Danilo Kiš, Enciclopedia dei morti

Enciclopedia dei morti (1983), dello scrittore “jugoslavo” Danilo Kiš, è una raccolta di nove racconti in cui manca, programmaticamente, qualunque brivido metafisico, brivido spesso presente nei racconti di Borges, intendo nei suoi migliori racconti, pienamente presente nel racconto La biblioteca di Babele (1941), racconto certamente presente a DK nella stesura del suo racconto L’Enciclopedia dei morti, presente in quella raccolta. La mancanza del brivido metafisico è trovare la grigia realtà dove invece doveva esserci il sublime, anche se il sublime come esperienza del terrore. Ho sempre pensato che il racconto di Borges derivi da uno dei migliori racconti di Lovecraft, L’ombra calata dal tempo (The Shadow Out of Time), scritto tra il novembre 1934 e il febbraio 1935 e pubblicato nel 1936. In questo racconto di Lovecraft, come negli altri suoi migliori, c’è il brivido di un tempo colto come tempo che non può essere misurato con gli strumenti maneggiati dagli umani, perché non appartiene al tempo umano, bensì esposto, logicamente, alla piena estraneità di quella esperienza, e che per questo porta il brivido. Che cosa presenta, invece, qui il colto racconto di Kiš? soltanto la biografia di una persona qualunque, nella cornice metafisica di un racconto che rimanda soltanto al racconto di Borges in quanto rimando colto affidato all’ombra della persona qualunque che legge la lettura di una notte qualunque a Stoccolma, ad una luce molto incerta, molto oltre l’orario di apertura della biblioteca, di un libro incatenato allo scaffale. Questa tecnica (se si può parlare di tecnica) si ritrova poi ripetuta nel racconto finale.

Di sicuro Borges conosceva – e, a suo modo, stimava – l’inimitabile arte di Lovecraft, come dimostra il suo racconto There Are More Things del 1975, inserito nella raccolta Il libro di sabbia.

Torniamo a Kiš. Colleghiamo l’ultimo racconto, I francobolli rossi con l’effigie di Lenin, al racconto l’Enciclopedia dei morti, presente nella stessa raccolta: il tema comune è la storia banale che non può essere fatta oggetto di racconto alcuno, conducendo esso solo ad una più che mediocre narrazione, a causa della banalità, ma che, tramite uno spicciolo di stratagemma, può essere proposta come cosa che vale ancora la pena raccontare ancora volta per volta. I due racconti hanno tratti comuni: sono in forma di lettere redatte da donne: una figlia che vuole ricordare il padre preservandone i tratti suoi più banali, indifferenti, comuni, di vita comunque qualunque di lui; una donna che ricorda l’amante, un grande poeta, poi coinvolto nell’ala turbinosa della dissidenza sovietica, infine vittima di quel potere, volta a preservare la mediocrità di tante parole scambiate dalla ineluttabilità della critica letteraria occidentale; in entrambi i casi, il racconto, ridotto al suo nucleo, non dice niente, perché non c’è niente da dire, ma solo la cornice, in cui esso viene posto a gravitare, è in grado di garantire, di volta in volta, la parvenza di un nuovo contenuto, e quindi a riproporlo.

Bisogna distinguere sempre l’arte dello scrittore di razza bianca, che oltrepassa i limiti della forma che trova all’inizio della propria attività, come ciò che gli viene consegnato per ottenere una forma assolutamente diversa, che è però la piena realizzazione di quello che egli aveva ottenuto, dalla falsa arte (che è arte degenerata, e quindi ciò che non va assolutamente da nessuna parte) del meticcio, che è sempre ciò che è per razza, cioè solo un meticcio, che è lì perché sta lì, così come, in alcuni casi, va via da lì. Ma non vi sembra che questa frase «Nelle vaste biblioteche che essi avevano accumulato c’erano testi e raccolte d’immagini in cui erano compendiati gli annali della terra: storia e descrizione di tutte le specie che erano o sarebbero esistite, con la loro arte, scienza, lingua e psicologia.» (H.P. Lovecraft, In Id. Edizione annotata H.P. Lovecraft, a cura di Leslie S. Klinger, Mondadori 2022, traduzione di Giuseppe Lippi, pp. 982-83) sia calata dal tempo di Lovecraft a Providence dritta addosso al tempo impettito di Borges a Buenos Aires? Dico che, per quello che mi riguarda, il vero obiettivo è sempre la mentalità del meticcio.

Sulla stessa linea, da precisare non è la comparsa dei Protocolli (racconto dal titolo Il libo dei re e degli sciocchi della raccolta) nel mondo, ma la stupidità, che ha fatto sì che quelle cose apparissero tutte come degne di attenzione. Quello che invece deve essere affrontato è la semplicità, che riguarda ciò che non può più essere ritenuto in quanto tale, cioè il fatto che non si possa discutere di ciò che ha diritto di vivere, dividendolo da ciò che invece deve essere soppresso. Perché, allora, stupirsi dei campi di sterminio, quando si ha solo a che fare con “cose” – cioè cose che sono state, cioè semplicemente eliminate, congedate, tolte dickianamente dalla falsa circolazione imposta dai falsari?

L’interpretazione del mondo, che coinvolge il racconto dedicato allo gnostico Simone il Mago, così come il racconto dedicato alla formazione del testo conosciuto come Protocolli dei Savi anziani di Sion, è ciò che le parole, comunemente riservate per la rappresentazione del mondo, non valgono più, che è quello che accomuna il racconto sulla Enciclopedia a quello sui Francobolli con l’effigie di Lenin. DK avrebbe dovuto considerare, che, ciò che fa lo scrittore, è selezionare le tante parole che gli si presentano a disposizione, fra tutte le parole del mondo, che è invece ciò che non ha fatto, creando così quest’opera effimera, dove non può che mancare il richiamo alla razza. Il meticcio deve sapere di essere di un tipo di razza che non è razza, perché è antirazza. Questo è ciò che dimostra l’arte del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio: Stefano Jossa ha giustamente definito lo stile del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio come stile del “superuomo umile”, che però deve essere distinto dal “grande stile” di Nietzsche, che è ciò che riguarda la differenza tra lingua e parola.

Essere chi scrive è, in ogni caso, essere signore delle tante parole giunte anche, per caso qualunque, a sua disposizione; ma sta sempre a chi legge, ricomporre poi il testo che gli è capitato di leggere, anche se solo per un caso qualunque, perché lì sta la differenza.

Danilo Kiš, Enciclopedia dei morti, traduzione di Lionello Costantini, Adelphi 2001.

Philip K. Dick, L’uomo nell’alto castello

I molti mondi di PKD

Quello che, da parte di Philip K. Dick, può essere ricondotto alla teoria dei molti mondi riguarda la possibilità di una pluralità di mondi, oggettivamente organizzati da una mente divina, come si evince dal testo “Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro” (in Philip K. Dick, Mutazioni, conferenza del 1977 reperibile anche su You Tube), ma a beneficio di chi, possiamo adesso chiederci? – ora possiamo dire che PKD è stato tradito dal suo stile sempre trasandato, che ha fatto sì che non si guardasse giammai le spalle dai falsari orecchini di appena qualche Gide/25, come invece aveva fatto Lovecraft, scrittore a lui di gran lunga superiore – visto che PKD si è limitato a scrivere tanti spiccioli romanzetti idioti quanto spicciolamente democratici.

