Limiti del romanzo

Forma estrema del romanzo, sempre possibile: “Romanzo senza parole”.
Alternativa: «Tutti i materiali della nostra vita sono materiali di cui possiamo fare ciò che vogliamo. Chi ha molto spirito fa molto della sua vita. Ogni conoscenza, ogni avvenimento, per chi è completamente spirituale, costituirebbe il primo elemento di una serie infinita, l’inizio di un romanzo infinito.» (Novalis, Polline, 66, in Id., Opera filosofica. I, traduzione di Giampiero Moretti, Einaudi 1993, p. 383.)
Abilità: Scrivere un romanzo eliminando trama e personaggi.
I libri devono fare a meno del lettore: devono essere posti in modo da leggersi e parlarsi esclusivamente fra di loro. Il libro deve così tendere a una fraterna forma nucleare, volta a sfiorare la totale illeggibilità. Si ha letteratura solo quando il desiderio di uccidere la lingua ha trovato un modo fra i tanti ufficiale di manifestarsi.
Certamente, la letteratura offre opportunità a colui che sbircia la possibilità di guadagnarsi da vivere continuando a scribacchiare storie – in quanto scrittore. È lo scrittore fatto mestierante, che realizza il dominio tecnologico dell’arte nefasta di scrivere; ma la letteratura accoglie pure la possibilità dello scrittore che niente sa di ciò che scrive. Con lo scrittore avviene come col pensatore: non capisce ciò che fa, meno ancora gliene importa qualcosa; è ciò che di estraneo egli immette nell’opera che permette di ricreare continuamente, in forme diverse, quello che egli per primo ha pensato, tornando sempre a fissare.
Quello che Foucault non ha considerato nell’articolo Che cos’è un autore?: l’Autore è il Lettore ideale del libro che pure alla fine egli ha scritto, quindi è il lettore ideale del libro che, da sempre, egli avrebbe voluto leggere anziché scrivere. Si scrive solo per leggere la propria opera; non per essere autore, ma per diventare ideale e perfetto lettore di un libro che si configura sulla base di un traguardo di illeggibilità. Altrimenti si è soltanto scrittori di professione.
Giorgio Manganelli aveva fissato la letteratura “come menzogna”. Andava bene. Se consideriamo la letteratura come menzogna, possiamo vedere lo scrittore impegnato nella questione della verità come ciò con cui meno che mai ci si può porre in dialogo. O che spreca il suo tempo insieme al talento suo. Prendiamo Pasolini. Il guaio di Pasolini è che era un finocchietto, per cui non si può dire qualcosa su Pasolini senza dire che era un finocchietto; anzi, ad essere precisi senza dire che era un finocchietto italiano. Ma parlare del finocchietto italiano Pasolini è proprio quello che non si può fare. Così non si parla del finocchietto Pasolini e non si capisce che l’unico modo di parlare di Pasolini non è altro che quello di parlare del finocchietto Pasolini. Parlare del finocchietto Pasolini, è parlare del meticcio italiano. E qui ritorniamo daccapo. Fermo restando che parlare del finocchietto Pasolini non è parlare dei finocchi: né in bene né in male, deve essere chiaro. Concludo ribadendo che Pasolini era un finocchietto italiano.

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