Postille di Umberto Eco

Qualche artista ama nascondersi dietro una filosofia della composizione. Borges lo aveva segnalato. Prendere sul serio ciò che si nasconde in una “filosofia della composizione” può delineare tanto un abborracciatore di parole quanto una malafede.
Ultimi due capoversi delle Postille a “Il nome della rosa” (1983) di Umberto Eco: «Pare che il gruppo dell’Oulipo abbia recentemente costruito una matrice di tutte le possibili situazioni poliziesche e abbia trovato che rimane da scrivere un libro in cui l’assassino sia il lettore. | Morale: esistono idee ossessive, non sono mai personali, i libri si parlano tra loro, e una vera indagine poliziesca deve provare che i colpevoli siamo noi.»
Se lo spirito della narrativa di Umberto Eco consistesse nel tentativo di rispondere a questa sfida: creare dei gialli dove il colpevole risulti essere il lettore?
Umberto Eco ha scritto un solo romanzo accostabile al genere del romanzo giallo, Il nome della rosa, ma in tutta la sua narrativa è presente il mistero in quanto elemento principale per tenere avvinto il lettore. Allora sarebbe una questione di dinamica.
Nelle Postille Eco dice che da sempre il romanzo giallo ha scoperto la colpevolezza del lettore. Ma perché Umberto Eco avrebbe avuto bisogno di fare tutto quel giro per dire quello che già la letteratura poliziesca diceva da sempre?
Nel paragrafo 12 delle Postille, “Il post-moderno, l’ironia, il piacevole”, le Postille offrono una lettura semplificata della narrativa postmoderna. Fin troppo semplificata.
Nel decimo paragrafo, quindi due paragrafi prima, si discute su “La metafisica poliziesca”, che viene così riassunta: «In fondo la domanda base della filosofia (come quella della psicoanalisi) è la stessa del romanzo poliziesco: di chi è la colpa? Per saperlo (per credere di saperlo) bisogna congetturare che tutti i fatti abbiano una logica, la logica che ha imposto loro il colpevole. Ogni storia di indagine e di congettura ci racconta qualcosa presso a cui abitiamo da sempre (citazione pseudo-heideggeriana).»
Allora la metafisica poliziesca funzionerebbe come una presa di coscienza della propria situazione: si viene di colpo a sapere quello di cui non si aveva coscienza di sapere.
Nel romanzo successivo al Nome (che è del 1980), Il pendolo di Foucault (1988), Eco introduce il tema del complotto, che tornerà nel suo ultimo romanzo, Numero zero (2015).
Il complotto è un elemento importante nei romanzi di Thomas Pynchon. Non considerato nelle Postille (1983), insisterà nella narrativa di Eco.
Tutto bene se non fosse che il complotto chiama il tema della paranoia.
Non è l’unico fatto curioso. Nelle Postille Eco insiste sul carattere leggero della narrativa postmoderna. Il postmoderno sarebbe la restaurazione dell’innocenza dell’intreccio e del piacere di leggere seguendo una trama. Sicuro che i romanzi di Thomas Pynchon o di John Barth siano così facili da leggere, da seguire, da trovare divertenti?
La riduzione del postmoderno operata qui da Eco apre ad altre riduzioni possibili: Calvino prima di tutto, Margherita Ganeri (Postmodernismo), Tondelli (Un weekend postmoderno). Tuttavia, Eco è il solo a perseguire una estetica tanto sbagliata (proprio perché in malafede) quanto conseguente.
Il nono paragrafo, quello che precede “La metafisica poliziesca”, riguarda la costruzione del lettore, vale a dire il tipo di lettore a cui Il nome della rosa dovrebbe dare vita. Questo lettore, anche se non viene esplicitamente detto, è un lettore disposto a prendere coscienza con una colpa che già lo occupava.