1. Dare forma al mondo

Modulare la scala di Dick Maggiore è modulare la scala di Dick (PKD) in modo maggiore rispetto a quanto da lui impostato, nonostante l’Esegesi (cioè la parte pubblicata da Pamela Jackson e Jonathan Letham con questo titolo), che è senz’altro la parte più alta da lui composta. Se un romanziere si limita a raccontare storie non fa che perdere tempo, evitando di fare il proprio mestiere. Il nazismo ha presentato la questione di dare forma al mondo, che è la questione che allaccia cosmogonia e cosmologia, cioè dare forma al mondo e pensare la forma che il mondo “potrebbe avere se…” – ma che è appunto la cosa che PKD non ha mai pensato, come si evince dal modo in cui egli ha posto il nazismo, quale vincitore della Seconda guerra mondiale, a base del suo romanzetto L’uomo nell’alto castello. PKD ha così intagliato un mondo di fantasia in cui il nazismo ha vinto la guerra, con la logica dell’arte dei nativi della Costa del Nord-Ovest, che forse aveva intravisto, senza avere mai pensato la possibilità di un mondo in cui il nazismo abbia davvero vinto la guerra, così come non aveva mai pensato un altro modo di vedere, poiché era solo uno scrittore mediocre, senza la bellezza che ha permesso a quei nativi americani di intagliare quello che adesso si vede solo nei musei etnologici dall’Alaska alla California e in Canada. Il tono di dare forma al mondo è ciò che apre al mondo, cioè alla comprensione del mondo in quanto unico mondo disponibile. Il romanzetto in questione si apre col modesto individuo Robert Childan quando apre il suo negozio, che è il migliore di quel settore, cioè il negozietto “Manufatti artistici americani”, specializzato in oggetti di antiquariato/modernariato ad uso quasi esclusivo di un pubblico giapponese, nella città di San Francisco, presente solo a causa della vittoria di Giappone, Italia (la maledetta Italia, come mi diverto sempre io a chiamarla, perché sempre quella è rimasta) e Germania dopo la Seconda guerra mondiale, che ha diviso il vecchio territorio degli Stati Uniti in due grandi zone a partire dalle Montagne Rocciose: zona occidentale sotto il governo del Giappone, zona orientale sotto il controllo della Germania. Il modesto e impacciato commerciante Robert Childan rappresenta il tentativo di composizione di questa frattura, perché cerca di essere in ottimi rapporti con i giapponesi, senza rinunciare alla sua origine americana – origine di cui egli sembra sempre, comunque, andare in cerca. Ma il meticciato è solo meticciato. Dare forma al mondo è il gioco che collega l’arte di Tolkien alla forma d’arte di PKD; mentre l’arte di dare forma al mondo è ciò che allontana questi due più che lontani scrittori. E infatti Tolkien ha salutato la vittoria sul nazismo, che sempre si è augurato, in un modo che, come dovrebbe sempre fare uno scrittore, chiama al pensiero, non decidendo: «[…] non sono del tutto sicuro che una vittoria americana a lunga scadenza si rivelerà migliore per il mondo nel suo complesso piuttosto della vittoria di –» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, traduzione di Cristina De Grandis, Bompiani, Milano 2001, p. 76). Il trattino di Tolkien indica appunto ciò che è da chiamare di nuovo, a partire dalla rovina che deve spingere alla nuova ripresa della battaglia, che sarà sempre la ripresa della battaglia per il mito. PKD scrive il suo malaugurato romanzetto interamente dopo la sconfitta del nazismo (prima edizione del romanzetto: 1962). Il nazismo ha cercato di dare forma al mondo. Dare forma al mondo comportava stabilire chi ha diritto di vivere e chi deve invece essere soppresso. La soppressione di zingari ed ebrei era solo il primo passo verso la composizione della nuova Europa, che era il vero compito del nazismo, compito che avrebbe comportato la soppressione del meticciato presente nella vecchia Europa, rappresentato dal meticciato slavo, di tipo mongolide, e dal meticciato latino, di tipo negro-semitoide, e la cui scomparsa avrebbe aperto al Nuovo inizio dell’Europa, cioè l’Europa della razza bianca, per cui il nazismo si poneva come ciò che era stato chiamato a restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa. Ma il nazismo ha rappresentato il pericolo, da parte di ciò che è umano, con l’incontro con il mito, che è appunto ciò che il nazismo presenta come ritorno del mito. E che gli umani non sono più in grado di avere a che fare. In questo romanzetto, PKD nasconde tanto questo pericolo quanto questo incontro, che è quello che vediamo come Hitler in quanto continuazione del mondo classico, e Himmler in quanto fautore del nuovo inizio, che deve riportare integralmente il mito nel mondo. È importante stabilire a questo punto il collegamento con Tolkien: il mondo viene dotato di forma, ma si stabilisce chi ha diritto di abitarlo e chi deve essere escluso, cioè soppresso. Gli Orchi sono le forme viventi che, nell’opera di Tolkien, devono essere soppresse. Ricordare come, secondo Tolkien, gli orchi sono stati ottenuti. «Gli orchi sono degenerazioni della forma umana degli elfi e degli uomini. Sono (o erano) tozzi, larghi, con il naso piatto, la pelle giallastra e bocche larghe e occhi obliqui: una versione in brutto dei tipi mongoli meno gradevoli a vedersi (per gli Europei).» (J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi, Milano 2001, lettera 210 a Forrest J. Ackerman, giugno 1958, p. 309). Giunge il momento in cui nella Terra di Mezzo compaiono gli Elfi. Melkor ne è al corrente e fa in modo di irretirli. Ne rende alcuni schiavi e, dopo vari tentativi, crea la razza degli Orchi: «Fu forse questa l’azione più abietta di Melkor, e la più odiosa a Ilúvatar.» (p. 55) e a p. 326 si dice: «[…] gli sconci Orchi che sono contraffazioni dei figli di Ilúvatar» (J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, a cura di Christopher Tolkien, traduzione di Francesco Saba Sardi, Rusconi, Milano 1986). La pura contraffazione della forma divina è ciò che lo gnosticismo riconosceva nella forma degli esseri ilici, che devono solo essere forme vuote destinate alla soppressione. Johan Chapoutot ha precisato l’importanza che le rovine avevano nella costruzione dei monumenti durante l’epoca nazista. «Da tutto questo si ricava l’impressione che ciò che importava a Hitler, sin dall’inizio, fosse meno la vita che non la morte: non la realtà effettiva, le opere e i giorni, in breve l’amministrazione di un Reich millenario, ma la memoria e le rovine di un impero, preoccupazione estetica, memoriale, addirittura metafisica più che politica.» (Johan Chapoutot, Il nazismo e l’antichità, traduzione di Valeria Zini, Einaudi, Torino 2017, pp. 397-98). L’alternativa è paradossale: «[…] ciò che è costruito nell’edificio, è la distruzione dell’edificio stesso» (pp. 398-99). Questo è perché il nazismo si costituiva in quanto nuova battaglia, ma che era ancora tutta da venire, vale a dire: mito. Mito che deve ritornare per chiamare alla nuova battaglia. Ciò che può costruire qualunque cosa, nella stessa ideologia dominata dal meticcio, è solo il richiamo alla nuova battaglia, che sarà possibile solo con l’edificazione delle nuove rovine, che, soltanto, erano in grado di chiamare alla nuova battaglia. Questo è ciò che apre alla possibilità dell’entrata in gioco dei falsi, che è ciò che chiama l’arte del falso, che sarà ciò che può mettere in pericolo l’impresa di Robert Chindal fino a spingerlo, verso la fine del romanzetto, a cambiare genere di oggettistica trattata dalla sua impresa. Comunque la si pensi su questo mediocre romanzetto di PKD, questo mediocre romanzetto è di gran lunga superiore al “romanzetto”, più che falso, di quell’autentico meticcio italiano che è stato il meticcio italiano Umberto Eco (ve lo ricordate, quel meticcio italiano?), parlo del romanzo Il cimitero di Praga, perché il fatto di scrivere un romanzetto è ben diverso dal fatto di scrivere anche lo stesso “romanzetto” con la convinzione di scrivere un romanzetto – e comunque un meticcio italiano ha quella particolarità che lo costituisce, nella sua più che parca porca autenticità, sempre in quanto arte di un falso in grado di imporsi a dispetto di ogni originale, perché ciò che costituisce la differenza è ciò che determina, appunto, il meticciato, ossia ciò che distingue ogni volta il disgustoso meticcio italiano, che ha la sua specificità di “razza” (= antirazza), che ne determina l’autenticità nella falsità, che è autenticità, che sempre deve essere rilevata, che è poi la puzza di esistere che sempre lo contraddistingue, vale a dire ciò che ne costituisce, proprio grazie alla sua falsità, l’inaudita, irrimediabile e sinistra, disgustosa galleggiante falsa autenticità. Vale a dire: la puzza di esistere. Non si è sempre detto che, per distinguere l’arte, ci vuole naso? Così possiamo dedurne che Glasperlenspiel è allora il GPS adatto per muoversi in campi di questo genere. Se, per voi, che leggete qui, leggere una terzina del disgustoso meticcio italiano Dante Alighieri non vi dà nausea di alcun genere, io non ci posso fare niente, perché vuole dire che l’immunità contro l’arte degenerata non vi è pervenuta come immunità dalla nascita. Ciò che il nazismo si è sempre posto come fine è stato restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa – che è ciò che determina il verso della relazione, alla quale, a quanto pare, voi non appartenete. Scrive PKD sui lettori di fantascienza: «Eppure… la SF è una forma d’arte sovversiva e ha bisogno di scrittori e lettori con pessime abitudini, come quella di chiedersi “perché?”, “come mai?”, “chi l’ha detto?”. Questi interrogativi nei miei scritti si sublimano in: “è reale l’universo?”; “siamo tutti davvero umani, o alcuni di noi sono solo macchine dotate di riflessi?”.» (“Introduzione a ‘The Golden Man’”, in Mutazioni, pp. 116-7). Per cui la domanda da porsi, per uno scrittore di fantascienza che vuole scrivere un romanzo sul nazismo, come identificato da PKD, dovrebbe essere del tipo: “… e se i nazisti avessero avuto ragione?”. PKD ricorre, per pubblicare i suoi scritti, a ciò che adesso si definisce “paraletteratura”, romanzetti di fantascienza; ignorando ciò che è, a dirla con Hölderlin, Dichterberuf. Ma qual è il rapporto tra i due tipi di parole che noi conosciamo (paraletteratura, Dichterberuf)? Ciò che apre non è qui ciò che chiude, perché è ciò che chiama al ritorno, cioè alla ripresa della battaglia. Chapoutot ha indicato come i monumenti nazisti venissero pensati come ciò che, in quanto futuro ammasso di rovine, avrebbero chiamato alla nuova battaglia. Il richiamo alla nuova battaglia è sempre il ritorno del mito, in quanto ritorno del mito in quanto mito che, in questo caso particolare, è stato al potere. Così il mito può imporsi, adesso, solo in quanto pericolo del mito, e il nazismo è stato il pericolo del mito in quanto pericolo del ritorno del mito, cioè del mito al potere; ma quanto, di tutto questo, entra nel romanzetto di PKD, cioè entra in esso in forma di mito? PKD confonde nazista e antinazista in un unico atteggiamento: «Anche gli ebrei tedeschi parlavano tedesco… e ricordatevi che un fanatico sionista ruppe una mano a un violinista ebreo con una spranga di ferro perché il musicista aveva osato suonare un brano di Richard Strauss durante un concerto in Israele… È o non è, questo, un comportamento identico a quello delle camicie brune negli anni trenta?» (“Il nazismo e ‘The Man in the High Castle’”, in Mutazioni, p. 152). Questo è ciò che del nazismo entra nel romanzetto di PKD L’uomo nell’alto castello. Quello che PKD rappresenta nel mondo alternativo del romanzetto L’uomo nell’alto castello è la decameronizzazione del mondo, che ha vinto, costituendo il mondo vero, il mondo dove il meticciato ha vinto e domina, ma ciò che veramente ha vinto, nell’Asse rappresentata da Germania, Italia (la maledetta Italia), Giappone, è l’Italia del meticcio italiano Giovanni Boccaccio e della decameronizzazione, che è sempre quello che si vede negli aspetti peggiori dell’arte narrativa, anche nella più che mediocre arte narrativa di PKD, poiché PKD non sa di essere un personaggio di un suo mondo inventato. Non vedete il finocchietto Pier Paolo Pasolini, quel disgustoso meticcio italiano (finocchietto), che vi sorride e vi fa l’occhiolino di entrare? La grossolana arte del finocchietto Pier Paolo Pasolini, quel disgustoso meticcio italiano (ribadisco io), era la stessa grossolana arte utilizzata dal meticcio italiano Giovanni Boccaccio, e prima ancora dal disgustoso meticcio italiano Dante Alighieri, perché un meticcio può solo imbastardire. E gli italiani sono solo bastardi che possono solo imbastardire tutto il mondo, se lasciati liberi di andare in tutto il mondo.

