediate vicinanze la sporcizia italiana ecc.»
Raramente Nietzsche affronta la questione della casa, dell’abitare sereno nella propria terra. La sua filosofia si è andata costruendo pezzo per pezzo lontano da una “casa”. Per questo essa deve essere sempre affrontata come complementare a quella di Heidegger – e viceversa. Tuttavia, nel brano citato centra perfettamente la questione.
L’Europa non deve ricostituirsi in una nuova sede geografica o inglobando in sé elementi non europei, ma deve riconoscersi scacciando da sé la sporcizia razziale.
(Ma il Nord aspetta ancora il suo filosofo, e il Sud il suo boia!)

F. Nietzsche, Epistolario . Volume V, Adelphi, Milano 2011, p. 136.