Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini

Questo romanzo prende forma da un ricordo improvviso, avvenuto nel corso di una gita estemporanea, da parte di un Narratore, che avverte l’impulso di mettersi a scrivere la storia – cioè quello che egli, in quel momento, riconosce come essere stata la storia – della famiglia Finzi-Contini; famiglia che egli ha conosciuto e frequentato per un certo periodo importante di tempo nel corso della sua vita, in un certo spazio di quel suo tempo a disposizione. Spazio e tempo che egli, adesso, non è più portato a condividere in nessun modo.
La forma del ricordo, dove l’impulso a scrivere quella storia si manifesta in lui, e la forma di romanzo che essa prende, che di quell’impulso si presenta come la sua propria messa in scena, nel romanzo si estende nella forma zoppa in cui forma di ricordo e forma di romanzo ci vengono propugnate.
Il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si presenta infatti come racconto organizzato in un Prologo, un Epilogo e quattro parti che allacciano un totale di ventisette capitoli. Abbiamo quindi una forma comprendente un Prologo, ventisette capitoli distribuiti in quattro parti, e un Epilogo. La Cornice è la spia della struttura zoppa che questo romanzo mette in scena, ma è la spia di una cornice che, nei fatti, meno che mai c’è. Questa cornice zoppa è anche la stampigliatura frusta di ciò che il Giardino impone come modo di percorrere uno spazio che esso esibisce in quanto “terra” a disposizione, e di ciò che il personaggio impone come modo di avere a che fare con esso in quanto ciò che si ha a che fare con quel dato elemento (cioè il giardino) in quanto niente più che personaggio.
La grandiosa microstoria che il Prologo presenta non ottiene conclusione nell’Epilogo. Questo perché quanto presentato nel Prologo è la microstoria che ha la sua conclusione nella discesa sottoterra del Narratore in I/6 (e non nell’Epilogo). La conclusione di quella discesa nel sottosuolo risponde all’andata sulla superficie di ciò che non è stato trovato nel sottosuolo. L’Epilogo presenta solo la conclusione relativa alla storia presentata nei ventisette capitoli che si sono avvicendati dopo il Prologo. Quello che si ricava è quindi una struttura zoppa, che – in questo caso – tutto quello che può fare è mostrare una decoerenza.
A determinare la zoppaggine è il duplice andamento sotteso da questo romanzo, che è riassumibile tramite queste due formule (oppure componenti): “Giardino” e “Interpretazione di Micòl”. Che è ciò che permetterà di passare dal giardino alla donna.
La formula-componente “Giardino” e la formula-personaggio Micòl Finzi-Contini sono infatti pensati nello stesso mondo e funzionano nello stesso modo all’interno di questo romanzo, portando a completo funzionamento le intermittenze che regolano comparsa e scomparsa di queste due vere e proprie rampe di una messa in scena. Fra l’una e l’altra si ha il procedere a piè zoppo. Infatti è di intermittenze che qui si tratta.
Il personaggio di Micòl può essere considerato come personaggio solo in quanto “Interpretazione di Micòl” funzionante in quel romanzo, così come il Giardino può essere considerato come “interpretazione di uno spazio” funzionante in quello stesso romanzo. Entrambe le forme si determinano in funzione al Narratore nella forma di un insieme comprendente una intermittenza regolata da allontanamenti, divieti, sbagli, concessioni attente. Vale a dire: obbligo di procedere a piè zoppo. Con la differenza relativa a ciò con cui si ha a che fare. Fra quelle due forme avviene appunto la decoerenza.
L’Interpretazione di Micòl chiama ad una sospensione; l’interpretazione di uno spazio chiama alla sospensione che richiede una interpretazione che sa di una illazione. L’interpretazione dello spazio è ciò che può essere contrapposta – a tutti gli effetti – all’Interpretazione di Micòl.
Se questa è la via in cui si determina la lettura di questo romanzo, allora è pure logico, da questo punto, determinare la ruga da cui porre la domanda: “come determinare questo procedere a piè zoppo?” Comunque ci poniamo, questa è la via da cui dobbiamo infatti partire.
Vediamo che questo procedere a piè zoppo presenta due forme diverse a seconda dei due elementi considerati, infatti “Giardino” e “personaggio Micòl” sono organizzati in base a intermittenze proprie ai due aggregati, cioè ai due personaggi.
Vediamo di quali intermittenze si parla.
Due sono i punti di partenza: la funzione del giardino e l’interpretazione che Micòl dà dell’amore. Il giardino si pone in una duplice prospettiva: giardino di giorno, frequentato dalla compagnia che ruota intorno al vecchio malandato campetto da tennis, e giardino frequentato anche dalle escursioni di Micòl e del Narratore nei tempi morti fra una partita e l’altra; giardino di notte – presentato solo nell’ultimo capitolo – quando il Narratore vi entra di nascosto e ne deduce la relazione, non si sa fino a quale punto reale, fra l’amico Malnate e Micòl. In qualunque modo lo si consideri, il giardino stabilisce una relazione continua fra tutti gli elementi che erano comparsi davanti al Narratore come indipendenti fra loro. Relazione che il romanzo presenta nel particolare del potente fischio di Alberto, che i due che si erano allontanati lungo il giardino, che il campo è libero.
L’Interpretazione di Micòl (IV/3) è invece il secondo tipo di intermittenza, che culmina nella sua interpretazione dell’amore come sopraffazione di un amante sull’altro. Secondo questa interpretazione, l’amore non è né fusione fra due individui, né compartecipazione fra gli stessi; è invece lotta dell’uno contro l’altro, desiderio dell’uno di sbranare l’altro: loro due (Micòl e il Narratore), ella conclude, non potranno mai amarsi perché non hanno il desiderio di sbranarsi a vicenda (perché uno accetta l’altro secondo la formula di una intermittenza che si basa su di una uguaglianza di partenza). Essi non possono amarsi – ella ne deduce – perché essi sono troppo uguali. Questa reciproca uguaglianza, vale a dire equilibrio, è ciò che porta il Narratore, alla fine della narrazione, a scalare di frodo il muro di cinta del giardino, e, a metà della narrazione, ciò che porta Micòl a fuggire dalla cinta muraria di Ferrara, ma continuando a tenersi con lui in contatto e mandandolo dal fratello, in modo da permettergli di frequentare con regolarità la casa costruita intorno alla cinta muraria e al giardino, dentro le mura di Ferrara.
