Friedrich Dürrenmatt, “La panne”

L’impegno ad una storia ancora possibile chiama ad una critica ancora possibile. Se alla base del romanzo c’è una forma in cui tutto si collega a tutto, allora alla base della critica del romanzo deve esserci un pensiero che collega tutto a tutto.
C’è un curioso racconto di Friedrich Dürrenmatt che porta il titolo La panne.
Compito dello scrittore è incuriosire verso alcune parole della lingua dove lo scrittore ripropone – a coloro che lo leggono – l’impatto con la lingua comune che collega lingua di uno scrittore e lingua dei lettori.
Sappiamo che, nella maledetta lingua degli italiani, con la parola “panne” si intende qualcosa relativo ad un arresto improvviso da parte di un veicolo a motore.
Lo scrittore Friedrich Dürrenmatt costruisce un racconto sulla parola “panne” che potrebbe sembrare riguardare – appunto – l’arresto improvviso di un veicolo a motore.
Leggendo il racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt si ha l’impressione di leggere un racconto riguardante il personaggio Alfredo Traps che si trova bloccato in un punto del territorio da lui in quel momento trascorso per ritornare a casa, dopo una giornata di lavoro, a causa di un arresto improvviso della sua automobile (automobile di gran lusso, che – statisticamente – non avrebbe dovuto subire un arresto improvviso come quello causato da una “panne”). Ma l’arte cocciuta di Friedrich Dürrenmatt si accapiglia proprio in quel punto.
Compito dello scrittore è incuriosire su alcune parole che ogni parlante della lingua dello scrittore utilizza ormai per abitudine acquisita, senza più dovere più essere portato a pensare nel momento in cui utilizza quella o altre parole di quella lingua. Vale a dire: esente da alcun dovere. Questo perché? La lingua è qualcosa che deve dare l’opportunità di filare liscio come con una automobile di lusso lungo un territorio conosciuto (che si presume di potere possedere appunto perché lo si può scorrere con monotona regolarità), senza tollerare impatto come quello provocato da una panne. Anche se, bisogna ammettere, un arresto improvviso a causa di una panne può sempre essere possibile.
Lo scrittore interviene quando tutti si comportano come fosse possibile continuare a parlare continuando ad attingere dal tesoro della lingua – che è il tesoro della razza, nel momento in cui, proprio sulla razza, è stato messo il bando (il bavaglio) a pensare, cioè ad attingere, anche quando ciò che rimane è solo il fondo dei luoghi comuni. Lo scrittore è così colui che, unico fra tutti i parlanti quella lingua, si rende conto di un pericolo che corre la Lingua.
La Prima parte del racconto è costituita da un unico paragrafo senza divisione in capoversi, che comincia con la domanda: «Gibt es noch mögliche Geschichten, Geschichten für Schriftsteller?». È interessante la seconda parte della domanda, “Geschichten für Schriftsteller”, perché pone il collegamento fra Geschichten e Schriftsteller. Se la nostalgia per la mancanza di una storia come Geschichte ancora possibile, rimanda al paragrafo 74 di Essere e tempo, la divisione del racconto in due parti rimanda invece alla divisione più generale che Essere e tempo pone fra Geschichte e Historie. Il racconto di Dürrenmatt parla soltanto di Geschichte (senza richiamare mai la possibilità di una Historie), ma pone una differenza fra le due parti, che richiama la differenza fra Lingua e Parola.
Come primo traduttore italiano di Essere e tempo, Pietro Chiodi ha risolto la differenza fra le due parole tedesche come differenza tra storia vissuta (parola tedesca Geschichte, resa con la parola italiana “storia”) e storia riportata da altri (parola tedesca, ma importata nella lingua tedesca, perché di origine latina, Historie, resa con la parola italiana “storiografia”).
Ma la Prima parte di questo racconto pone altresì un interessante collegamento con quello che diceva Artaud: si va a teatro come si va al bordello. (E infatti Alfredo Traps vede quella sosta come un invito al bordello, cioè come ad un incontro con ragazze facili da abbordare, che in quei piccoli paesi è molto facile trovare.) Indipendentemente da Alfredo Traps, noi sappiano che la letteratura tende a diventare confessione psicologica. Eppoi, indipendentemente da Alfredo Traps, la confessione psicologica tende a diventare “letteratura bell’e buona”, cioè cosa di mercato, buona per le grame analisi di mercato di Umberto Eco (il meticcio italiano Umberto Eco), e le grame scorribande narrative del mercato frequentato da Umberto Eco (il meticcio italiano Umberto Eco), cioè puro intrattenimento (chiacchiere di mercatanti, bifolchi che si congiungono al mercato sfregandosi le mani). È a questo punto che lo scrittore potrebbe dire che non c’è più nulla da raccontare. Il pericolo che corre la Geschichte è infatti la minaccia rappresentata dalla Historie. Quale differenza nasconde la differenza tra Geschichte e Historie? Io proprio non lo so, forse perché non mi occupo delle chiacchiere del mercato. Ma so di un pericolo che minaccia la razza, ad opera del meticciato.