2. I personaggi che non hanno importanza

Qualunque forma di incontro, in Europa, con un portatore di caffettano deve dare il voltastomaco, la stessa cosa che, nel Mein Kampf, viene presentata come il primo incontro con un portatore di caffettano a Vienna, che, in quel periodo, non poteva che essere un ebreo, si presenta adesso in forma diversa in tutta Europa; il meticciato è il portatore eterno di caffettano, si tratti di un ebreo, di un arabo o, come adesso, del più sempliciotto e striminzito italiano di merda, è sempre il meticcio mediterraneo, la cosa che non si doveva lasciare allignare in Europa, ma che si incontra sempre più frequentemente in tutta Europa, con sempre più diritto di ascolto. Il meticcio italiano è la cosa che, formalmente, non indossa il caffettano, quindi non può essere definito “portatore di caffettano”, ma solo dal punto di vista della forma, perché, dal punto di vista della sostanza, l’italiano è il perfetto “portatore di caffettano” della nostra epoca, cioè la cosa che, pur non indossando il caffettano, si comporta come il “portatore di caffettano” della nostra epoca, cioè la cosa che deve essere scacciata dall’Europa. Quando si incontra un meticcio italiano in Europa, comunque il meticcio si comporti, non rimane che porsi la domanda silenziosa: “Che cosa vuole, questo bastardo di italiano (cioè questo nuovo portatore di caffettano, riconoscibile appunto in quanto non portatore di caffettano), adesso, di nuovo, in Europa, per ripetere quello che una volta faceva il portatore di caffettano? Vale a dire: Che cosa vuole, questo bastardo di italiano, in Europa?”. Vediamo che, nell’arte dubbia e primitiva, quanto si vuole, di PKD, i personaggi non sono importanti. Eppure i personaggi sono la cosa fondamentale di quell’arte gretta e spicciola (pulp, denominata appunto) di cui egli è diventato presto la sgradevole icona. I personaggi non sono importanti perché il grado due nella scala tonale non è molto importante. I personaggi devono invece richiamare la misurazione quantistica come modo superiore di interpretazione. I personaggi di Dick sono appena abbozzati, per questo bisogna scavare a fondo, non solo nelle rughe della psicologia, per andarli a trovare, ruga per ruga. La divisione delle tre forme di esistenze secondo i valentiniani: spirituali, psichici, ilici. Gli ilici rappresentano l’aspetto più interessante. La sola immagine della divinità non è sufficiente a garantire la sacralità della figura umana, ma anzi dimostra la sua mancanza di divinità, essendo, essa, pura immagine, qualcosa come una carcassa. E chiama la distruzione di quella contraffazione della divinità. Ma questo è pensare proprio al di là di Dick. Il romanzo è un genere fatto per occuparsi solo di individui, perché è un genere che non sa come occuparsi della razza. Ci vuole una nuova forma di romanzo che comprenda ciò che deriva dalla Storia (Geschichte, secondo la terminologia di Heidegger) e non più dalla storiografia (Historie, secondo la terminologia di Heidegger) – questo è ciò che dico e ridico da sempre in questo mio sito, dove sparo a vista sul disgustoso meticcio italiano. Perché finché un solo italiano si troverà in Europa, l’Europa non sarà mai la terra della razza bianca.

3. I due libri

Due libri sono ricorrenti nel romanzetto del tutto inutile di PKD dal titolo L’uomo nell’alto castello: I Ching, che rappresenta la sincronicità di un istante dell’universo; La locusta si trascinerà a stento attribuito a Hawthorne Abendsen, che rappresenta la possibilità di una coesistenza di universi paralleli. Questi due libri rappresentano il mondo nella forma di Intensione/Estensione. Rappresentano la possibilità della distinzione tra grado maggiore e grado minore. Che però, nel romanzetto, che è qui il romanzetto del modesto scrittore PKD, contenente il romanzetto di Abendsen, vengono abilmente presi e confusi. Quasi tutti i personaggi del romanzetto di PKD consultano l’oracolo del romanzetto di Dick, (che però è un libro autentico) mentre solo alcuni personaggi, nel romanzetto di Dick, leggono il romanzetto, in esso contenuto, La locusta si trascinerà a stento. L’oracolo viene consultato, mentre il romanzetto viene leggiucchiato, oppure letto in tutta fretta, coma fa Juliana, che pure trae, da quel modesto romanzetto, il massimo che esso, come romanzetto, poteva offrire, cioè il rimando agli altri libri, ma che qui è solo il Libro dei Mutamenti. Due libri sono appunto ricorrenti nel romanzetto L’uomo nell’alto castello di PKD: il Libro dei Mutamenti, libro reale, che, stando allo stesso romanzetto, fornisce le risposte; La locusta si trascinerà a stento, libro immaginario, che fornisce la domanda. Ma la domanda da porsi è chiedere perché, un piccolo scrittore così mediocre, come PKD, sia riuscito a imporsi, fino ad essere ritenuto uno degli scrittori più importanti e influenti della sua epoca, che in parte si profila ancora come la nostra epoca. Questo porta alle due parole, parola in quanto parola “anonima” di un best seller, parola in quanto Dichterberuf consegnata ai testi della letteratura. Che è ciò che porta a distinguere i due modi: il modo maggiore della letteratura e il modo minore della paraletteratura. Infatti, rispettando questa modalità è possibile, adesso, contrapporre PKD a Murakami Haruki, che, volendo, è un PKD che ha solo imparato a scrivere. Comunque, meglio avere a che fare con un giapponese ignorante come Murakami Haruki che con un italiano bastardo, almeno come la vedo io – mentre PKD deve sempre essere tenuto lontano da un vero scrittore come invece era H.P. Lovecraft.

4. Genette

Affinché vi sia il mito deve esserci un modo comune di parlare, che deve portare alla domanda circa il mito e il suo ritorno. Perché ci sia il mito come dominante, deve esserci una preparazione del mito, che riguarda la sottodominante, per cui, dopo, ci sarà solo il mito. Questo è ciò che è ciò che qui riguarda la Dominante. Infatti la letteratura fornisce la possibilità di una voce diversa, che legge la letteratura da un punto di vista diverso. (Gérald Genette, “Verosimiglianza e motivazione”, in Id., Figure, I, traduzione di Franca Madonia, Einaudi, Torino 1972, pp. 281-305.)

5. L’arte come dominante

Il tema “Dare forma al mondo” è il mito, che in PKD non compare mai, perché il mito è ciò che non compare mai nei romanzetti di qualunque tipo essi siano, compreso il romanzetto L’uomo nell’alto castello; per quanto il “romanzo” Le vergini delle rocce del meticcio italiano Gabriele d’Annunzio tratti proprio di un mito di questo genere molto assai stravagante. Il prosciugamento del Mediterraneo e la soppressione dell’Africa sono i punti fondamentali di questo romanzetto di PKD, ai quali non si è fatto caso. Ma proprio PKD non aveva intenzione a svolgere questa possibilità. «Per questo mi piace la SF, amo leggerla e scriverla. Lo scrittore di SF non intravede semplici possibilità, bensì possibilità bizzarre. Non un banale “e se…?”, bensì un “oddio! E se…?” in preda alla frenesia e all’isteria.» (“Introduzione a ‘The Golden Man’” in Mutazioni, p. 125). Qui si vede la distanza fra PKD, mediocre scrittore di romanzetti di fantascienza e il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio. Dei tre aspetti viventi contemplati dallo gnosticismo, gli ilici sono l’aspetto più interessante. La sola immagine della divinità non è sufficiente a garantire la sacralità della figura, ma anzi dimostra la mancanza di divinità nell’immagine, essendo, essa, una cosa relativa a una pura immagine. E proprio per questa ragione, cioè essere solo un’immagine della divinità, gli ilici meritano la totale distruzione. Per questa ragione mandare via gli italiani dal mondo è restituire l’Europa alla razza bianca d’Europa.