In entrambi i casi si ha uno squilibrio di partenza: fra il giorno e la notte, nel caso del giardino; fra individuo e altro individuo, nel caso della visione di Micòl dell’amore; con la differenza che Micòl fa leva su questo squilibrio (per lei essenziale al fine di conseguire la formula del vero amore), mentre il giardino si pone (nell’arco di quello stesso squilibrio riconosciuto) cioè come punto di partenza per il proprio annullamento – quando infatti il Narratore, alla fine del romanzo, entrerà nel giardino di notte, e realizzerà quello che sembra una illazione nei confronti dell’amico e della ragazza amata, giungendo alla conclusione di rompere definitivamente i rapporti con i Finzi-Contini (secondo l’Interpretazione di Micòl, ciò che deve rimanere separato non deve più rimanere tale, perché uno dei due deve divorare l’altro – se c’è vero amore). E questo si ricollega alla visita alla necropoli del Prologo, che, tramite le parole di Giannina, diceva che i morti di un tempo remoto, come quelli che giacciono nelle necropoli dei siti archeologici, sono pur sempre morti, come quelli che si vanno a trovare nei cimiteri moderni. Questa constatazione ha infatti effetto di avvicinamento, almeno secondo quanto riferisce il Narratore. Quando il Narratore entra nel giardino di notte per realizzare un avvicinamento (come può essere quello che offre un cimitero moderno), incontra invece quello che la visita ad un sito archeologico offre a un qualunque suo visitatore: la separazione incolmabile tra ciò che è (cioè che è in vita, e lo è ancora) e ciò che è stato (cioè che è stato in vita, e adesso non lo è più).
Non per niente il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si organizza in quattro parti circondate da un Prologo e un Epilogo. Prologo ed Epilogo costituiscono una falsa cornice (cioè una cinta muraria che può essere scavalcata in determinate occasioni, come ignorata in tante altre). La tematica che si affaccia nel Prologo non viene accolta – o viene ricacciata – nell’Epilogo.
Il romanzo sviluppa la storia del ragazzino che ha paura di scavalcare il muro, e scende poi sottoterra, fantasticando di poter rimanere a lungo lì nascosto, aiutato e nutrito dalla fanciulla che lo aveva invitato a scavalcare il muro per entrare nel giardino di nascosto. Il ragazzino arriva per caso in quel punto in bicicletta, quindi adoperando un mezzo di locomozione che prevede il padroneggiamento di un equilibrio. Al ritorno dalla discesa sottoterra, il ragazzino troverà Micòl in equilibrio sul muro. Il mezzo che egli ha utilizzato per muoversi, e che ha appena nascosto sotto terra, è un mezzo prodotto per garantire la mobilità sopra quella parte di terra che si può scorrere da una parte all’altra senza muri od ostacoli di altro genere (salvo poi trovarsi di colpo a rasentare il muro), mentre il muro (su cui egli vede la ragazzina Micòl) è ciò che viene eretto per garantire che ciò che si trova da una parte e dall’altra del muro non possa mai venire trascorsa con un qualunque mezzo atto a scorrere la terra.
Il giardino aveva funzione di protezione nei confronti di Micòl, ma non del Narratore. Perché i Finzi-Contini sono stati deportati in Germania, mentre la stessa cosa non è capitato alla famiglia di appartenenza del Narratore? Che cosa viene determinato (in quel modo) attraverso il giardino? Alberto svanisce, mentre Micòl sembra morire tutto ad un tratto. Il Narratore è indifferente a questo arcobaleno della gravità. Nella sua narrazione ci sono cimiteri, necropoli, tombe faraoniche, morti senza una tomba e un luogo dove il Narratore è come una specie di ebreo errante, che trascorre la terra qui rappresentata dal giardino dei Finzi-Contini; il giardino è allora per lui quella nuova terra che gli viene offerta come terra su cui continuare ad andare. Lì non troverà la morte, vedrà solo persone che muoiono, ma grazie a quel luogo potrà sempre continuare il suo viaggio – in quanto figura mitica – e realizzare la vicinanza tra vivi e morti che è ciò che offre lo spazio di un cimitero e che viene presentato come tema della narrazione di una storia nel Prologo. E quindi del romanzo, che poi egli potrà scrivere.
Nel Prologo vediamo il Narratore trasportato in un movimento, attraverso l’automobile in gita con amici. In questo episodio lo vediamo identificato come ebreo (cosa che poi sarà molto importante) dal proprietario della vettura a seguito di una domanda importuna, relativa a chi è nato prima, posta dalla figlia Giannina a cui il padre risponde (secondo il resoconto del Narratore) con diplomazia in questo modo: «“Prova a chiederlo a quel signore,” disse, accennando a me col pollice.»
È curioso: in quel punto iniziale della narrazione, quando il Narratore non è ancora entrato in scena, ed è trasportato nell’automobile dei suoi amici, si richiama accidentalmente il gesto col pollice dell’autostoppista. Allora Il giardino dei Finzi-Contini sarebbe una riproposizione del tema dell’ebreo errante aggiornato in base all’entanglement e alla decoerenza (richiamati con il gesto dell’autostoppista)?
Come si determina questo giardino, che pure dà il titolo a questo romanzo? Innanzitutto c’è un campo da tennis, che è l’elemento aggregatore della compagnia; poi c’è la parte intorno a questo campo, quello dove Micòl e il Narratore andranno a passeggiare quando il campo è occupato e che ha il suo culmine nella rimessa dove i due stanno insieme nella vecchia carrozza e dove, poche pagine dopo, il Narratore rimpiangerà di non avere preso l’iniziativa di baciarla. Così il giardino sembra essere tutt’altro che un elemento di aggregazione, sempre che un discorso sulla terra possa chiamare in causa qualcosa come un “elemento di aggregazione” (che è proprio ciò che invece non ha nulla a che fare con la terra, semmai ha a che fare con i luoghi asettici dove vengono piantate le moderne città tutte costruite in verticale, che con la terra non hanno più nulla a che fare).