Però si sa che, come nota FD anche in questa occasione, per chi trascorre la modernità non c’è più un dio che minacci, ma solo incidenti che accadono così, tanto per caso. Il destino non è più ciò che avviene sulla scena, ma ciò che è intento a passeggiare fra quinte vuote. Infatti il dio-destino sta abbandonando la scena della letteratura per mettersi a passeggiare lungo le quinte vuote della paraletteratura (come lo vedremo anche fare in altri testi di Friedrich Dürrenmatt).
C’è una lettera di Nietzsche (datata 2 gennaio 1886) che dice come niente di grande possa essere realizzato nella vicinanza alla sporcizia degli italiani. Forse è il caso di mantenere viva questa “sporcizia degli italiani”, ora che il mondo tende a cancellare le differenze. Mantenere viva la “sporcizia degli italiani” è un modo per segnalare ciò che nel mondo deve essere soppresso, in modo da cominciare a pensare finalmente ad una terra alleviata. Cioè ad una terra che merita di essere alleviata. Questo è un giro del mondo che si può fare solo unendo critica e romanzo. Allora: Viva il romanzo saggio! Ben venga il romanzo saggio, il romanzo enciclopedia, l’opera mondo (se non sbaglio)!
Il dio che passeggia ora fra le quinte della paraletteratura ha allora qualcosa in comune con il protagonista che occupava prima la scena – non vi pare? È da questa prospettiva che si può immaginare il protagonista del racconto La panne, che è colui che trascorre la modernità. Ma la storia che allora se ne deduce non può che essere il resoconto riflesso dal monocolo di un ubriaco. Questo è appunto l’avvertimento che Friedrich Dürrenmatt ci rivolge.
Lo scrittore è colui che non ha altro che la Parola a sua disposizione, quando la Lingua è però ancora il tesoro della razza. In quel momento lo scrittore è colui che ha il privilegio di passare dalla Parola alla Lingua. Ma è anche colui che ha la responsabilità di portare oltre la lingua in qualcosa che riguarda solo il tesoro della razza. Lo scrittore violenta la lingua che ha a disposizione, e in alcuni momenti raggiunge la Lingua.
Pensare per razze è ciò che adesso fugge e fiuta con la paura di scatenare la caccia. Questo è il motivo per cui un pensiero di questo genere deve lasciare meno tracce possibili – per i tanti cani lanciati sulle piste di quella magra caccia. È infatti una questione di piste su cui si deve essere più che pronti sempre a pensare. (Non vi sembra?) Come nel caso di un racconto sì tanto sbilanciato in due parti. Che tuttavia non nasconde la domanda fondamentale: che cosa vuole dire “pensare per razze”, quando solamente la parola “razza” è la cosa a cui è stato messo il bando?
Cosa vuole dire toccare il meccanismo del romanzo poliziesco, dappoiché il romanzo poliziesco si basa su lo squilibrio provocato dal diritto che ha un individuo qualunque alla propria vita, avendo ogni individuo diritto a sua propria vita?
C’è (mi sovviene) un romanzo poliziesco che capovolge mirabile struttura di romanzo poliziesco: il delitto turba no equilibrio alcuno; il delitto non è commesso da un assassino ai danni di una persona che aveva tutto suo pieno diritto di continuare a vivere; il detective non consegna il miserabile responsabile dell’omicidio alla giustizia affinché ottenga suo più che giusto punimento, perché il detective rinuncia a consegnare alla giustizia il criminale che, in virtù di sua più che attenta perizia, ha incontestabilmente trovato come essere l’artefice di quel delitto, perché quell’omicidio non turba equilibrio alcuno, ma, a lo contrario, restaura equilibrio ben più profondo. Questo perché la vita, che quell’omicidio ha troncato, era vita indegna di vivere. Ma nessuno pensa più a qualcosa come vita indegna di vivere.
Sto parlando, messeri, di Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie.
