Antisemitismo in Nietzsche

La questione non è se Nietzsche fosse o no antisemita, bensì che il suo pensiero nega uguali diritti per tutti, e che, alla ragione dialettica del plebeo, Nietzsche contrappone il comando dell’aristocratico.
Il pensiero di Nietzsche è il primo esempio di un pensiero autenticamente antidemocratico.
In tutto il tempo della sua manifestazione, questo pensiero è sempre stato qualcosa che non ha fatto che urtare la nostra certezza relativa all’esistenza di un qualcosa di simile al pensiero. Ed è quanto tale pensiero fa ancora attualmente. Questo perché per noi il pensiero è la manifestazione per eccellenza di tutto ciò che è democratico; ma questo soprattutto perché il pensiero di Nietzsche è il pensiero che mette fine a ciò che noi abbiamo sempre ritenuto “pensiero”. E quindi ritenuto degno di essere classificato come pensiero. Sconfinando al di là del pensiero, questo pensiero non può che essere accolto come estremamente ambiguo da quanti non riescono a cogliere questo sconfinamento come suo dato fondamentale, e quindi a coglierne la novità proprio in questo sconfinamento. Ma nel momento in cui si sarà accolto il pensiero di Nietzsche come “nuova fase del pensiero”, allora tutto il pensiero potrà finalmente passare al di là di un certo limite. O forse si troverà una parola più adeguata per esprimere ciò che per noi, fino a quel momento, non poteva che essere espresso con la vecchia parola “pensiero”.
(A proposito di Nietzsche e gli ebrei, antologia a cura di Vivetta Vivarelli, Giuntina, Firenze 2011.)

Schiavi

La teoria di Heidegger che vede nel pensiero di Nietzsche il compimento della metafisica in quanto padroneggiamento assoluto del mondo non tiene conto di ciò che Nietzsche riteneva indispensabile per lo sviluppo di una civiltà: la presenza di uno strato di schiavi e, nel caso particolare intravisto da Nietzsche, la necessità di prevedere la creazione di una nuova schiavitù. Senza la presenza di una nuova schiavitù il raggiungimento del completo dominio tecnico del mondo non è sufficiente; non solo: tale dominio puramente tecnico del mondo rischia di ricadere su se stesso. Da questo punto di vista, la deriva estetico-dannunziana, variamente aggiunta alla figura del superuomo, è assolutamente non pertinente, ma per un motivo ben diverso da quello comunemente accettato: il richiamo alla necessità della schiavitù non implica una tale deriva. Essa tuttavia segna il tonfo burlesco di una tale ricaduta. Segno che è un insegnamento. La cecità su ciò che in Nietzsche riguarda la nuova schiavitù può così condurre alla messa a punto della rappresentazione di una attività compulsiva e cieca nei confronti del dominio del mondo, che è quanto Heidegger riconosce nell’operaio di Jünger. A sua volta Jünger non medita sulla necessità di una nuova schiavitù. Nietzsche può arrivare a un nuovo pensiero andando coerentemente oltre il cristianesimo: Nietzsche aveva infatti compreso che lo strappo con il cristianesimo doveva comportare l’accettazione del ragionamento intorno all’arrivo, ineludibile, di una nuova schiavitù. Perché la schiavitù è il fondamento di qualsiasi civiltà. Fatto che avrebbe comportato la messa a punto di un nuovo sistema di organizzazione del mondo basato sulla schiavizzazione di una parte degli abitanti del mondo. Nessun altro pensatore si è posto al di là del cristianesimo attraverso una tale prospettiva. Al contrario, quando la possibilità di una schiavizzazione è stata riproposta questa si è presentata con i tratti caricaturali di una estetizzazione, cioè con i tratti di chi è rimasto prigioniero di una visione che non poteva prevedere realisticamente il ritorno di una cosa così compromessa con la storicità cristiana come la schiavitù. E si è scelto così la caricatura al posto della previsione, della utopia, della narrazione.
Bisogna prima di tutto comprendere che l’epoca del superuomo sarà l’epoca della completa realizzazione del nichilismo.

Umanesimo

Heidegger rileva come la fine dell’umanesimo non debba aprire, automaticamente, a qualcosa di inumano.
Più sottilmente, Nietzsche aveva aperto a una diversa possibilità: la possibilità per cui la soppressione di esseri umani (o di individui di quel tipo che noi, a tutti i costi, vogliamo sempre chiamare “esseri umani”) non debba più incidere su qualunque concetto riguardante l’“umano”; bensì possa diventare una cosa su cui non valga la pena riflettere. Dov’è l’antiumano in questa possibilità? Infatti, tutto dipende da ciò che si chiama “essere umano”.

M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, p. 81: «Che l’opposizione all’“umanismo” non implichi affatto la difesa dell’inumano, ma apra altre prospettive, dovrebbe essere ora un po’ più chiaro.» (p. 81).

Chi parla?