6. Il fantasma della terra

Rudolf Wegener è il nome del personaggio che, nel romanzetto di PKD in questione, chiama una nuova teoria della composizione della terra, cercando di salvare il Giappone dal complotto che lo voleva annullare, nello stesso modo in cui aveva fatto Alfred Wegener con la teoria della deriva dei continenti? Che cosa fare della “terra” nella terra che è stata occupata dal meticcio, dopo che il meticcio è stato cancellato da quel luogo, e quindi dopo che il concetto <terra> può essere riproposto come cosa da pensare di nuovo? Nel romanzetto di PKD si parla di un Mediterraneo completamente prosciugato e di un’Africa in via di completa desertificazione. Malgrado questo, PKD non aveva capito niente di quello che era il progetto nazista, visto che PKD era solo un mediocre scrittore di piccoli e spiccioli romanzetti idioti (qualcosa come il meticcio italiano Umberto italiano con i suoi romanzetti). Il disprezzo è conoscenza in quanto dà accesso a ciò che è il meticciato, che è quanto si rivela nella sua più pura boccaccesca pseudonatura, perché noi conosciamo il meticciato solo grazie all’“arte” – che è arte degenerata – come arte giunta, fra gli altri, dal meticcio italiano, e mediocre scrittore, Giovanni Boccaccio, arte che, senza il disprezzo, non si potrebbe mai conoscere nella sua vera natura, perché si conoscerebbe solo il concetto di “uguaglianza”, imposto dal cristianesimo, che non prevede l’arte degenerata, che chiama ciò che è razza degenerata – per cui, adesso, possiamo dire che esiste l’arte degenerata solo perché esiste la razza degenerata – che è la vita indegna di vivere, ma che pure viene lasciata in vita. La desertificazione dell’Africa, appena accennata da PKD nel suo romanzetto, che pure è il tratto più vivo, nel suo plumbeo romanzetto di fantascienza, deve includere: la soppressione delle forme meticce (generalmente definite “umane”) presenti nel luogo impropriamente definito “terra”; la soppressione delle forme “animali” presenti nel luogo impropriamente, fino ad allora, definito “terra”; la soppressione del luogo stesso, fino ad allora, impropriamente definito “terra”, che era servito come sostegno per le forme meticce e animali; lo sprofondamento della piattaforma impropriamente, fino ad allora, chiamata “terra”. Queste tre forme di annullamento si collegano alle tre forme dell’essere umano secondo lo gnosticismo. Dare forma al mondo, a questo punto sarete d’accordo, è cancellare le brutte forme del mondo del meticciato dal mondo. Il mondo della scarsa narrativa di PKD è infatti una non-terra che, in quanto tale, non chiama mai il suo abitante. La terra, nei romanzetti di PKD, è solo pallida squallida superficie dove alcuni individui possono essere latori di un messaggio di salvazione, prendersi cura di animali elettrici, ma dove mai, in nessun caso, la terra è qualcosa che può scegliere il suo abitante.

7. Sensibile alle storie

Il romanzetto L’uomo nell’alto castello di PKD comporta diverse storie più o meno simultanee: la storia dell’operazione Dente di leone, che comporta la storia di Baynes/Rudolf Wegener; la storia di Juliana, che comporta l’uscita dal romanzo, con la scoperta che l’oracolo ha scritto il romanzetto perché è vero; i due mondi (Tempo fuor di sesto) e il mondo unico (L’uomo nell’alto castello): niente via d’uscita, perché nel mondo unico non c’è il mito; la storia del romanzetto La locusta si trascinerà a stento scritto dal Libro dei mutamenti; la Via del centro mobile, che è la via che permette a Juliana di porre la domanda all’oracolo: perché hai scritto il romanzetto La locusta si trascinerà a stento? Domanda alla quale l’oracolo risponde: “Perché è vero”. Juliana lascia la casa degli Abendsen e pensa a come tornare al motel. Il mondo vero, in cui è stato pensato e scritto il romanzetto L’uomo nell’alto castello, è il mondo vero, in cui Germania, Italia e Giappone hanno perso la guerra; il mondo nel quale si muovono i personaggi del romanzo L’uomo nell’alto castello è un mondo di finzione, in cui Germania, Italia e Giappone hanno vinto la guerra. La domanda che allora si pone è: “Da dove viene la risposta dell’I Ching?” e come può influire in rapporto ai personaggi del romanzetto L’uomo nell’alto castello? Ragle Gumm in uno dei due mondi concentrici, aveva la possibilità di passare dall’uno all’altro, anche grazie agli aiuti che gli permettevano di “ricordare”, giungendo così a decidere in quale mondo vivere – egli infatti finirà di scegliere di vivere nel mondo più che esterno a quello creato per lui, unendosi ai ribelli della colonia sulla Luna, che lanciano razzi sulla Terra. In presenza di due mondi, il centro è unico: RG è l’unico centro del suo mondo, perché tutto quel mondo è stato creato intorno a lui, ma senza un centro stabilito, il Centro è un punto mobile che chiunque deve trovare per conto proprio, è la Via che Childan, Tagomi, Juliana inseguono. Juliana torna nel suo mondo, e infatti, appena uscita dalla casa degli Abendsen, cerca un mezzo qualsiasi per tornare al motel. Differenza tra Tempo fuor di sesto, che prevede due mondi concentrici. L’uomo nell’alto castello prevede un solo mondo, quello in cui Germania, Italia e Giappone hanno vinto la guerra, e un centro estremamente mobile, che rappresenta la Via, e che diversi personaggi del romanzo cercano di attirare dalla loro parte per poter vivere nella condizione di centro del mondo. La questione è la funzione della narrativa, anziché della spicciola “letteratura”, che è ciò che lega la parola alla lingua in quanto Dichterberuf. La scelta di Ragle Gumm come scelta che comporta la scelta di combattere contro la propria razza – quando la razza è solo ciò che non richiede scelta. La storia come punto sensibile che porta alle storie rivela il gruppo di personaggi implicati nella sporca storia (storia spazzatura), che è la storia della espansione del meticciato nel mondo. Ma quello con cui dobbiamo fare i conti adesso sono gli zombie ardeatini, dobbiamo affrontare gli zombie, le sporche carcasse che schizzano su dalle Fosse Ardeatine. So che, ogni volta che tornerò a casa di notte, rischierò sempre di trovarmi davanti le carcasse-zombie di quegli italiani di merda schizzati su dalle Fosse Ardeatine, luride carcasse di merda di italiani di merda, zombi caracollanti come nel filmato del negro bianco Michael Jackson, e infatti, da allora, sto sempre chiuso in casa: se io fossi vissuto in epoca nazista, col cazzo che avrei fatto parte della Resistenza di voi, bastardi italiani di sinistra. Sarei stato dalla parte dei nazisti, cioè della razza bianca. Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Dio stramaledica l’Italia! Fine. Come? Fine.

 

Philip K. Dick, L’uomo nell’alto castello, traduzione di Marinella Magrì, Mondadori, Milano 2022

Philip K. Dick, Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, a cura di Lawrence Sutin, traduzione di Gianni Pannofino, Feltrinelli, Milano 1997

Stefano Ercolino, Il romanzo massimalista

Il romanzo massimalista ha mantenuto personaggi e intreccio del romanzo tradizionale, limitandosi a metterli in gioco in un modo che si può identificare solamente a livello di forma appena diversa. Ma adesso bisogna cominciare a pensare un romanzo al di fuori di personaggi ed intreccio, che sono i due vecchi inciampi, che meno hanno a che fare con il romanzo in quanto arte della narrazione, cioè ciò che, adesso, noi qui giunti, possiamo identificare come ciò che ha sempre riguardato la superficie dell’arte della narrazione. Il romanzo più nuovo, che fa intravvedere l’altro tipo di romanzo, è Finnegans Wake di Joyce (Giacomo). Al di fuori non c’è che il tema dell’umanesimo moribondo, che questo libro, dedicato alla forma del romanzo massimalista, perfettamente sembra determinare.

Ma più che cercare un romanzo moderno che descriva esaustivamente l’uomo moderno, bisogna cominciare a cercare un romanzo che cominci a fare a meno dell’uomo, e quindi a fare a meno tanto del personaggio quanto dell’intreccio – che è come dire dell’umanesimo.

Per quanto riguarda il realismo, il problema è nella fede che si pone nella parola: se la parola viene posta dall’autore come ciò che designa, inequivocabilmente, quell’oggetto impreciso, che egli ha scelto, allora il realismo è qualcosa che è facile evocare; se, invece, la parola è solo l’artificio che designa quello che potrebbe essere definito anche in tutt’altro modo, allora la parola non ha più lo statuto che deteneva prima – perché quello che la parola definisce è solo il taglio arbitrario in un continuo, e questo ci porta alla differenza tra la cosa e la Cosa, inizialmente considerata da Heidegger, mediata dalla “cosa” come þing, che è la variabile etimologica, adesso, da considerare, via Nietzsche. Abbiamo così il mito ed il pericolo, letteratura di consumo e paesaggio nascosto; letteratura e sguardo sul paesaggio: la parola è adesso un tientibene che corre stretto attorno ad un punto di salvataggio in tempo di naufragio per poveracci sospesi da una tempesta in alto mare estraneo – la lingua è un pericolo in diffusione sulla terra. La letteratura di consumo è dalla parte della parola; la letteratura è sempre la possibilità del salto nel pericolo del mito come linguaggio. Una volta, i romanzi del piccolo Simenon (Giorgio, se non mi sbaglio) e di altri piccoli autori tremanti quanto brillanti erano venduti sulle bancarelle delle stazioncine dove allegri trenini sbuffanti erano sempre pronti a portare da una particina all’altra di un altrettanto piccolo piccolo territorio, e garantivano un tempo sereno contro la monotonia del paesaggio, che così poteva scorrere, non visto, dal passeggero, al di là del piccolo finestrino del suo vagoncino; la letteratura permette di vedere il paesaggio attraverso lo schermo del finestrino, ma componendo sullo schermo la domanda più pericolosa: “È, l’uomo, adesso, in grado di diventare il padrone del mondo?” È la magia del paesaggio a chiamare l’uomo, se l’uomo è in grado di rispondere.