Passare dalla Parola alla Lingua è passare dalla storia che delimita un qualunque individuo all’arte di pensare per razze.
Nel romanzo La promessa Friedrich Dürrenmatt si pronuncia sulla terra: se si fosse stati attenti a coloro che, da tempo, avevano preso l’abitudine di scorrere la terra, questi assassini, che adesso sporcano la terra con i loro delitti, non avrebbero mai avuto occasione di esserci stati, vale a dire di esserci passati. Perché queste cose non avrebbero avuto modo di scorrere la terra. Infatti si tratta di “cose”, non di esseri umani. E questo la dice lunga sul tipo di enunciati con cui sarebbe bene non avere più niente a che fare.
Quello che l’arte narrativa di Friedrich Dürrenmatt sembra volere cominciare a fare, è richiamare l’attenzione su diversi comportamenti di essere sulla terra, nella forma di: 1) abitare la terra; 2) scorrere la terra; 3) occupare la terra.
Il tempo della cupa occupazione della terra è il tempo in cui il romanzo poliziesco viene ripensato da Friedrich Dürrenmatt in quanto arte dello scrittore, cioè arte che chiama il rapporto fra Lingua e Parola. È il tempo in cui non si può pensare nuova forma alcuna (vale a dire nuova forma epica) ma in cui uno spogliamento della vecchia forma del romanzo può essere… (come posso dire?) di nuovo riproposto.
Scrittore è colui che ha il compito di sorvegliare la lingua in quanto tesoro della razza.
Nel racconto La panne, Friedrich Dürrenmatt stabilisce una strana forma divisa in una prima parte, che riguarda il Pericolo, e in una seconda parte che riguarda uno svolgimento di quello che è stato presentato come possibile pericolo occasionale, provocato appunto da una panne. Ma che rappresenterà il pericolo estremo per il personaggio capitale di quella storia (che solo in quella prospettiva di pericolo poteva presentarsi).
Quando si parla di un pericolo bisogna parlare di carcasse portate via di nascosto in tutta fretta. Magari a causa di un contagio che minaccia una lingua, come in questo caso – mi sembra di capire (non siete d’accordo?)
Noi non sappiamo che cosa sia il pericolo. Sappiamo che quello che Friedrich Dürrenmatt ci invita a pensare, in questo suo racconto, riguarda un pericolo. Che è il pericolo che corre la razza.
Nella Prima parte del suo racconto, Friedrich Dürrenmatt parla solo di un pericolo che corre la lingua. Ma nel momento in cui la corsa, individuata come corsa della lingua, si interrompe – a causa di una panne – il pericolo è ciò che corre l’individuo (e che lo impone come protagonista di un racconto che deve essere, in numero di parole, più lungo, dovendo portare in causa un insieme attento di molte psicologie – la psicologia è infatti ciò che adesso fornisce la base del racconto).
Nella Seconda parte del racconto, Friedrich Dürrenmatt parla di un pericolo che sembra correre Alfredo Traps. Ma di che tipo è il pericolo che corre l’individuo Alfredo Traps, in confronto al pericolo presentato nella Prima parte del racconto? O meglio: il personaggio protagonista della Seconda parte del racconto, corre veramente un pericolo?
La Prima parte del racconto presenta il pericolo che la lingua corre; la Seconda parte presenta il pericolo che l’individuo trascorre, nel momento in cui è solo la parola a sostenere l’individuo (avendo la lingua fatto fagotto completo lungo la Prima parte).
Che cosa è, allora, il pericolo che corre la razza? È la perdita della possibilità di creare storie. Infatti il sottotitolo del racconto precisa: “Una storia ancora possibile”. Pericolo che riguarda l’impoverimento della lingua. (Il pericolo di creare storie è allora il pericolo di creare storie in cui il pericolo corso dalla parola permetta di salvare il pericolo corso dalla lingua. Per questo l’individuo Alfredo Traps può diventare sostituto del pericolo che corre la razza.)
Una storia è ancora possibile. Storia ancora possibile che lo scrittore fornisce… ad una condizione.
Abbiamo visto che la Prima parte è più o meno qualcosa che suona come una “Nota dell’autore”: non è un racconto. La Seconda parte presenta invece una storia a tutti gli effetti: vale a dire il caso del povero Alfredo Traps bloccato a causa di una panne in un villaggio, dove rimedia un posto dove passare la notte.
Sembrava una notte tranquilla, e invece no. Segniamoci, per comodità, che la Prima parte riguarda qualcosa che ha a che fare con la lingua; mentre la Seconda parte riguarda qualcosa che ha a che fare con la parola, e andiamo avanti – anche se si potrebbe pure dire che non è così.