Che tipo di giardino è, invece, dal punto di vista dell’arte paesaggistica, il giardino dei Finzi-Contini? Non è un giardino all’italiana, né alla francese, né all’inglese: è un giardino dove si può andare come spazio che può essere trascorso. Ci sono alberi da frutta, un campo da tennis, alberi secolari, una rimessa, una casa per la famiglia del custode. È un giardino che se ne fa un baffo dell’arte dei giardini.
Eppure il giardino, così come noi lo conosciamo, in quanto arte del paesaggio, è una violenza a quello che, per natura, potrebbe essere di per sé un paesaggio, che dovrebbe presentarsi per quello che soltanto è – e che invece è qualcosa che parte da una separazione che deve essere riparata e la separazione impone un intervento sulla natura. L’arte del paesaggio è la dimostrazione di quanto la terra sia adesso sentita come qualcosa di simile ad un corpo morto da esporre pubblicamente proprio perché corpo che ha cessato di vivere – allora ciò che contiene quel corpo morto è la cornice in quanto bara, ma bara zoppa, e il corpo che contiene in quanto cadavere da esporre, è la terra di quel malandato e malaugurato giardino. Si vede che questa cornice-bara, che espone il cadavere del Narratore, è doppiamente una bara zoppa, e non solo perché i Finzi-Contini di cui parla il romanzo non hanno avuto nessun tipo di cerimonia funebre.
Noi pensiamo la terra solo come terra dove andare e non come terra che chiama il suo abitante.
La spiegazione della funzione del giardino è contenuta nel capitolo finale, quando il Narratore vi entra di nascosto scavalcando il muro, e dopo un po’ camminando, immagina che Malnate abbia ormai la consueta abitudine di incontrarsi con Micòl, o nella capanna nel giardino o nella camera di lei. Nell’Epilogo viene avanzata l’ipotesi che gli incontri tra Malnate e Micòl siano tutta una illazione del Narratore. Eppure è sempre come se il giardino trovasse la sua verità di notte. Ma in quale notte? Questa è la domanda fondamentale del romanzo. Si potrebbe rispondere: nella notte in cui il Narratore sparisce da Ferrara. Ma in quale modo egli sparisce da Ferrara? In un primo tempo il giardino aveva proprio la funzione di disgiungere giorno e notte, morti e vivi, terra da scorrere e terra da abitare, nel tempo in cui la terra non è ciò che viene rivelata tramite la regolare alternanza di luce e buio, soprassuolo e sottosuolo. (Allora ci si potrebbe di nuovo chiedere: in quale modo il Narratore sparisce da Ferrara, senza incappare nelle leggi ormai attive contro gli ebrei?)
Tuttavia il giardino ha, in un secondo tempo, la funzione di riconciliare il Narratore col padre. Quando infatti il Narratore ritornava a casa tardi, e il padre lo chiamava sentendolo arrivare, era consuetudine del Narratore fare finta di non avere sentito, e chiudersi in camera; ma non quella sera, e infatti, quando il padre lo chiama, egli risponde subito, e questo porta ad una lunga chiacchierata fra padre e figlio; chiacchierata che disgiunge per sempre “il figlio Narratore” dai Finzi-Contini e da Malnate.
Ma qual è la domanda che il padre pone al figlio, nel momento in cui il figlio ha risposto, per la prima volta, alla chiamata che il padre, per tante volte, gli ha inviato, sentendolo rincasare di notte: “Scommetto che siete andati a donne” La terra e la donna, in questo personaggio di vecchio padre depresso adesso dalle leggi razziali, vengono viste come la stessa cosa da trascorrere fugacemente, di nascosto, ma sempre con l’orgoglio “di razza” da trasmettere da padre in figlio, cioè con l’orgoglio di vedere sempre trascorrere la terra. Quel padre ebreo è felice che quel figlio ebreo sia andato a donne in quella notte che, per la prima volta, il figlio ha risposto alla sua chiamata. Nella riposta affermativa del figlio, il vecchio padre vede l’appartenenza “di razza”, che se ne può fare un baffo delle leggi razziali contro gli ebrei, perché “scorrere la terra” è ciò che salvaguarda la “razza”. Il figlio ha sempre un po’ disprezzato quel padre che non ha mai compreso, ma adesso, che, scorrendo la donna che lo ha accettato in quanto giovane che le si è presentato semplicemente per “andare a donne”, ed è stato accettato da una donna in quanto realizzazione dell’espressione “andare a donne”, cosa invece che Micòl non permetteva assolutamente, egli può rispondere a quanto chiede il padre. Giustamente, a conclusione della chiacchierata, quello che il padre dice sono solo nozioni indispensabili per l’arte di trascorrere la terra, da padre (medico) a figlio: «“E soprattutto: se la mattina, svegliandoti, ti capitasse di notare qualcosa che non va, vieni subito in bagno a farmi vedere. Nel caso, ti dirò io come devi regolarti.”» (IV/9, p. 225).
Quando adesso il figlio risponde, dimostra di essere perfettamente in grado di scorrere la terra, per questo ha accettato il dialogo con il padre, mentre prima lo aveva sempre rifiutato. Ma la questione sta in quella domanda del padre ebreo al figlio ebreo: “Siete andati a donne?” È lì che la questione dello scorrere (scorrere la terra, scorrere la donna) si fissa e si rilancia. Appunto, si rilancia di padre in figlio. Avere imparato a “scorrere la donna” vuole dire smettere di scorrere il giardino, ma imparare, contestualmente, a “scorrere la terra”.