Che cosa si intende per eccesso? Parola e lingua funzionano come individuo e razza. Ciò che determina la Letteratura è ciò che permette il salto dalla parola alla lingua – ma ciò che fa lo scrittore della “letteratura” è ciò che permette allo scrittore di usare le parole che tutti usano per lo scambio del giorno come scambio quotidiano, per lo più a livello di passatempo. Ma anche questo è solo legato al tempo. Pensare al romanzo I falsari (1925) di André Gide: il romanzo presenta il falso come attività di falsari all’opera, ed esibisce in quanto moneta falsa maneggiata da un personaggio del romanzo, ma non agisce come ciò che il falso ha fatto in modo di determinare la forma-romanzo. Tuttavia I falsari di Gide mette in scena la possibilità di un romanzo diverso, senza presentarsi, infatti, come la realizzazione di quella estrema possibilità, perché il romanzo di Gide mette solo in scena la possibilità di un romanzo del genere, in quanto forma a venire.

Il romanzo massimalista è un romanzo che crede/cede nella sacralità di ciò che esiste. Questa sacralità viene intesa come ossessiva orizzontalità da percorrere estensivamente, almeno a livello di interpretazione grazie alla prerogativa della prolissità. Tuttavia il romanzo massimalista non pensa mai il tempo relativo ad una selezione. Ma infatti il problema è adesso il frammento, che deve diventare aforisma –, da frammento del romanzo massimalista, all’aforisma nietzscheano. Lo scherzo infinito non deve evocare il gioco smilzo sulla tomba di Yorik poveretto buffone che fa fatto il suo tempo, quanto, attraverso il richiamo della conferenza di Heidegger, secondo la quale nei campi di sterminio nazisti giustamente non è mai morto nessuno, perché solo tante cose inutili sono state annullate, cioè cancellate, e da lì determinare il nuovo sguardo sovra il mondo, che è ciò che, solamente, può determinare la nuova epica in quanto ciò che ha diritto, in quanto sguardo riportato, di stabilire a chi spetti il diritto di vivere e chi deve invece essere cancellato – ma per questo ci vuole la nuova arte del romanzo, che non deve riguardare il dire della parola degli individui, che è il riciclaggio del vecchio personaggio del romanzo, ma la lingua della razza, che è ciò che il romanzo non può affrontare perché non è fatto per affrontare, cioè la nuova forma, che noi non conosciamo, però alla quale siamo destinati. Il romanzo massimalista è una forma imprecisa, che proprio a partire dalla sua imprecisione deve essere considerata.

Stefano Ercolino, Il romanzo massimalista, Bompiani, Milano 2015

Albert Camus, Lo straniero

Tema: Lo spazio

Possiamo dire di conoscere la letteratura moderna nel luogo in cui ci troviamo a stare? La letteratura moderna, nella forma dei suoi classici, deve portare a pensare quello che, dentro la spicciola forma della letteratura moderna, si fatica a riconoscere come movimenti all’interno di uno spazio appena composto per quella nuova forma di letteratura, che è la letteratura moderna, perché la letteratura moderna soggiace a un tipo di oscuramento dello spazio del tutto moderno e del tutto letterario, che noi, adesso, non siamo più in grado di riconoscere in quanto tale, cioè in quanto oscuramento, ma che una lettura attenta relativa agli spazi messi in gioco da quella letteratura può aiutarci a cominciare a riconoscere. Così può essere utile rileggere Lo straniero di Albert Camus, partendo da questo punto di vista: il teatro, in quanto forma venuta da fuori, è la forma che può permettere di impostare questo discorso, visto che questo testo, per quanto in forma di romanzo, comporta comunque quel qualcosa giunto da fuori, anche per la sua ambientazione (l’Africa di Algeri); lo spazio in cui il personaggio protagonista di questo romanzo, frutto di quello spazietto dove il protagonista si trova a muoversi – indicativamente sul suo stretto balcone.

Di che cosa viene accusato Meursault, il protagonista del romanzo Lo straniero di Albert Camus, nel processo che lo vede accusato per la morte di un arabo? Di due cose: estraneità nei confronti della morte della madre (egli non ha voluto vedere il corpo chiuso nella bara, chiedendo che la bara rimanesse sempre chiusa durante la veglia funebre; non ha dimostrato dolore durante tale veglia ed è partito subito dopo la tumulazione, senza nemmeno fermarsi a pregare un poco sulla tomba), alla quale si contrappone l’attiva partecipazione nella morte dell’arabo, che lo ha portato a esplodere altri quattro colpi di pistola dopo che il primo era già servito a rendere inoffensivo l’arabo, se non ad ucciderlo, quindi ad esplodere almeno altri quattro colpi su quella cosa che ormai era solo la carcassa di un arabo su una spiaggia d’Africa.

Il protagonista del romanzo La nausea di Sartre si mischia con la folla di Bouville (la prima “Domenica” del diario) e poi nel museo (il secondo “Sabato” del diario), quando si mischia con i ritratti dei grandi uomini di Bouville. In mezzo a questo suo andare e mescolarsi c’è il rapporto con l’Autodidatta, l’omosessuale che non ha diritto a uno statuto ufficiale, perché l’unico statuto che può ottenere è quello, non ufficiale, che porta al disprezzo generale. Il protagonista de Lo straniero vede la domenica come giorno di festa celebrato nel quartiere dall’alto del suo balcone, dove si siede per passare il tempo nella giornata in cui non ha nulla da fare. Quando il protagonista del romanzo La nausea solleva il corso, impedendogli di picchiare ulteriormente l’Autodidatta, ma senza picchiarlo a sua volta, non sa spiegare il motivo per cui lo abbia poi lasciato andare, così come Meursault non sa spiegare il motivo per cui abbia infine sparato all’arabo. Il corso del romanzo La nausea ripete qualcosa del personaggio che, nel romanzo Lo straniero, occupa la posizione dell’arabo, cioè un francese a metà. È possibile parlare, sulla scorta di Conrad, di «fantastic invasion»? Entrambi i romanzi hanno a che fare con l’Altro: il protagonista della Nausea ha a che fare con i borghesi di Bouville, e il suo strano altro nascosto, che è l’Autodidatta, l’omosessuale, il protagonista de Lo straniero ha a che fare con gli altri nascosti, gli arabi, che stanno su quel lembo di luogo d’Africa dove i francesi sembrano farla da padroni.

Ma entrambi i romanzi hanno a che fare con altri romanzi, che invece chiamano – nel tempo – la rivolta degli schiavi, come ad esempio continua a fare il romanzo Benito Cereno di Melville.

Estraneità verso gli oggetti del mondo. Anche il corpo della madre era un oggetto del mondo, tra i tanti oggetti del mondo. Il mondo è solo l’insieme degli oggetti del mondo.

Se l’estraneità consiste nel non vedere il nemico di razza, allora per che cosa è condannato il protagonista del romanzo Lo straniero?, per non avere rispettato il suo ruolo di spettatore all’interno di quello che doveva essere solo uno spettacolo. In che cosa consisteva, o avrebbe dovuto consistere questo suo ruolo? Nel rimanere seduto mentre lo spettacolo aveva luogo sul palco davanti a lui. Il fatto di “avere luogo” non comporta la presa di un luogo (di una terra). Quando M è rimasto seduto ha comunque impedito lo svolgimento dello spettacolo per gli altri intervenuti alla cerimonia, avendo egli chiesto di non aprire la bara. La bara aperta, cioè l’esibizione del cadavere, avrebbe rappresentato lo spettacolo per coloro che erano lì intervenuti, che si sarebbe spalancato come si spalanca lo spettacolo quando si alza il sipario. Ma M ha chiesto di non alzare il sipario, cioè di non scoperchiare la bara. Perché M sembra così indifferente alla morte della madre? Perché è così indifferente quando uccide l’arabo? Se c’è astio nei confronti della madre, questo può essere visto nell’averlo fatto nascere in quel limbo di terra infuocata; se c’è indifferenza verso l’arabo che uccide, questo riguarda quel lembo di terra in cui si trova a stare, e di cui egli non è responsabile.

Come spettatore ai funerali della madre, il suo ruolo veniva accettato; nel momento in cui ha ucciso l’arabo, egli è stato accusato di aver prevaricato il suo ruolo, che, da spettatore quale era, e che al funerale della madre egli aveva rispettato, lo ha condotto ad un ruolo completatamene diverso, non più di semplice spettatore, ma di “attore” fra spettatori che avevano il ruolo di “spettatori”. In quanto “attore” fra attori egli ha prevaricato il proprio ruolo, che era di semplice spettatore fra attori. È questo che ha determinato la sua condanna a morte per decapitazione: egli si è staccato dal suo ruolo, quindi la sua testa deve essere staccata, per pareggiare, con un rispetto alla legge, ciò che ha segnato il non rispetto della legge. Meursault è accusato di non aver rispettato il suo ruolo di spettatore, da cosa arriva questa accusa? dal fatto di aver ucciso l’arabo, passando dal ruolo di spettatore, a lui confacente, a quello di attore, per lui non previsto.