Losurdo: «Come sappiamo, in Nietzsche il richiamo alla grecità autentica, pensata in contrapposizione anche con la romanità, cede progressivamente il posto al richiamo al mondo greco-romano nel suo complesso, travolto dalla sovversione ebraico-cristiana. È per questo che, sul finire della seconda guerra mondiale, Heidegger rimprovera al filosofo di essersi ispirato non già alla Grecia bensì a Roma. E la celebrazione della prima in contrapposizione alla seconda è ben presente anche in intellettuali e personalità più direttamente legati al nazismo. Non così in Hitler, che bolla il cristianesimo in quanto responsabile della “fine di un lungo regno, quello del luminoso genio greco-latino”. Roma è tutt’altro che sinonimo di decadenza: “L’impero romano non ha mai avuto l’eguale. Essere riusciti a dominare completamente il mondo! E nessun impero ha diffuso la civiltà come quello”. In questo senso ha ragione lo Heidegger che comincia a prendere le distanze dal Terzo Reich a rimproverare congiuntamente al nazismo e a Nietzsche di essersi lasciati affascinare dall’opzione romana.» (D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pp. 845-6.)
È proprio da constatazioni del genere che si può pensare alla possibilità di una storia razziale del pensiero. Così come Cacciari pensava a una geofilosofia.
La Lettera sull’«umanismo» di Heidegger, stesa nel 1946 per motivi quasi occasionali,  è un bilancio del suo pensiero. Il punto di partenza è l’umanismo, che si caratterizza proprio a partire da Roma, e dalla distanza che Heidegger prende nei confronti della romanità: «È al tempo della Repubblica romana che l’humanitas viene per la prima volta pensata e ambita esplicitamente con questo nome. L’homo humanus si oppone all’homo barbarus. L’homo humanus è qui il Romano che eleva e nobilita la virtus romana attraverso l’“incorporazione” della paideia assunta dai Greci. I Greci sono i Greci della tarda grecità, la cui cultura era insegnata nelle scuole filosofiche. Essa riguarda la eruditio et institutio in bonas artes. La paideia così intesa viene tradotta con “humanitas”. L’autentica romanitas dell’homo romanus consiste in tale humanitas. A Roma incontriamo il primo umanismo. Nella sua essenza, quindi, l’umanismo resta un fenomeno specificamente romano, che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cosiddetto Rinascimento del XIV e del XV secolo in Italia è una renascentia romanitatis. […] All’umanismo storicamente inteso appartiene perciò sempre uno studium humanitatis, che attinge in un determinato modo all’antichità, diventando così di volta in volta anche una ripresa della grecità. Ciò si vede da noi nell’umanismo del XVIII secolo sostenuto da Winckelmann, Goethe e Schiller. Hölderlin, invece, non appartiene a questo “umanismo”, perché pensa il destino dell’essenza dell’uomo in modo più iniziale di quanto non possa fare questo “umanismo”.» (M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, Milano 1995, pp. 41-2).
Franco Volpi: «La retorica del mito tedesco lo risucchiò [il problema dell’umanesimo] nell’orizzonte della contrapposizione tra la germanità, che rivendicava un primato culturale e, sul piano filosofico, un rapporto originario con la grecità, e la romanità latina, considerata “secondaria”, al pari dell’Umanesimo e del Rinascimento che ne dipendevano.» (Nota introduttiva, in M. Heidegger, cit., p. 23). Da notare quello che lo stesso dice in nota: «Se e in quale misura anche Heidegger cavalcasse il motivo di questa contrapposizione sviluppandola soprattutto sulla scorta della propria interpretazione di Hölderlin, è una questione che richiede un giudizio articolato e prudente.» (nota 2, p. 23).
In questo campo le ricerche di Faye sono benvenute. Ma bisognerebbe anche affrontare attentamente la posizione di Heidegger nei confronti della romanità e dell’Italia.
È importante mettere in campo il discorso sulla razza in filosofia. È il modo più veloce per arrivare alla domanda: “Chi parla?”

Su Farías e Faye

In merito alle teorie di Víctor Farías ed Emmanuel Faye: il significato delle loro ricerche cambierebbe notevolmente se il nazismo non venisse più inteso come il male assoluto; un male assoluto con il quale non si può avere a che fare senza compromettersi per sempre. Al contrario, il significato di Heidegger, così come quello di Nietzsche, verrebbe approfondito se si riconoscesse la possibilità di un pensiero che indaga ciò che deve ancora venire; cioè un nuovo modo di pensare – non come fatto eccentrico, ma come destino. Nel caso di Heidegger, questo avrebbe potuto succedere anche grazie al nazismo; ma è allora implicito che il nazismo stesso doveva contenere delle caratteristiche tali da spingere la comparsa di un pensiero del genere. La stessa cosa si può affermare per la ricerca di Domenico Losurdo nei confronti dei rapporti tra Nietzsche e il pensiero reazionario. Fino a che punto un pensiero può essere indipendente dalle mille sfumature di una modernità? Tanto il pensiero reazionario quanto il nazismo hanno posto alcune premesse che hanno costituito le basi per la formazione del pensiero di Nietzsche e per quello di Heidegger. Chi può dire che escludendo l’influsso del nazismo su Heidegger non si impedisca un approfondimento del suo pensiero?
È fondamentale confrontarsi con il fatto che tanto Nietzsche quanto Heidegger abbiano trovato spunti per il loro pensiero con le massime vertigini del pensiero reazionario. In pratica adesso si nega in modo assoluto che il pensiero reazionario e soprattutto il nazismo abbiano potuto creare un pensiero geniale come quello di Nietzsche o di Heidegger, e si cercano tutte le strade possibili per negare influssi del genere. Ma accettare tali influssi senza spaventarsene aprirebbe un nuovo campo alla conoscenza di questi autori.
Così la modernità sarebbe allora a un passo…