Come tutti i padri, anche il padre del Narratore, sotto il peso delle nuove leggi razziali, non ha altro cruccio in testa che quello di insegnare al figlio come farsi strada nella vita (vale a dire, insegnargli l’arte di “scorrere la terra”). Che è quello che gli permette di fare elegantemente fagotto, così come il figlio, una volta imparata l’arte, può alzare i tacchi da Ferrara. Installarsi a Roma, dove poi lo vedremo in una breve gita con amici all’inizio del romanzo.
Questo perché la terra, così come la donna, leggendo quel romanzo, potrebbe comparire come una cosa da proteggere, così come soltanto cosa da trascorrere. Ma in quel romanzo né la terra né la donna sono mai viste come cose da proteggere.
Che cosa viene identificato, allora, come tradizione, in questo romanzo?
Questo è appunto il terreno su cui il romanzo procede a piè zoppo. Tramite i suoi personaggi principali, questo romanzo presenta una specie di adeguamento alla tradizione ebraica, eppure nemmeno più di tanto. In quanto lettori, veniamo a sapere di una tradizione che in parte viene derisa da Micòl quanto dal Narratore (cioè dai personaggi principali di questo romanzo). Per il padre del Narratore, tradizione vuole dire “scorrere la terra”; e “scorrere la terra” è ciò che permette al Narratore di scorrere il giardino; per il Narratore “scorrere la terra” è qualcosa che egli può fare diverse volte, nei confronti del giardino dei Finzi-Contini; per Micòl “scorrere la terra” è qualcosa che, invece, non può essere mai essere legittimata. Da qui la sua chiusura nei confronti del Narratore. La soluzione è nella domanda che, da tanto tempo, il padre, che si è tenuto nascosto nella sua camera, può infine porre al figlio: “Siete andati a donne?”. In quanto lettori, veniamo informati che molte volte il padre ha chiamato il figlio, sentendolo rincasare tardi di notte. Sappiamo che il padre, dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali in Italia, soffriva di insonnia. Ma il figlio, prima di quella volta, non aveva mai risposto a quella chiamata. Invece quella volta risponde: perché? Tra padre e figlio c’è una domanda sospesa, che il figlio aveva sempre evitato di sentirsi porre e che il padre non aveva mai avuto modo di porgli. Il figlio risponde alla chiamata del padre quando sa di avere la risposta alla domanda che il padre non gli aveva mai posto. Ma che adesso, nel momento in cui il figlio risponde alla chiamata del padre, il padre può formulare completamente: “Siete andati a donne?” dice la domanda; il figlio può adesso rispondere con orgoglio: “Siamo andati a donne!”. Tra padre e figlio c’è adesso il rapporto che non avrebbe mai potuto esserci prima, dato quel guazzabuglio di cose, che comprendeva il giardino e la donna, che questo romanzo presenta con estrema precisione. Il figlio andava nel giardino, mentre la donna di quel giardino lo teneva prudentemente a distanza; per il padre non era tanto importante che il figlio andasse in quel giardino in quel modo, quanto che imparasse ad andare da Micòl come “andare a donne”, vale a dire che imparasse l’uguaglianza tra la terra come cosa che deve essere trascorsa e la donna come cosa che deve essere trascorsa, quindi che imparasse come andare nella “terra”. Che è la cosa che tiene lontana il significato della parola nordica þing, che nella lingua italiana vuole solo dire “cosa” – e niente di più. Cioè che una cosa è una cosa. È questo che il padre chiede con quella semplice e stonata domanda: “Siete andati a donne?”; la risposta del figlio si intona perfettamente alla stonatura e lo pone in grado di rompere i rapporti con il giardino dei Finzi-Contini e con la donna del giardino dei Finzi-Contini.
Stonatura che però non riguarda un modo di rispondere per dissonanze, semmai il contrario.
Che tipo di narratore viene allora fuori? Un narratore che deve trarre le conseguenze dal suo avere a che fare con un terreno, un ambiente, ma non mai un mondo.
Questo disgiungimento ha senz’altro funzione simile a quella della necropoli di Cerveteri: avvicina ciò che è diviso, ma riafferma il principio stesso della divisione.
Il Giardino è passivo nella sua accettazione dello scorrere la terra da parte del Narratore, mentre Micòl è attiva nella sua repulsione nei confronti del Narratore.
Che cosa si può trarre da questo romanzo, inteso come redazione effettuata dal protagonista, cioè da colui che, in mancanza di un nome può essere identificato come “il Narratore” (a cui però si presenta la funzione sempre possibile del narratore)?
C’è un rapporto con la terra, che in questo romanzo viene sempre inteso come “vicinanza”. Questo tipo di rapporto beffardo si ripresenta anche con la donna – che compare come legata a quella terra in quanto giardino.
Ricordare il punto in cui Micòl accusa il Narratore di sfruttare qualunque occasione di vicinanza con lei per baciarla e strusciarsi contro di lei. Vediamo come si presenta nell’originale, cioè secondo il resoconto del Narratore: «Aggiunse che da molto tempo in qua il mio modo di condurmi non era dignitoso: né per me, né per lei. Lei me l’aveva detto e ripetuto mille volte che era inutile, che non cercassi di trasferire i nostri rapporti su un piano diverso da quello dell’amicizia e dell’affetto. Macché. Appena potevo, io, al contrario, le venivo addosso con baci e altro, come se non lo sapessi che in situazioni come la nostra non c’è niente di più antipatico e controindicato. Santo Iddio! Possibile che non riuscissi a trattenermi? Ci fosse stato fra noi in precedenza un legame fisico un po’ più profondo che non quello determinato da qualche bacio, allora sì che lei avrebbe potuto capire che io… che lei mi fosse entrata per così dire nella pelle. Ma dati i rapporti che erano sempre intercorsi fra noi, la mia smania di abbracciarla, di strusciarmi contro di lei, non era il segno probabilmente che d’una cosa sola: della mia sostanziale aridità, della mia costituzionale incapacità a voler bene davvero. E poi, andiamo! Che cosa significavano le improvvise assenze, i bruschi ritorni, le occhiate inquisitorie o “tragiche”, i silenzi immusoniti, gli sgarbi, le insinuazioni cervellotiche: tutto il repertorio di atti inconsulti e imbarazzanti che esibivo instancabilmente, senza il minimo pudore? Pazienza se le “scenate coniugali” le avessi riservate a lei sola, in separata sede. Ma che anche suo fratello e Giampi Malnate dovessero esserne spettatori, questo no, no e poi no.» (IV/5, p. 196). Notare come il Narratore esponga chiaramente la riprovazione di Micòl nei confronti di lui, senza cercare di giustificarsi in nessun modo. Questo è tutto, fuorché onestà. Probabilmente il segreto dell’Interpretazione di Micòl sta proprio qui: il Narratore si identifica completamente con le ragioni della persona con la quale si sta confrontando, senza nulla chiedere, così come il Giardino non poteva essere posseduto più di tanto (non essendo una terra ma solo un terreno dove andare). Sembra che proprio qui stia la questione dell’ingranaggio (poiché di ingranaggio di romanzo piantato qui si tratta): ma ricordare che quello che noi leggiamo di questo atteggiamento, da parte del Narratore nei confronti di Micòl, non è ciò che noi leggiamo soltanto come parole che il romanzo consegna a noi, ma come parole che il Narratore presenta come parole che il personaggio Micòl ha consegnato a lui, e che il Narratore, in quanto personaggio del romanzo, consegna a sua volta a noi, lettori di quella storia malnata.