Ma perché il suo ruolo era di semplice spettatore? Che cosa lega il rifiuto del rispetto della salma della madre alla indifferenza dimostrata nell’uccisione l’arabo? Nient’altro che che la «fantastic invasion», che il processo che occupa la seconda parte del romanzo Lo straniero sembra non tenere in nessun conto.

Lo straniero è diviso in due parti, che riguardano: prima dell’uccisione dell’arabo e dopo l’uccisione dell’arabo. Il processo stabilisce la sua colpa. In che cosa consiste questa colpa? Nel non aver rispettato il proprio ruolo, che era quello di estraneità, cioè di straniero. Nel momento in cui egli era seduto (a livello della bara della madre, a livello del balcone di casa sopra le persone che si muovevano in quel quartiere occupato, come sembra, solo da francesi), egli rispettava il suo ruolo di straniero a quanto avveniva davanti o poco sotto di lui; nel momento in cui è intervenuto, alzandosi in piedi e abbandonando la sedia/poltrona di teatro, egli ha potuto compiere il delitto: da spettatore è diventato attore, cioè ha ucciso l’arabo, la cosa che quello spettacolo, però, voleva nascondere. In quel momento egli non era più “straniero”, ma era “partecipe”, che non comporta il non essere più “straniero”.

È importante il fatto del pianerottolo, cioè i suoi due vicini di pianerottolo, che scatenano l’azione elementare di alzarsi dalla poltrona. I rapporti di M con i due vicini di pianerottolo sono improntati inizialmente alla forma dello “spettacolo da contemplare”, nel senso che M sta a sentire quello che ciascuno dei due gli racconta senza intervenire di sua propria iniziativa (M scrive la lettera per conto di Salamano ma solo su precisa richiesta di quello). Nel caso dell’arabo, M agisce invece di propria iniziativa, ammazzandolo.

Chi sono i suoi due vicini di pianerottolo? Salamano, che vive con un cane che picchia con grande facilità e che infine gli scappa sperdendosi per le strade, e Raymond Sintès, che sembra vivere facendo prostituire le donne con le quali stabilisce una relazione affettiva solo per il proprio interesse. La sorte di Salamano è causa, da parte di M, di una leggera empatia per quanto riguarda il cane, mentre la sorte dell’altro vicino di pianerottolo lo coinvolge fino al punto di uccidere l’arabo fratello della ragazza picchiata dal francese.

Così noi ci possiamo chiedere: che cosa lega, su quello stesso pianerottolo, il cane e l’arabo, che sono le due forme autoctone di quel luogo, dove la Francia ha realizzato una propria fantastic invasion?

La situazione è già chiara all’inizio: lo spettatore rispetta il suo ruolo di spettatore, ma interviene, in un primo tempo, per evitare agli altri l’oggetto dello spettacolo, cioè lo scoperchiamento della bara; successivamente, egli commette un’altra e ben più grave infrazione al proprio ruolo di semplice spettatore, quando interviene come attore nella lite tra l’arabo e il francese, suo vicino di pianerottolo, che egli conosceva appena, uccidendo l’arabo e infierendo sulla sua carcassa.

Forma concisa: M poteva offrire il pieno spettacolo scoperchiando la bara, ma non ha voluto farlo, legandosi a una forma ridotta di spettacolo, nella quale egli è rimasto compostamente seduto, come un qualunque altro spettatore. Quando poi è stato coinvolto nella lite con l’arabo, M ha comportato la violazione di spazio, cioè la vera invasione di campo, saltando – per così dire – dalla platea al palcoscenico e facendo secco l’arabo.

Questo romanzo si svolge compostamente tra due carcasse: la carcassa chiusa nella bara su cui il protagonista non vuole alzare il sipario per il tempo che lo riguarda, e la carcassa dell’arabo su cui il protagonista in modo automatico infierisce quando non avrebbe dovuto in alcun modo intervenire.

Se il tema è lo spazio, bisogna indicare che cosa occupa questo spazio in cui il romanzo, che leggiamo, trova la sua temibile sostituzione. Il romanzo è ambientato in Algeria, dove, leggendolo, sembra che scarso peso abbiano gli arabi, mentre peso rilevante sembra abbiano i francesi, che in quel luogo hanno effettuato la fantastic invasion (?). Il processo a cui viene sottoposto M non considera la fantastic invasion, ma considera gli spostamenti di M in quei luoghi dove egli, a causa dell’essere nato da quella donna, si era trovato poi a restare, nonostante la proposta di trasferirsi a Parigi (I/5). Appunto malgrado ciò M ha a che fare con un arabo, e questo arabo sarà per lui ciò che lo farà passare dal ruolo di spettatore al ruolo di “attore”.

Il fatto di avere indicato il termine attore tra virgolette richiama il fatto che il teatro, con tutto ciò che lo riguarda, è cosa che viene da fuori, così come M, in quanto protagonista del romanzo Lo straniero, lo si è visto, in un primo tempo, spettatore di uno spettacolo teatrale che egli ha in qualche modo negato, e poi lo so si è visto ripudiare il ruolo di spettatore entrando in scena, fino ad uccidere trionfalmente l’arabo. M è così lo straniero in quanto spettatore del teatro, quando il teatro è ciò che è il vero straniero, ma nel momento in cui i francesi sono stranieri in Algeria, luogo nel quale, tuttavia, essi sembrano comportarsi, se non da padroni, almeno da spettatori irriverenti, invadendo il palcoscenico e modificando il ruolo delle forze, ma tenendo ferme le regole del teatro, che è ciò che, comunque, viene da fuori – loro malgrado. Per cui l’invasione di spazio va punita. Che cosa comporta l’uccisione dell’arabo da parte di M? L’arabo era solo una cosa senza importanza, ma per la giustizia vigente allora, in quel luogo, portata dalla Francia in Algeria, la vita di un arabo è una cosa che importa, per cui M viene condannato a morte.

Ma la condanna a morte di M non equivale alla condanna a morte del negro Babo nel romanzo Benito Cereno, di questo ce ne rendiamo subito conto noi, lettori dei due romanzi. La questione che si pone è la questione della relazione tra il tempo e lo spazio, per cui dobbiamo porci la domanda: conosciamo la relazione che c’è tra un meticcio e lo spazio?, ma anche tra la questione delle carcasse di questi meticci di cui i due romanzi trattano: la carcassa del negro Babo, di cui tratta il romanzo Benito Cereno, ma anche la carcassa della madre di M, che ha fatto nascere il figlio in Algeria, poi la carcassa dell’arabo e infine la carcassa di M stesso, protagonista del romanzo Lo straniero, dopo che egli è stato condannato a morte per l’uccisione di un arabo.

Il punto da cui affrontare Lo straniero è la «fantastic invasion» chiamata in gioco da Conrad a proposito del suo romanzo Heart of Darkness. Che cosa comporta leggere Lo straniero a partire da quella definizione che richiama una “strana/bizzarra invasione”? Di applicare il principio del teatro, che impone di stare seduti per seguire/eseguire uno spettacolo che presenta il mistero di una fantastic invasion come spettacolo solo da guardare, mentre il protagonista del romanzo, a un certo punto, salta sul palco e modifica di suo punto lo spettacolo, poiché la definizione fantastic invasion, applicata a quello spettacolo, è ciò che non lo convince, muovendosi egli in una terra che non lo ha mai convinto. In realtà non si era mai parlato di una invasione, ma il protagonista si comporta come se dovesse ristabilire un diritto su una terra, quando nessuna invasione aveva stabilito un diritto su quella terra, che nemmeno doveva essere una terra, ma solo un palco giochi. Sappiamo che questo personaggio/spettatore si era già fatto notare come spettatore irriguardoso al mondo del teatro nel momento della veglia della madre, quando aveva chiesto di non aprire la bara, aveva cioè impedito lo svolgimento regolare dello spettacolo, consistente, da parte degli intervenuti alla cerimonia, nella contemplazione del cadavere. Il teatro è qualcosa che viene da fuori. La «fantastic invasion» non è una invasione a tutti gli effetti, ma è qualcosa che non richiede interventi da chi deve stare seduto in platea, davanti allo spettacolo garantito dal momento dell’apertura del sipario, a cui si deve solo assistere e lasciare assistere. L’Algeria del romanzo Lo straniero è un luogo che si presenta come un loco ad uso dei francesi, posto che i francesi la osservino come da un posto a teatro, che equivale ad un posto su una sedia sulla quale si deve stare. Quando infine il protagonista viene condannato alla pena capitale tramite ghigliottina, questo è ciò che fa sì che noi dobbiamo porci la domanda: Conosciamo il meticcio (domanda che riguarda anche il meticcio italiano) a partire dalla sua carcassa – come ad esempio succede nel romanzo Benito Cereno a proposito della carcassa del negro Babo? Questa è la domanda da PORCI, cioè la domanda che noi, porci in quanto lettori, porre alfine ci dobbiamo. Vale a dire che è la domanda attraverso la quale dobbiamo impostare la questione dello spazio. Un romanzo si colloca in uno spazio, ma lo spazio è, in questo caso, lo spazio che non fa riferimento allo spazio dove quel romanzo viene letto, perché quello spazio non fa mai riferimento ad una terra che è stata presa e che quindi non può chiamare il tempo per una rilettura. Il meticcio è solo ciò che occupa la terra, oggetto o no di una attenta tutela giuridica; quando il meticcio muore, si deve invece pensare allo smaltimento della carcassa che è solo ingombro – questo perché il teatro è ciò che viene da fuori e la carcassa del meticcio (meticcio italiano prima di tutto) è ciò che pesa sulla terra come l’ingombro da smaltire.