Qual è il punto fondamentale della Seconda parte, quello che scatena tutta l’azione? È senz’altro il momento in cui Traps ammette di aver “fatto fuori” il suo superiore Gygax, subentrandogli poi a tutti gli effetti.
È a questo punto che la macchina interpretativa si mette in moto. Il pubblico ministero Zorn fiuta puzza di omicidio, ma di un omicidio molto, molto ben nascosto. Un omicidio che, a rigor di logica, non è nemmeno un omicidio; un omicidio che, in fondo, appena appena potrebbe essere classificato come omicidio, ma che tuttavia, per noi, in quanto lettori, non possiamo che sapere essere un omicidio. Nessun cadavere presente in un libro puzza mai di morto. Questo ne fa in tutto un omicidio bene accolto da noi lettori.
Perché questa è la faccenda, cioè la cosa da fare. Heidegger lo ha sfiorato nella conferenza Il pericolo. Faye lo ha fermato (facendolo poi insieme tanto infuriare).
La “cosa”, in quanto riunione di più cose diverse, è la nuova nozione su cui deve essere formulata la nuova nozione di essere umano. Che non ha niente a che fare con la vecchia cosa che adesso, di tanto in tanto, sembra sempre chiamare aiuto per essere ripristinata.
Faye aveva perfettamente compreso quello che, per lui, era il pericolo che aveva fermato nella formula “l’introduzione del nazismo nella filosofia”, avvenuto tramite il pensiero di Heidegger. Che equivale a dire: l’introduzione del pensiero del nazismo nella filosofia. Un pensiero diventa pericoloso quando si rivolge contro ciò cui fino a quel momento costituiva la normalità dell’essere umano. Ma se il pensiero è la caratteristica più vertiginosa dell’essere umano, perché rinunciare allora alla vertigine del pensiero, se il pensiero si pone, infine, a pensare la soppressione di qualche parte di quello stesso genere umano, andando quindi oltre ciò che fino a quel momento aveva costituito la normalità dell’essere umano? È un pensiero apertamente contro una parte dell’umanità, cioè un pensiero che non considera più l’uguaglianza di tutti gli esseri umani come valore imprescindibile, secondo le direttive del cristianesimo, appunto perché si richiama ad un pensiero diverso. È un pensiero non più antropomorfo, come ha detto Klossowski dopo avere letto Sade. Un pensiero che deve sprofondare la vecchia nozione di essere umano, affinché una diversa nozione di essere umano possa comparire come un Nautilus a navigare in superficie. Noi non sappiamo se questa nuova nozione di essere umano potrà essere migliore della precedente, ma diversa lo sarà senza dubbio. (Per quanto mi riguarda, l’importante è che questa nuova epoca non abbia più niente a che vedere col meticciato; e – sempre per quanto mi riguarda – preciso, col meticcio italiano. Da qui l’importanza del nazismo e l’importanza del pensiero di Heidegger, pensiero che ha avuto la fortuna della sincronia con il momento storico in cui si tentava la trasformazione della nozione di essere umano. Il giudizio che poi si può dare sul nazismo è irrilevante in base all’energia che quel pensiero (dico il pensiero di Heidegger) ha ricavato da esso.
Nietzsche è stato il primo a teorizzare l’importanza della pericolosità del pensiero in rapporto alla comparsa di un pensiero nuovo, cioè ad una pratica di pensiero che finora non era mai stata tentata. Il Superuomo è appunto una di queste vie nuove imboccate da quel pensiero, che non ha nulla a che vedere con un soggettivismo anarchico scatenato, tipo l’artista del Fuoco di d’Annunzio o il Mafarka di Marinetti, semmai con l’allevamento di un tipo diverso di uomo (come notato da Sloterdijk): vediamo allora che è solo il vecchio umanesimo che deve pacificamente finire di crollare. Deve fare fagotto affinché non ci si trovi più a doverne parlare.