Micòl come signora del giardino offre un punto in cui andare, o un punto da cui andare, ma mai una traiettoria lungo la “terra”, perché la terra è ciò su cui ella, signora di un giardino, non ha nessuna signoria. Così il punto piantato su un terreno deve contrapporsi alla traiettoria, perché la traiettoria è ciò si svolge sopra una terra. L’incontro con Micòl non offrirà mai al Narratore una traiettoria lungo la terra, che porta infine all’incontro con la donna.
Considerando invece il richiamo alle leggi razziali, nel modo in cui compaiono in questo romanzo, ci si può chiedere: che funzione hanno, a livello di meccanismo del romanzo, queste piccole leggi razziali? Se svolgessero appena il ruolo di una punteggiatura? Sappiamo, prima di tutto, che sono ciò che permettono la riunione di una piccola compagnia estemporanea intorno ad uno scalcagnato campo da tennis nel giardino dei Finzi-Contini.
Che non è cosa da poco da sapere.
Il Narratore della vicenda è stato sempre precisato in quel ruolo come colui che ha avuto l’occasione di sfruttare diversi tipi di vicinanza. La “vicinanza” è ciò che la bambina del Prologo, Giannina, ha chiamato come segmento appropriato per colmare la lacuna tra vivi e morti. Lacuna che non riguarda solo i morti collocati nei cimiteri moderni, dove la visita alla tomba ha funzione di surrogato alla visita che prima si rendeva alla casa di quelle persone – quando quelle persone erano vive; ma anche i morti delle necropoli archeologiche, che sono stati collocati nelle tombe dove, ormai, nessuna visita può avere la funzione di surrogato alla visita alle case che si rendeva a quei vivi. È su questo nuovo rapporto tra morti da tanto tempo e morti da poco tempo, che la bambina instaura la vicinanza, ma è invece su una vicinanza tra morti che riposano in cimiteri e morti che non riposano in nessun cimitero che, con la sua andatura zoppa, questo romanzo si mette in moto.
La bambina Giannina del Prologo richiama la Micòl ragazzina, che, in I/5, sfida il Narratore a entrare di nascosto nel Giardino. Ma per entrare nel Giardino, il Narratore deve nascondere, su indicazioni di lei, sottoterra, il veicolo che gli ha permesso di mantenersi in equilibrio fino a quel punto (quindi, seguendo le indicazioni della bambina, deve privarsi di quel veicolo basato sull’equilibrio, che gli ha permesso, fino a quel momento, di non effettuare nessuna scelta fra i mondi che venivano scorsi a uguale distanza, tenuti appunto in equilibrio). La bicicletta gli ha permesso di arrivare al punto in cui il Giardino può essere violato, ma contestualmente gli ha impedito di oltrepassarlo. Per effettuare quella violazione, bisogna infatti farla finita con quel veicolo, cioè nasconderlo, seppellirlo sottoterra come una cosa morta.
Il modo migliore per nascondere qualcosa è nasconderlo sottoterra. Se il veicolo ha permesso al Narratore di mantenersi in equilibrio sopra la terra, tutto allora cambia sottoterra; se la sfida è lanciata dalla bambina del Prologo (passare il muro nel giorno in cui il Narratore non ha passato tutti gli esami), ed è ripresa dalla ragazzina in I/5, allora c’è da chiedersi quale sia lo schieramento posto in campo dal Narratore, essendo il Narratore non così sprovveduto come potrebbe sembrare. In questo gioco delle tre carte, egli è infatti, tra le due carte in bilico, quello che salva pelle e palle d’un sol colpo. Ciò che avviene sottoterra è ciò è destinato a tornare in superficie. Ma qui non pare succedere.
Non è poco per determinare questo romanzo.
Il romanzo Il giardino dei Finzi-Contini si organizza intorno a un campo da gioco, che è il gioco del tennis. Sappiamo che l’amore per quel gioco è ciò che ha permesso la riunione di quella compagnia intorno a quel piccolo e malandato campo, che del campo da tennis, a livello professionale, conserva ben poco, stando a quanto dicono i vari personaggi del romanzo. Quasi tutte quelle persone erano state cacciate dal circolo di tennis al quale erano iscritte (il circolo Eleonora d’Este di Ferrara). La cacciata era avvenuta dopo l’applicazione in Italia delle leggi razziali del 1938. Tuttavia, al di fuori della nozione puramente legata alla data, il romanzo non dice nient’altro di più. Vale a dire: non dice niente in quanto concerne l’amore oppure l’odio per ciò ciò che è capitato di avere a che fare con la terra.
Questo potrebbe anche essere un ottimo segno. Ma poi vediamo che abbiamo solo a che fare con un certo modo di regolare dei comportamenti relativi alla consuetudine di stare lì.