Che cosa è l’arabo ucciso? Questo pone la questione dello spazio tra platea e palcoscenico. Poiché il protagonista, per uccidere l’arabo, deve saltare dalla platea, dove aveva il suo posto, al palcoscenico. L’arabo è tutto, in questo romanzo, fuorché una cosa intesa come una riunione di più cose. L’arabo è infatti la cosa che non è una cosa, che è ciò che ha voluto la Francia, addossandosi il compito di quella penosa riproposizione della fantastic invasion. In questo romanzo una assolata indifferenza prende il luogo di ciò che avrebbe dovuto accompagnarla: la grande ondata di disprezzo, ma che invece non si presenta. Il breve romanzo di Conrad dimostra il grande disprezzo verso i negri nell’appunto, feroce e indifferente, lasciato quasi per caso da Kurtz, che suona da allora come l’allarme immortale per tutti gli abitanti della terra: «Exterminate all the brutes». Niente di tutto questo avviene nello Straniero. Vediamo infatti il protagonista seduto davanti alla bara della madre, tenuta chiusa per sua volontà, durante la veglia funebre; vediamo poi lo stesso personaggio alzarsi dalla sua “poltrona di teatro” (= terra d’Algeria) e uccidere un arabo con la stessa indifferenza del passo compiuto che dalla poltrona lo porta al palco. Eppure l’indifferenza è una cosa che giunge da lontano col suo barchino sbilenco, in quella spiaggetta assolata, che non era una terra, ma era appena una cosa che non era una cosa, una terra mai stata presa, un luogo dove gli è capitato di trovarsi e stare e anche decidere di stare.

Tanto nel tempo quanto nello spazio, si ha a che fare con carcasse da sistemare da una qualche parte, questo è ciò che riguarda la carcassa del negro Babo, la carcassa della madre del protagonista che lo ha fatto nascere in Africa, infine la carcassa che questo protagonista lascerà dietro di sé; la carcassa è quello che, ciò che non è mai nato, lascia ad un certo punto dietro di sé, una volta che non è più in vita, come peso solo da smaltire – ricordate quello che diceva Heidegger riguardo alle cose annullate nei vari campi di sterminio nazisti? – come traccia di una falsa insegna che lo ha illuso di essere in vita, come qualcosa da seguire, nel luogo qualunque dove per caso si è trovato a nascere, ma luogo che mai lo ha chiamato, perché la terra è proprio la cosa che non chiama mai il meticcio come suo abitante, e in questo Meursault si conferma, giustamente, “straniero”.

Albert Camus, Lo straniero, traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, Milano 2017

Jean-Paul Sartre, La nausea, traduzione di Bruno Fonzi, Mondadori, Milano 2014

Herman Melville, Benito Cereno

Tema: Il tempo

La letteratura del passato, nella forma dei classici della letteratura giunti a noi, deve portare a pensare quello che, dentro la spicciola forma della letteratura moderna, non è più possibile – ormai – portare a pensare; per cui la letteratura moderna soggiace a un tipo di censura tutta moderna quanto tutta letteraria, che noi ancora non siamo in grado di riconoscere in quanto tale, cioè in quanto censura che giunge a noi, ma che una lettura attenta dei classici della letteratura può aiutarci a riconoscere. Così può essere utile rileggere Benito Cereno di Herman Melville partendo da questo punto di vista.

Cominciando a leggere questo testo, vediamo che il protagonista, il capitano nordamericano Amasa Delano, entra nella strana nave alla quale, molto lentamente, a causa della accalmia, si era faticosamente avvicinato a bordo di una scialuppa calata, appositamente per l’occasione, dalla sua nave. La lentezza dell’avvicinamento, complice appunto l’accalmia, gli permette di notare alcune cose relativa alla nave, che riguardano l’apparente trascuratezza, che sembra avvolgere tutta quella nave, in una nuvola di apparente trascuratezza, nel momento in cui egli sa che, in quel tempo e in quel luogo, quella nave è la sua meta finale del tragitto.

Ma quando poi gli è dato salire a bordo, è portato a notare l’inefficacia del comando, rappresentato dal giovane capitano, lo spagnolo Benito Cereno, e la promiscuità di bianchi e neri, in quella nave dominante, che sembra permettere ai neri di aggredire, sempre impunemente, i bianchi, senza che il capitano BC si ritenga in diritto di intervenire.

Solo in un secondo momento, il capitano AD, ragionando su quella situazione, di propria iniziativa, viene portato a temere per la propria vita, pensando che, l’averlo attirato lì, da parte della messa in scena, che quella nave potrebbe avere rappresentato, non sia altro che una mossa per permettere la presa della sua nave da parte di quella ciurma, che sembra costituire la vera natura della nave San Dominick e che l’assenza di quello che potrebbe essere il vero capitano Benito Cereno nasconda in realtà solo la presenza di un pirata che si è avvalso del nome del defunto capitano Benito Cereno per scopi infausti.

Il capitano AD si accorge di qualcosa che non quadra nel racconto che il capitano BC gli ha fatto fino a quel punto, ma in che cosa consiste, questa parte – del racconto – che non quadra? Anche noi, leggendo Benito Cereno, ci accorgiamo, giunti a quel punto, che qualcosa non quadra, perché nel racconto ci sono incongruenze – che suonano incongruenze nell’uso del tempo da parte del capitano BC, ma incongruenze nel racconto da parte dell’autore Herman Melville. Di che cosa non si accorge, il capitano Amasa Delano – dal punto di vista di noi, lettori del ventunesimo secolo, che, leggendolo, lo osserviamo, nei confronti di questo testo scritto nella metà del diciannovesimo secolo? Il racconto che noi abbiamo letto è, fino a questo punto, confuso, mentre raggiunge la forma definitiva solo con la testimonianza del capitano BC, quando la questione della rivolta degli schiavi è parte definitiva del racconto, pensata comunque in quel modo, cioè a partire da quella cesura, che doveva portare alla censura in quanto cosa da censurare ancora, adesso, più di un secolo dopo. Notiamo che questo testo non è diviso in capitoli: il racconto Benito Cereno racconta la possibilità di un racconto presentato secondo la disposizione in due parti, che pure non affronta, una prima parte confusa e inadeguata, perché affidata a un modo di apparire delle cose a partire da ciò che la nave presenta quando il capitano di un’altra nave sale a bordo, perché quella nave nasconde qualcosa; una seconda parte adeguata per completare il racconto vero e proprio, perché riguarda il significato di ciò che la prima parte del racconto era stata composta per tenere nascosta. Che cosa determina questa disposizione del materiale del racconto? È logico che il racconto vero e proprio vive solo in quanto svelamento di ciò che la prima parte del racconto era teso a nascondere, ma questo è proprio ciò che viene lasciato ad altri, più completi, disvelamenti che devono avvenire lungo il tempo.

Così il racconto Benito Cereno si presenta in questa doppia forma: 1) un racconto incompleto, con molte parti non risolte. 2) Un racconto che, di colpo, spiega tutto, quando coincide con la deposizione del capitano BC in qualità di testimone, e non più di falso interlocutore con l’ospite capitano Delano.

Il racconto BC ruota intorno ad una cesura, che ha la funzione, in un primo tempo, di nascondere ciò che è successo, pena la vita, a quelle persone su quella nave, e di spiegare, in un secondo tempo, quanto accaduto, dispiegando così le parti che allora sembravano essere oscure. Questa parte del racconto è ciò che la letteratura moderna non tollera come parte di un racconto da consegnare alla letteratura. La cesura funzionava come cosa da non dire da un personaggio all’altro, cioè il capitano Benito Cereno non doveva far sapere al capitano Amasa Delano, suo omologo e occasionale ospite, quanto su quella nave era accaduto, cioè la rivolta degli schiavi negri che quella nave stava tranquillamente trasportando; ma la cesura funziona adesso come ciò che non deve essere detto al lettore, che è l’ospite che viene accolto grazie all’accalmia del tempo disponibile alla libera circolazione di tutti i testi del mondo, che è sempre la stessa cosa, per quanto riguarda il contenuto, cioè la rivolta degli schiavi, perché la rivolta degli schiavi è proprio ciò che deve essere incoraggiata, o almeno tollerata, in quanto considerata assolutamente legittima – e il lettore accolto allora come l’ospite della nave straniera deve essere predisposto a tollerare quella rivolta in quanto legittima da parte dei negri presenti su quella nave, in quanto i negri hanno diritto a vivere, cioè da parte della comunità nera, che è la stessa cosa che deve essere parte del racconto, mentre il negro è proprio la cosa che deve essere nascosta, perché ciò che il racconto è portato a dimostrare è invece l’Incontro con la Cosa. Il racconto funziona così su due modalità precise, perché si basa sul tempo attraverso cui il racconto è letto: il tema della rivolta degli schiavi, il tema della Rivolta degli schiavi.