La commedia di Dürrenmatt I fisici tratta il tema della pericolosità del pensiero. O meglio, il tema “la pericolosità del pensiero” viene trattato, nella commedia I fisici, proprio come il tema che non deve essere trattato, ma scartato come cosa “da pazzi”, relegata in una struttura simil-manicomio. Indirizzare la pericolosità del pensiero vuole dire intravedere un nuovo tipo di essere umano, che però si può raggiungere solo con un adeguato progetto di allevamento, che deve essere portato avanti tramite lo sforzo dello Stato. Il superuomo non nasce per caso. Così il testo de I fisici mostra proprio questo (per difetto). Quello che la nuova epoca deve accettare di pensare è la frantumazione di milioni di cocci, fino ad allora ritenuti esseri umani: cioè pensare il genocidio come primo passo per abitare la terra. Che è quello che porterà la liberazione. Cioè la terra come terra alleviata, che potrà allora essere abitata. Quanto siamo distanti da una nuova letteratura… Più o meno quanto tanto siamo distanti da un nuovo pensiero (non vi pare?).
Ma perché? Noi lettori abbiamo intanto l’impressione di seguire gli stravaganti ragionamenti di quattro pazzi e condividiamo intanto, trepidanti, i tentativi di difesa del povero Alfredo. (Ci chiediamo: riuscirà a uscire vivo dalla trappola in cui questi quattro pazzi lo vogliono chiudere per farlo secco? È questa la trappola che attende noi in quanto lettori, se consideriamo il meccanismo messo a punto da FD solo come trappola per topolini – mouse trap, si dice a proposito dell’Amleto – della Seconda parte, che prevedono lo spettacolo di un topolino preso in trappola.)
Ma che cosa sta succedendo, proprio sotto i nostri occhi, nelle righe che, incantati, noi lettori, seguiamo con i nostri occhi? Stanno succedendo due cose: il senso figurato viene inteso come senso reale; il senso reale, così invaso, torna indietro verso colui che ne aveva sancito la nascita solo in quanto senso figurato.
Ma soprattutto succede che quello che noi leggiamo è “letteratura”, cioè è un racconto, una storia divenuta ancora una volta possibile. Che è quello che noi volevamo, che il testo proponeva e che noi abbiamo cercato mettendoci a leggere il racconto. Però è letteratura solo perché preceduta dalle considerazioni della Prima parte breve. Il pericolo è quindi che la letteratura non venga più riconosciuta come letteratura.
La macchina giudiziaria, difensiva e accusatoria, che si mette in movimento in quel punto, costruisce sempre di più su quel senso figurato preso per senso reale. Noi sappiamo che sono menzogne, ma ci piace leggere quelle menzogne perché sappiamo che sono menzogne e perché sappiamo che quelle menzogne (solo in quel momento) costituiscono quella cosa che è la letteratura; noi ci divertiamo, ogni nuovo castello di menzogne predisposto dal pubblico ministero Zorn ci entusiasma e vorremmo che quella proliferazione di menzogne non avesse mai fine. Perché tutto quello è letteratura. Era quello che volevamo nel momento in cui ci siamo messi a leggere un racconto, cioè un testo di narrativa, sapendo che quello che avremmo letto era finzione, castello di menzogne, perversione di quel linguaggio che usiamo ogni giorno per entrare in contatto con la gente che sta intorno a noi; parodia di quel linguaggio da noi usato; presa in giro di quel linguaggio per noi indispensabile; questo perché, nel momento in cui volevamo la letteratura, eravamo tutti d’accordo a volere la letteratura, sì, ma la letteratura come menzogna. Nel momento in cui abbiamo accettato di leggere un testo di narrativa, siamo stati al gioco che imponeva di vedere in Traps un assassino. Pur sapendo che Alfredo Traps non esiste, perché è una cosa pensata per fare funzionare un meccanismo letterario, cioè un meccanismo che esiste solo come finzione di un meccanismo che lo contiene e lo produce di volta in volta. E perché amiamo la letteratura, ci diverte, ci fa sentire vivi con i suoi assurdi paradossi. La letteratura deve essere una menzogna, un insieme articolato di menzogne, menzogne divertenti da leggere, che si ascoltano con piacere, che si vorrebbe non avessero mai fine. Più un libro è assurdo, più lo adoriamo; proprio perché assurdo.
Ma se il campo della letteratura non deve essere invaso, meno che mai la letteratura deve invadere il campo altrui.
La Prima parte avverte di un pericolo: il pericolo che corre la letteratura nel momento in cui inclina verso il giornalismo, cioè verso una socializzazione delle frasi, verso il rispetto di una verità a tutti i costi, statisticamente determinata anche solo in base al buon senso, cioè ad una promozione determinata dal sociale, che sempre più si vuole oramai solo social. Questo è ciò che minaccia la letteratura e che finisce poi per strangolarla.
La letteratura può essere tale solo nel momento in cui innalza i suoi castelli per aria in aria libera perché non liberal. Meno che mai senza avere a che fare con il political correct stabilito dai social.