Se confrontiamo l’episodio che vede “i vecchi” comparire durante le partite che si svolgono nel giardino e l’episodio che vede il Narratore scacciato dalla Biblioteca perché ebreo, vediamo che la differenza non è molta, per quanto i due episodi siano di natura completamente diversi. Il fatto è che questa differenza si riduce a qualcosa come un accomodamento con nuovi principi imposti da un’autorità avvertita da sempre come qualcosa alla quale ci si deve presentare, si deve obbedire, ma sentita da sempre come qualcosa di estraneo. Qualcosa che non regola la terra, ma qualcosa verso cui, scorrendo la terra, bisogna avere a che fare, mantenendo il comportamento più equilibrato possibile.
La famiglia dei Finzi-Contini viene definita dal padre del Narratore come “gente strana”, da cui è meglio tenersi lontani (non in equilibrio, ma lontani). Gente, egli sostiene, che poteva persino arrivare a vedere di buon occhio le leggi razziali in cammino sulle vie che si stendono dentro le mura di Ferrara.
È questo che rivela un preciso atteggiamento verso la terra: che permette a ciò che non ha nemmeno un giardino di definire ciò che ha un grande giardino come “gente strana”. E la stranezza vale da tutte e due le parti: ricordare il punto il cui il Narratore nota la stranezza del professore Ermanno Finzi-Contini che chiede a lui, anziché ai propri figli, di occuparsi dei suoi scritti.
Si può dire, allora, che quello con cui il Narratore si trova a confrontarsi non è altro che l’impossibilità di stabilire un progetto, vale a dire un fine? La terra non offrirà un radicamento quanto uno sradicamento, il giardino non offrirà una visione completa, il rapporto con Micòl non offrirà uno sbocco. Ma è quanto permetterà al narratore lo sblocco, che avverrà appunto abboccando alle provvidenziali leggi razziali. Infatti nascondere la bicicletta nel sottosuolo è ciò che permetterà al Narratore del Giardino di mantenersi come un signore dell’equilibrio (cioè di mantenersi come il signore di quel mezzo a cui egli ha appena rinunciato). Nascondere la bicicletta nel sottosuolo non è solo nascondere ciò che gli ha permesso di restare in equilibrio fino a quel momento, ma è ciò che gli permetterà di sfruttare un nuovo equilibrio, che comporterà la rottura con i Finzi-Contini, con l’amico Malnate e infine con la città dentro le mura di Ferrara. Alla volta della “città aperta” di Roma.
Il rapporto del Narratore con quell’insieme – che può essere tanto Giardino quanto Donna – si basa su di un abuso di trattare la terra quanto di trattare la donna. L’abuso nei confronti della terra è ciò di cui egli, in quanto individuo, non è responsabile; l’abuso nei confronti della donna è ciò di cui egli, in quanto individuo, è responsabile. Da qui il suo resoconto autoaccusatorio. Che è il romanzo che noi leggiamo.
In questa fantasia il Narratore mette in atto un rapporto manchevole, basato su una vicinanza: nel suo sogno del sottosuolo egli rimarrà sempre vicino alle strade e alla gente di Ferrara, aiutato da una donna di Ferrara alla quale egli si potrà sempre appoggiare per soddisfare le sue più immediate esigenze. Ma questo non è quello che vuole il padre del Narratore, che invece spinge il figlio a scorrere la terra.
Forse il problema è proprio questo: che i due personaggi principali del romanzo, il Giardino e Micòl, non si integrano abbastanza per offrire una contrapposizione veramente lineare al Narratore (che del romanzo è l’indiscutibile protagonista).
Il Narratore in quanto figura unica deve vedersela con un elemento tripartito che a volte gli si presenta come Giardino, a volte come Donna. In un primo tempo il Narratore sarà chiamato ad affrontare il Giardino nella forma più semplice e completa: scavalcare il muro di cinta nel punto più facile, dove ci sono gli appigli, secondo le indicazioni fornitegli dalla figlia tredicenne dei proprietari; egli non si azzarda a passare, trova la scusa della bicicletta, che verrebbe lasciata incustodita; Micòl gli insegna allora dove nasconderla: in un rifugio sottoterra, che, quando egli vi accede, lo porta a fantasticare intorno ad una vita nascosta, lunga anni e anni, aiutato attivamente da Micòl.
Di questo cunicolo (wormhole) e di questa stanza sotterranea nel romanzo non si parlerà più (peccato, si potrebbe dire, ne sarebbe uscito l’ECO di qualcosa di qualche romanzo d’appendice!), eppure è quello che mette in moto la vicenda che si svolge in superficie: è la messa in moto del pensiero che prende il via dalla ruga di sottoterra.
Quello che si può dire di un personaggio non è qualcosa che possa scendere più di tanto nella profondità di un testo, ma qualcosa che possa gravitarvi intorno come campo di possibilità che possono sempre essere dette. Per leggere un testo, bisogna familiarizzarsi con qualcosa di simile a una tabella di possibilità ridotta a un minimo grado. È probabile che alla critica letteraria manchi, adesso, lo strumento pari a qualcosa come l’equivalente di una costante di Planck.