Ma questo lettore non deve essere sconcertato lungo il percorso di questa presa di coscienza. Tutt’altro. Il lettore di Umberto Eco deve essere il destinatario del dono della semplicità dell’innocenza. Anche se l’ingresso nel romanzo lo ha stancato (come accade con le prime cento pagine del Nome), una volta installatosi lì dentro non deve più avere dubbi.
Ma Eco non semplifica solo a livello di interpretazione, ma anche a livello pratico.
Che cosa sono i complotti che strisciano nei suoi romanzi a fianco di quelli i cui contorni sembrano illuminarsi nei romanzi di Pynchon? In Pynchon tutto rimane sempre aperto a livello di possibilità; in Eco tutto è sempre sotto la chiarezza di una lampada che illumina quanto innervosisce, come negli interrogatori di polizia che si vedono al cinema. E infatti Il nome della rosa è un ibrido che va tanto bene per il cinema.
Ma fuori dal cinema il risultato non cambia: troppa luce oscura; ciò che deve restare nell’oscurità va affrontato giocando semmai con l’oscurità.
Si confronti il modo di girare intorno al tema della paranoia che si ha ne L’incanto del lotto 49 e ne Il pendolo di Foucault: in Pynchon è richiamo all’inquietante, in Eco connivenza con un potere di repressione.
È proprio la differenza tra i personaggi a nascondere lo stralcio di qualcosa. Il personaggio è solo lo straccio di qualcosa.
Si potrebbe dire che il personaggio di Pynchon è teso verso una nuova forma (che lo redima); il personaggio di Eco è volto al passato (che niente può redimere). Ma anche così non funziona.
Lo strutturalismo ha formulato un principio che stazionava da tempo nell’aria della rarefatta cultura occidentale: non è l’essere umano a parlare ma è il linguaggio, oppure i miti, a parlare tra loro attraverso gli esseri umani. Questo semplicissimo principio della cultura occidentale moderna non è ancora stato acquisito dalla narrativa occidentale moderna.
Eco tende infatti a rendere cosciente il suo lettore, cioè il lettore che si è ingegnato a creare attraverso la sua narrativa – e che a questo punto dovrebbe capire di quale imbroglio sia vittima, altrimenti peggio per lui.
C’è un punto rivelatore nelle Postille, questo: «[…] Marco Ferreri una volta mi ha detto che i miei dialoghi sono cinematografici perché durano il tempo giusto. Per forza, quando due dei miei personaggi parlavano andando dal refettorio al chiostro, io scrivevo con la pianta sott’occhio, e quando erano arrivati smettevano di parlare.» Non è un caso che l’osservazione provenga da un regista cinematografico, che ha a che fare con uno spazio fisso, un set, costruito in base alle sue esigenze, ma secondo le leggi della geometria cartesiana, Nel romanzo lo spazio è diverso perché è costruito secondo leggi di un’altra geometria. I movimenti dei personaggi sono torsioni topologiche. Perché Eco rinuncia a questa grande libertà offerta al romanzo dal suo stesso mezzo artistico a favore della rigidità di un costruzione fissa? Tutto sta nel comprendere quello che in cambio ci guadagna.
Ma dov’è la differenza? Nel fatto che i personaggi del romanzo, quando camminano, a volte camminano all’indietro.
Un romanziere non costruisce niente, né personaggio né spazio.
Diffidare dello scrittore che vuole illuminare il lettore. Il vero scrittore vuole scrivere in modo da far saltare il cervello al suo lettore. Ombra chiama ombra che disillumini; la solitudine chiede solo al tempo di diventare spazio, dopo essere stata vittima di tempo e di spazio.
Ma è certo che la cultura diventa valle d’eco dove tutte le voci risuonano, preannunciando Fusaro. Infatti la cultura moderna si determina come ciò che non ha voce, ma soltanto eco. A questo punto è chiaro perché la narrativa di Eco funzioni come dei gialli dove il colpevole è sempre il lettore, avendo giocato a calarlo nella storia, le cui manchevolezze gli possono venire rinfacciate.

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