Così la letteratura non implica la responsabilità dell’autore. La letteratura è infatti un gioco che deve essere giocato rispettando le regole di quel gioco: più ci si inoltra nelle campate di quel gioco, più ci si avvicina alla soglia in cui il pensiero diventa pericolo. Pensare la pericolosità del pensiero è pensare oltre la soglia in cui il pensiero non coincide più con la verità condivisa dalla maggioranza.
Il pensiero è ciò che distingue la libertà della letteratura dalla letteratura come gioco frivolo. Intendo gioco del tipo OULIPO. (Sento puzza di Perec; ma ancora più sento puzza di morto… tanta puzza di Calvino, per non dire di Umberto Eco, morto da meno tempo. Ma, come che sia, sento sempre tanta puzza di morto.)
La letteratura può accedere al pensiero solo nel momento in cui pensa il compito che le è stato affidato, che non consiste nel raccontare storie, ma nel pensare gli elementi che permettono la costituzione di tante storie che, in quanto letteratura, la letteratura è chiamata a rendere conto in quanto costituzione. Questo è quello che ha fatto lo scrittore Roberto Musil.
Mi fa molto piacere vedere che questo è appunto quello che non ha mai fatto nessuno “scrittore” italiano. Se la letteratura è qualcosa della vita di un popolo, allora la letteratura italiana si conferma, una volta di più – e a tutti gli effetti – vita indegna di vivere.
Auspico una letteratura in cui il meticcio italiano sia nominato come ammasso cui spetti la stessa sorte toccata tempo fa a zingari ed ebrei: carro bestiame, canna fumaria.
La panne vera è ciò che si verifica nella Prima parte del racconto; la panne descritta alla vettura di Alfredo Traps, all’inizio della Seconda parte, è invece ciò che l’arte del racconto definisce come “panne”, cioè come dimostrazione di quanto appena stato proposto (il caso divino che blocca una efficientissima automobile di lusso).
Allora perché lo sbilanciamento? Quello che doveva avere poca importanza, diventa invece l’elemento della massima importanza. Noi pensiamo il racconto come la cosa più importante. Per questo, dovendo riassumere il racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt, riassumiamo soltanto la storia presentata nella Parte seconda, cioè la storia del povero Alfredo (Traps), dimenticando quando detto nella Prima parte.
Questo perché pensiamo l’individuo, cioè quanto intrappolato nella storiografia e non pensiamo più la razza, cioè la storia (Geschichte, ciò di cui noi non abbiamo ancora il dire a tutti gli effetti).
La paraletteratura è legata a un progetto di serializzazione della letteratura, così come il meticcio, che è il creatore della paraletteratura, è il prodotto di una serializzazione di un tipo razziale, cioè di una replicazione golemica. La cui replicazione, ormai bisogna accettare, è giunto il tempo di pensare di interrompere – in modo razionale.
La Seconda parte impone uno sviluppo che – a livello di struttura – deve essere sostenuto. Da qui qualunque finale disastroso, come quello che si vede. Per questo io dico, finalmente, che il meticcio italiano è quella cosa rivoltante che deve essere condannata a morte.
Friedrich Dürrenmatt si è legato alla paraletteratura, soprattutto nella forma del romanzo poliziesco (ricordate il “requiem per il romanzo giallo” stipulato intorno ad una Promessa?). La paraletteratura è un pericolo per la letteratura. Così come la forma del meticcio è un pericolo per la forma della razza.
Adesso la condanna a morte può essere stesa su una pergamena e firmata da tutti i partecipanti a quel gioco scaturito, come tante altre volte, da una panne (che prevede la forma garantista di avvocato difensore, pubblico ministero, giudice, boia), il libro può essere stampato e la prima copia del libro può essere consegnata gioiosamente al suo autore, ma quando, in questo caso, i quattro signori entrano nella stanza di Traps, si accorgono che Traps si è impiccato – rovinando la festa. Quella festa doveva essere la migliore in quanto dire della letteratura, perché Alfredo Traps aveva fornito la storia migliore. Ma dire quanto la letteratura non può essere portata a dire, è dire quello che la letteratura non può essere portata a dire e così è inevitabile rovinare la festa. Infatti si parlava di una critica ancora possibile.
Come si sono sentiti, quei quattro vecchi di merda, in quel momento? Più o meno come mi sento io, quando il vecchio Dante di merda mi slinguaccia in faccia la sua haka.

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