Dove determinare, allora, la differenza tra Giardino e personaggio? Il Giardino è ciò che non propone l’Interpretazione, che invece è ciò che caratterizza Micòl; il Narratore non dà voce al Giardino, mentre dà voce a ciò che Micòl gli ha detto sul modo che egli ha di comportarsi nei confronti di lei. Il Giardino accoglie solo nella sua ultima manifestazione, in quanto Giardino di notte (mentre Micòl non ha mai accolto, salvo permettere il giudizio di lei nel resoconto di lui attraverso le parole di lei) e questo permette una interpretazione da parte del Narratore, che ne ricaverà la possibile relazione tra Malnate e Micòl – ma niente invero di più. Il Narratore non potrà raccontare come la terra sia stata incisa per fissare i morti dei pochi Finzi-Contini da lui conosciuti (essendo state, quelle persone, deportate nei campi di sterminio nazisti – che miravano ad alleviare la terra, ma ciò che nel mondo è entrato di soppiatto, dall’ambiente deve uscire in malo modo), ma può riportare il modo in cui, nelle parole che Micòl gli ha rivolto, egli si strusciava addosso/appiccicato a lei in un modo a lei sempre inopportuno. È come se l’ammissione di non poter scavare una terra, anche solo per depositare dei morti, dovesse giustificarsi con la soddisfazione sostitutiva di uno strusciamento sopra quella terra. È infatti questo che il giardino offre al Narratore (per quanto nella doppia forma di Giardino e di Donna). Mentre il Giardino è, nei confronti del Narratore, il sostitutivo della terra, ciò che il giardino offre concretamente al Narratore è il sostitutivo della donna. Questo perché? In quel giardino non si può piantare niente, così come quella donna non accoglierà mai in sé, ma quel giardino potrà essere occasione di scorrimenti, così come – furtivamente – anche quella donna. Così questo porta alla questione di base: il falso rapporto dell’ebreo con la terra e il vero rapporto della terra con colui che abitava quella terra, che l’ebreo gli ha tolto. È questa la nascita del fantasma o del morto che ritorna a pieno diritto sulla terra. Il Narratore è qui quella cosa inconsistente che, impropriamente, esige da Micòl quella cosa che l’ebreo gli ha sempre tolto, cioè la terra.
Sappiamo che il protagonista, a un certo punto, alza i tacchi da Ferrara; mentre il padre del Narratore a un certo punto è obbligato a fare fagotto. Fare fagotto è chiudere da qualche parte (o valigia o fagotto) quello che si vuole portare via; alzare i tacchi è andare via senza avere il tempo di portare via niente. Alzare i tacchi è la libertà dell’autostoppista, che lo consegna alla strada. Sappiamo delle leggende metropolitane dell’autostoppista fantasma, del fantasma di Elvis che fa l’autostop; perché non pensare anche l’ebreo errante come autostoppista, appena fuori le mura di Ferrara? La bambina aveva posto una domanda su chi era nato prima (tra Etruschi ed Ebrei); il padre della bambina, per rispondere, indica il suo amico con il gesto che qualifica l’autostoppista. Colui che fa il gesto per essere trasportato è colui che viene identificato come personaggio che occupa invece un punto nel mezzo che lo trasporta, non come autostoppista, ma come amico nell’arco di una gita che prevede la possibilità di scorrere un segmento di quel terreno che essi occupano, ma non abitano. Quella persona era tanto l’autostoppista accolto, che la bambina ha permesso di riconoscere, quanto l’amico che faceva parte di quella gita, grazie a una sovrapposizione, cioè al semplice gesto col pollice del padre e alla nozione di decoerenza.
Tanto la terra che compone quel giardino, quanto la donna, che ha funzione di signora di quel giardino, sono spogliati, nel romanzo di cui si sta trattando, della propria caratteristica: essere qualcosa di sacro. Tanto quel giardino, quanto quella donna, permettono di essere bellamente inseriti in un romanzo a partire da una spogliazione che riguarda il sacro. Ma che cosa vediamo, quando ci innamoriamo?
Che cosa è l’amore? per il Narratore è la vicinanza opportuna che c’è sempre stata fra loro due (Narratore e Micòl), che deve essere sancita, ad un certo punto, formalmente; per Micòl l’amore è invece ciò che squarcia la vicinanza importuna che, per un caso o per l’altro, fra loro due c’è sempre stata, ma che ad un certo punto, in caso di vero amore, dovrebbe essere interrotta, affinché uno possa sbranare l’altro. Il Narratore chiama una visione ridotta dell’amore (un uomo nascosto sottoterra, una donna che gli assicura una vita tranquilla da fantasma sulla superficie), ma Micòl chiama la visione a quel punto estrema dell’amore: le leggi razziali, dove una parte può legittimamente sbranare l’altra, in nome della terra dove abitare. Terra che comunque ella non ha mai posseduto. Ma è per questo che il padre del Narratore, lungo tutto il romanzo, fa sempre notare al figlio che i Finzi-Contini hanno tutto da guadagnare dalle leggi razziali. Il padre del Narratore ha infatti guardato con apprensione il probabile amore tra il figlio e Micòl: concedersi a Micòl non vuole dire permettersi di vivere nascosto sottoterra protetto da Micòl, ma scatenare in pieno le leggi razziali, con tutte le estreme conseguenze. C’è forse qualcosa, in questo romanzo, che possa essere collegato, o anche soltanto ricordare, l’amore per la terra e l’amore per la donna? Pensando allora l’amore come qualcosa che collega la terra e la donna? Io penso proprio di no.
Non può esserci amore se non attraverso la Terra del Sacro. Ma come parlare di amore in questo romanzo che, intitolato ad un “giardino”, non può nemmeno stabilire che cosa sia, in fondo, un giardino?
La donna è una cosa. Ma è la cosa che solo la parola dell’antico islandese þing può restituire in quanto riunione di tante cose, assemblea, cioè itinerario in terre che non avremmo pensato di conoscere, prima dell’incontro con quella “cosa” che ha riunito tante cose diverse davanti a noi, donando loro l’autentico significato nuovo. Il dono dell’amore è il dono che fa a pezzi colui che non conosce il significato della parola þing. È questo che dice l’Interpretazione di Micòl. Micòl Finzi-Contini, in quanto donna mai esistita, è una cosa che ha in sé il significato di questa riunione di tante cose. Che pure è il dono dell’amore. Il Narratore è colui che non conosce il significato della parola þing, e quindi sbaglia tutto nel suo incontro con Micòl. Può ricevere amore (avvertendo egli il significato della parola þing), ma non dare amore (non conoscendo egli il significato pieno di quella parola). Il personaggio Micòl, in quanto datrice di amore e realizzazione della parola þing, avrebbe dovuto confrontarsi con un personaggio in grado di riconoscere il significato di quella parola. Il Narratore non poteva corrispondere; il professore Ermanno Finzi-Contini è colui che meno sa del significato della parola þing. Si rivolge al Narratore, che, per un caso o per l’altro, secondo lui, potrebbe anche saperne, a quel punto, più di lui (per questo gli propone di occuparsi dei suoi scritti). Gli scritti del professore Ermanno riguardano allora l’avvicinamento al concetto di donna in quanto “riunione”. Ma che cosa sa il Narratore su cosa si nasconde nella parola norrena che sta per la parola italiana “cosa”? Noi non lo sappiamo, ma sappiamo che egli sceglie di fuggire quando la donna glielo spiega, senza ricorrere al significato lontano, che probabilmente ella stessa non conosce; da questa lezione il Narratore non ha imparato niente e quando scrive intorno a quella cosa che lo ha fatto fuggire, non dice altro che ciò che ha imparato dalla sua lingua: “una cosa è una cosa”. Salvo riportare precisamente le parole che la cosa (cioè la cosa in quanto riunione di cose, vale a dire la donna) aveva rivolto a lui, con precisa ferocia.
