Pynchon, Vizio di forma

Vizio di forma (2009) di Thomas Pynchon porta alle estreme conseguenze quel vizietto che spingeva verso la bolla hard boiled già presente nell’Arcobaleno della gravità (1973). Vale a dire: Thomas Pynchon costruisce adesso tutto un romanzo a partire dallo stile hard boiled. Sotto un certo aspetto, Vizio di forma si presenta come un romanzo di un Raymond Chandler “allargato”. Si può dire allargato agli allucinogeni del mondo hippy entro il quale il romanzo è ambientato. L’investigatore è un ex hippy di origine italiana (hop wop, hop wop! You fucking wop! Benvenuto wop, wop, wop! Maledetto wop wop wop, mangiawopspaghettiswop! Wop, wop, wop, wop), Larry “Doc” Sportello.
Un bastardo può solo imbastardire. L’ho letto da qualche parte. Dove? Comunque un bastardo mangiaspaghetti può solo imbastardire.
Quale sportello capita di sfondare a questo fucking wop, che passa il tempo a fumare via il suo tempo?
Ma è il caso di chiedersi: cosa può dire Pynchon di questo suo wop-personaggio? È come se Pynchon avesse alla fin fine gettato una maschera della sua arte del romanzo. Qui sembra giungere a un dire che è un dire suasorio, consolatorio (che è tutto dire) – ma forse sarebbe più appropriato parlare di involuzione, cosicché da V. si arriverebbe al culmine dell’Arcobaleno per poi iniziare la discesa su un viale del tramonto.
Come si presenta il rapporto con il mito a cavallo tra modernismo e postmodernismo? nel modernismo il rapporto può essere di parodia, come in Joyce – ma allora il rapporto aveva una propria concretezza. Il personaggio aveva una statura che gli veniva dal mito, la parodia era una lacrima tragica. Nel postmoderno, almeno in Pynchon, il mito è un riferimento piatto, simile ai tanti miti moderni che rimandano al cinema, al rock, alla cultura di massa, riferimenti sparsi qua e là nei suoi romanzi come ceneri (in un mercoledì delle ceneri proiettato su un viale del tramonto). Niente statura per i personaggi, tantomeno lacrima tragica. E quindi viene annullata ogni distanza, lo sprofondamento nel mito, ciò che il modernismo poteva ancora rappresentare in uno stralcio di parola (la prima di Finnegans Wake, «riverrun», può essere intesa come riverain, reverons: “sogniamo” – John Gordon, Finnegans Wake: A Plot Summary, Gill and Macmillan, Dublin 1986, pp. 106-07). In Pynchon manca questa prospettiva: tutto è spiattellato come piattamente vicino. Arte del piattello – insisto io). Ma si passa da un argomento all’altro facendo niente più che surf, cioè facendo in modo di rimanere sulla superficie dell’onda più alta. Arte della tavoletta, arte del piattello, arte dell’esibizione del piercing. Arte della modernità, come insegna l’eco della modernità assassina.
Ciò che caratterizza la narrativa postmoderna è la mancanza di un rapporto con lo stile in quanto stile di una terra sopra la quale si abita. Il linguaggio diventa tutto ciò che si può proiettare su uno schermo alzato sopra la terra. Da qui il richiamo allo stile hard boiled – ma perché proprio quello? È giusto porsi questa domanda? Comunque non cambia proprio niente. Il mondo è lì un insieme di oggetti che un cliché stilistico può rappresentare senza riscontrare difficoltà. La rappresentazione del mondo non è problema che il romanzo debba prendere in sua considerazione. (In questo panorama fa eccezione Umberto Eco, che però agisce in assoluta malafede.) Si controlli la presentazione suggerita di Bigfoot: gigantesco e sgraziato, che entra buttando giù la porta a calci. L’immagine rende bene il personaggio, ma è già stata vista al cinema – almeno così sembra, è un cliché che viene usato vicino ad altri.
Per fare un discorso su Vizio di forma bisogna partire dal romanzo in generale, poiché è sul romanzo in generale che la narrativa di Pynchon va maldestramente ad agire. Il romanzo partiva dalla realtà, pretendeva di riflettere la realtà, anche quando si contrapponeva a precise forme testuali (come nel caso del Gulliver). Pynchon sostituisce alla realtà uno schermo su cui proiettare una idea di narrativa. Il romanzo è un modo di mostrare come le cose del mondo stanno insieme costituendo la totalità del mondo; Pynchon proietta l’illusione di mostrare qualcosa del genere. È allora possibile vedere nello schermo di Pynchon una degenerazione dell’opera mondo – anziché una sua ripresentazione – una degenerazione di quello che era la rappresentazione del mondo nelle opere di Musil e Joyce, un universo alternativo che si contrapponeva a quello reale, una possibilità nel grappolo delle possibilità? Pynchon scivola sempre verso un abbandono.
Se il romanzo segnava il trionfo della prosa della vita (vedere le analisi di Hegel e Lukács), Pynchon vi sostituisce la prosa acquisita per difetto da un altro romanzo; non la prosa della vita ma la prosa che è servita a determinare la prosa della vita in altri romanzi. Ma un’epica moderna non è più nei progetti di un grande scrittore, come dimostra il caso di Giorgio Manganelli.
Quello su cui Pynchon sembra insistere è che niente è raggiungibile senza l’aiuto di un cliché, là dove invece il lavoro dello scrittore dovrebbe consistere proprio nel creare un linguaggio adatto alla rappresentazione di un mondo perbene, fittizio appena quanto si vuole, ma che comunque deve essere spogliato proprio dei cliché – al fine di arrivare al risultato su un piano estetico della narrativa. In fondo è l’impresa di Musil.
Guido Almansi aveva notato un collegamento tra Henry Miller e Thomas Pynchon, in base alla nozione di “opera mondo”; è proprio quello che in Vizio di forma sembra mancare. Una punto rivelatore è il momento in cui la moglie di Bigfoot si intromette nella telefonata tra il marito e il mangiaspaghetti (wop) Sportello (cap. 15, p. 253), che ricorda un momento in Tropico del Cancro, quando lo scrittore viene chiamato col suo nome completo da un personaggio con cui parla al telefono: “Lei è Henry Miller?” (Henry Miller, Tropico del Cancro, in Id., Opere. I, Mondadori, Milano 1992, p. 108).
Bello il capitolo finale, che incanta, capovolgendo, quello iniziale, altrettanto tuffato nella nebbia, di Casa desolata. Peccato che Vizio di forma non sia tutto narrato a partire da quei due tuffi nella nebbia? Ma avete notato come i capitoli finali dei romanzi di Thomas Pynchon siano sempre particolarmente belli?
Avremmo potuto avere un romanzo tutto tuffato nella nebbia, ma solo nebbia in gabbia. Il postmoderno non giunge mai ad una scelta tra valori. Il massimo che può fare è costruire una gabbia ironica dove scatenare un caos frastornante per il lettore, come in Pynchon. Meglio che niente! In Eco c’è l’assunzione gretta di valori comuni medi, quindi il richiamo ad una scelta che è già avvenuta, e tutto a favore del buon senso comune. (Peggio che mai!) Tempo fuor di sesto di Philip K. Dick, indicato come una delle fonti dell’Arcobaleno, giungeva ad una scelta finale da parte del protagonista, che nell’Arcobaleno non si pone mai. Il postmoderno è il genere che si costruisce apposta per abolire la possibilità di scelta, indipendentemente dalla fine. Ogni fine è sempre una brutta fine. Solo le parole possono essere prese in esame.

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