Ciò che costituisce la rivolta è sempre la rivolta degli schiavi. Ma che cosa è che costituisce l’epoca moderna in quanto possibilità di leggere in un modo del tutto diverso, ciò che ha definito il nuovo tempo a partire dal tema della rivolta degli schiavi?

Qual è la cosa che costituisce, adesso, la cesura, e che porta infine e adesso alla censura? È il riconoscimento della rivolta degli schiavi, che è avvenuta e che ha preso il controllo, imponendo il proprio modo di pensare, non più soggetto al controllo del negro Babo. Per cui abbiamo “Cesura Censura”.

Questa situazione è rappresentata dal personaggio del negro Atufal, nello stesso modo che il negro Atufal dimostra l’inutilità dello spettacolo, pure rappresentandolo con assoluta pignoleria, fino a quel punto. Chi è il negro Atufal? Il negro Atufal, secondo quanto riferisce il negro Babo, è un negro che, nel suo ambiente di negri, fino a quando non è stato prelevato dai bianchi per occuparlo come schiavo, era un capo, e che, adesso, anche in quella situazione aberrante, posta sotto il controllo del negro Babo, può essere definito un “Re”. In che cosa consiste la manifestazione della regalità, da parte di questo “Re negro”, comunque destituito? soltanto nel comparire, come la figura in un meccanismo ad orologeria, davanti al capitano BC, a sua volta formalmente destituito del suo comando, e manifestare la propria volontà di non volere chiedere perdono – a chi comunque, mai, potrebbe concederglielo. Il negro Atufal è un meccanismo a orologeria inventato dal negro Babo, che mette a disposizione del capitano Benito Cereno, in quanto esibizione della sua destituzione come capitano, e in quanto matematizzazione della terra col suo tempo tranquillo che scorre, la pura comparsa della sua imponente presenza già trascorsa. Atufal è la faccia nascosta di Babo, ma è la parte della sua carcassa destinata al silenzio del fuoco, come si vedrà dopo la condanna, contrariamente alla parte di quella stessa carcassa, cioè la testa maligna, la parte della carcassa del negro riconosciuta come la parte che ha macchinato l’inganno, destinata alla esposizione spiccata sopra un bel palo ritto davanti a tutti secondo la logica che parte dalla matematizzazione del mondo della razza bianca, dal negro Babo imitata fino all’estremo. Atufal comporta, in una sola vivente immagine, le due parti della carcassa, destinate a due compiti diversi: distruzione ed esposizione, ma Atufal suona come una presa in giro della sovranità, come solo il meticcio può impostare. Il meticcio negro Babo ha organizzato quella presa in giro della regalità, con la stessa logica con cui il meticcio italiano Giovanni Boccaccio ha organizzato, nell’ultima giornata del suo triste Decameron, la presa in giro della regalità – infatti il meticcio pensa sempre nello stesso modo, si tratti di un negro o di un italiano.

Bene, ma giacché si parla di letteratura italiana, devo dire che non ho mai capito, al di là di tutto questo, l’importanza che gli italiani hanno conferito a quei vecchi graziosi mucchietti di parole che, secondo loro, costituirebbero la “poesia” di quel meticcio italiano che risponde al fantasioso nomiciattolo di Giacomo Leopardi: me lo può spiegare infine qualcuno? Faccio presente che il falso periodo di accalmia è il bonaccione tempo che mi permette di avvicinarmi ai graziosi mucchietti di parole del meticcio italiano Giacomo Leopardi… nel suo fantasioso nome, per sgretolarli (quanto mi dà fastidio, questo bastardo di italiano, con i suoi vecchi mucchietti di parole, è una cosa che non so dire).

Che cosa comporta la rivolta degli schiavi sulla nave San Dominick? Il ribaltamento di tutto il linguaggio e di tutti i rapporti tra gli umani presenti su quella nave; la depressione davanti a una tale situazione, dove le cose non sono più quello che sono sempre state fino ad allora. Il capitano BC è la vittima di questa situazione perché è colui che, in quanto capitano, ne avverte fino in fondo le diverse implicazioni. Anche quando, una volta finito l’incubo, dopo avere testimoniato su quanto accaduto, BC non riacquisterà più la sua salute, perché sa che quanto accaduto è un avvenimento di portata irreversibile, da qui le due posizioni: il mondo non ha memoria del negro (cioè della Rivolta degli schiavi), che è ciò che compete agli umani: Delano a Benito Cereno «“Ma il passato è passato; perché farci sopra la morale? Dimenticatelo! Guardate, il sole che risplende lassù ha dimenticato ogni cosa, e anche l’azzurro mare, e anche il cielo azzurro, hanno voltato pagina.” | “Perché non hanno memoria” rispose l’altro, sconsolatamente; “perché non sono umani.” | “Ma i dolci alisei che ora vi sfiorano le guance non vengono forse a voi come una carezza risanatrice e umana? Amici caldi, amici sicuri sono gli alisei.” | “Con la loro costanza non fanno che spingermi alla tomba, señor” fu la presaga risposta. | “Voi siete salvo,” esclamò capitan Delano, sempre più sorpreso e addolorato “voi siete salvo; che cosa ha gettato su di voi quest’ombra?” | “Il negro.” | Ci fu un silenzio, durante il quale quel tetro uomo seduto raccolse intorno a sé, adagio e macchinalmente, il proprio mantello, quasi fosse un sudario.» (pp. 80-1), il mondo è la memoria di ciò che ha fatto il negro. Il capitano Benito Cereno ha compreso, attraverso quella semplice avventura che lo ha coinvolto, capitano di una nave a ventinove anni, il significato universale della Rivolta degli schiavi. La rivolta degli schiavi, per quanto soppressa, è ciò che lega la memoria dell’abitante della terra alla presenza della cosa che ha promosso quella rivolta che, per quanto vinta, comporterà sempre l’esistenza di un mondo non più piacevole da abitare come prima da parte della razza che ha diritto di abitare la terra – che è quello che Tolkien riconosceva alla fine del Signore degli Anelli dopo la riconquista della Contea da parte degli hobbit; perché la serenità del vivere, dopo la comparsa della razza degenerata, non può più essere la stessa, per chi abita la terra.

Nietzsche ha riconosciuto, nel cristianesimo, la più grande rivolta degli schiavi mai organizzata, e nella sua vittoria finale la prima trasvalutazione di tutti i valori fino ad allora riconosciuti come tali, per cui ciò che era “buono” è potuto, da allora, diventare “malvagio”. Per contrastare un fenomeno del genere, secondo Nietzsche, era necessario l’allevamento di un nuovo tipo umano, in grado di opporsi ad ogni forma di rinascita del cristianesimo e a tutti i suoi perniciosi effetti, primo fra tutti l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, la sacralità della vita umana, e poi via di questo passo in tutte le forme di rinascita dei principi del cristianesimo, cosa che porta all’allevamento del superuomo, cioè della forma che porta al di là dell’uomo.

Il negro Atufal è il negro che non si è adattato alla Rivolta degli schiavi, cioè a prendere il potere dopo che la Rivolta degli schiavi ha avuto luogo; il negro Babo è invece il negro che sfrutta il tema della rivolta degli schiavi per i suoi scopi, cioè per gli scopi della sua razza, che i bianchi degenerati gli hanno offerto, nella loro incredibile stupidità. In realtà tutti e due, il negro Atufal e il negro Babo, sono due negri, che sono solo il modo di pensare dei bianchi degenerati, che porta a distinguere una cosa, come il re negro Atufal in catene, come una cosa ben diversa da quell’altra cosa che invece è il negro Babo.

La San Dominick diventa così la rappresentazione del vero mondo moderno, dominato dal politically correct e dal pensiero unico di cui il santo cristiano domenicano, a cui isola e nave sono dedicati, è il triste portatore, cioè dal tristissimo cristianesimo, che ha portato alla trionfale rivolta di Santo Domingo, vale a dire alla rivolta degli schiavi negri capitanati dallo stupido negro Babo silenziosamente tonante.

Perché, adesso, possiamo dire che quello che l’esperienza della nave San Dominick ha rappresentato nel mondo, è l’esistenza dell’arte degenerata, e la conseguenza che l’arte degenerata esiste perché esiste la razza degenerata? cioè la consapevolezza che viene lasciata esistere nel mondo la razza degenerata, quando appare chiaro che, per eliminare la possibilità dell’arte degenerata, è necessario procedere alla assoluta rimozione della razza degenerata dal mondo che la razza bianca abita e che il meticcio invece solamente occupa, senza che questo processo giunga alla formula appena di una domanda?

La sorte toccata alla carcassa del negro Babo è il simbolo del racconto Benito Cereno di Herman Melville nella sua interezza consegnata al tempo, perché i due tronconi in cui la carcassa del negro Babo viene divisa, alla fine del racconto Benito Cereno, ripropone e ripete l’attento meccanismo con cui Herman Melville ha siglato il suo racconto, fino a raggiungere, a partire da lui, in quanto impavido scrittore del XIX secolo, noi, pavidi lettori del XXI secolo, di cui egli non poteva immaginare alcunché, fuorché l’inconveniente per cui, se storia è storia della razza bianca, allora storia della razza bianca è il risultato dell’incontro funesto con il negro, che è ciò che afferma, nella sua sconfinata tristezza, il personaggio Benito Cereno, senza che nessuno possa accogliere il suo vero messaggio che è quello che il racconto è chiamato a consegnare al tempo, adesso a noi, e poi ancora ad altri oltre noi.

Herman Melville, Benito Cereno, traduzione di Bruno Tasso, Rizzoli, Milano 2011