Ma se giardino e donna trovassero invece una loro propria icona? Allora sarebbe proprio una più che falsa icona.
Il film realizzato dal romanzo nel 1971 da Vittorio De Sica, mostra proprio come, tagliando il Prologo, si possa dare sgambetto pieno all’andatura zoppa caratteristica di questo romanzo. (Ma sappiamo che lo sgambetto allo zoppo non gli fa mai perdere il passo, semmai il contrario!)
Nel film il Prologo viene tagliato; mentre viene sceneggiato in un modo completamente nuovo l’Epilogo, che nel romanzo è presente solo a livello indiretto. Il risultato è che tutto quello che c’è in mezzo, cioè gran parte del materiale del romanzo, funziona solo in quanto serie di link per lo spettatore che ha leggiucchiato il romanzo, o che magari lo ha letto. Così il film può utilizzare stralci di dialoghi decontestualizzati, valevoli solo per colui che ha leggiucchiato il romanzo, o forse lo ha letto, mentre il risultato è che viene perduto il significato che quei dialoghi avevano nel romanzo, vale a dire la funzione che le parole fissate in quei dialoghi svolgevano – così come, parlando a livello di Gestalt, un do naturale suona sempre allo stesso modo di qualunque do naturale, ma suona in un modo diverso se il do naturale ha funzione di tonica oppure di dominante.
Il film comincia con la compagnia che si riunisce per terminare il torneo di tennis bloccato a causa dell’applicazione delle leggi razziali in Italia: il romanzo comincia con il ricordo del Narratore che vuole realizzare una vicinanza tra vivi e morti, non permessa in quel caso come con la visita ad un cimitero, perché i Finzi-Contini, almeno quelli che egli ha conosciuto, non hanno una sepoltura in un cimitero. L’inizio del film riprende materiale dei primi due capitoli della seconda parte del romanzo. Quindi è legittima la domanda: qual è la storia che viene raccontata nel film e qual è la storia che viene raccontata nel romanzo da cui quel film è stato tratto o sottratto? Domanda che pone la legittimità della domanda di fondo: come si determina la storia in quanto racconto unico da modulare – vuoi in forma di romanzo, vuoi in forma di film – cioè in forma di storia unica?
Nel film la mancanza della “terra” iniziale si ripresenta come presenza di un ipotetico luogo ultimo di un andare insieme, padre del Narratore e Micòl, come luogo di raccolta di ciò che non ha mai avuto “terra”, ma che ha tolto terra a chi, legittimamente, la possedeva, permettendo al nuovo narratore (nel film chiamato “Giorgio”), di raggiungere un ambiente dove organizzare il testo del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini – che sarà un nuovo ambiente ma non una terra, e infine il soggetto di quel film (e quindi niente di più che una menzogna sulla terra).
Violando per la prima volta, di notte, il giardino dei Finzi-Contini, di colpo, così come di colpo, nel Prologo, si rende possibile la visita alla necropoli di Cerveteri, scavalcando il muro, il Narratore ha reso possibile la vicinanza non tra tutte le possibili forme del mondo, ma fra tutte le possibili frasi del mondo (compresa la frase che stabilisce che il suo amico intrattenesse, da tempo, una relazione con Micòl, e che sfruttasse le particolarità di quel giardino per incontrarsi regolarmente, segretamente, con lei, magari con la tacita approvazione della famiglia di lei, essendo sempre stati, i Finzi-Contini, secondo le parole del padre, “gente strana”), dal canto suo, Micòl aveva rivelato solo al Narratore il punto in cui scavalcare il muro, perché era il punto che ella lo aveva così organizzato come punto per passare da una parte all’altra. Ma la violazione del muro (avvalendosi di quella parete attrezzata) è anche ciò che ha permesso in fondo al Narratore di prendere la decisione di allontanarsi stabilmente da Ferrara, ottenendo l’opportunità di scrivere infine quella storia che ha contribuito a confermarlo come autore, ma che non instaura, nemmeno questa volta, cioè a livello di romanzo da lui scritto, un rapporto con la terra. Semmai il contrario.
Visto che si è accennato al film, bisogna dire che, nel film, il personaggio meglio rappresentato è quello che se ne fa un baffo di tutta la situazione messa in campo dal romanzo: Romolo Valli, nella parte del padre del Narratore, nel film chiamato Giorgio, come l’autore del romanzo.
La vergogna che si prova nel dover interpretare sciocchi modi di dire dell’alingua italiana, come “andare a donne”, è niente in confronto alla vergogna che si prova ad avere, comunque, sempre a che fare quando si ha a che fare con quell’ingombrante ammasso di stupidità che è la lingua italiana, quando la si vede sempre comparire in piena vita da tutte le parti; vergogna che può essere compensata dal piacere e dalla speranza di contribuire a fare sparire, finalmente una volta per tutte dal mondo, quella brutta cosa che è l’alingua italiana (che coincide con la lingua italiana, cioè con l’alingua degli italiani, perché la prima cosa chiama sempre la seconda cosa) e contestualmente fare sparire dal mondo quell’ammasso di gente diverse che si è trovata a non poter fare altro che fare suo quell’ammasso di parole diverse per rosicchiare quel posticiattolo in quel terreno.

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