Un’arte nichilista

La musica è un’arte nichilista. In nessuna altra arte si può esprimere un impulso nichilista così efficace e convincente come nella musica. (Ricordare quello che diceva Mishima.)
Qualcosa lega l'”Allelujah” del Messiah al rondò della nona sinfonia di Mahler.
Bachtin: la musica gira intorno alle parole, ma più le affronta, più la musica le fa esplodere. Bachtin vedeva nella polifonia letteraria la possibilità di inglobare più parole in una sola parola di personaggio; ma la musica dissolve la parola. In ogni occasione, anche attraverso la polifonia.
Il concetto di “Dio” è l’ultima arte possibile in grado di comportare un’opera d’arte offerta allo sguardo di uno spettatore.
Se la musica è nichilismo organizzato, un compositore può trasferire il potenziale nichilista della musica in una persona. Secondo il necrologio scritto da Donald Mitchell per la morte della figlia di Mahler Anna, ella aveva molto della musica del padre, quasi fosse una creazione della musica di lui. Il compositore avrebbe allora la capacità di trasferire la caratteristica della propria musica in campi completamente diversi? Ma qui c’è un’altra ambiguità: una creazione di Mahler o una creazione della musica di Mahler? È come la penombra di una discendenza gnostica.
La parola è suono, ma il suono dissolve la parola.
La poesia è musica in agguato.
La musica è pura struttura. Poesia e letteratura possono avvicinarsi alla musica.
La musica è un gioco nichilista proprio nel suo poter fare a meno delle parole senza poter fare a meno di un pensiero che richiama la parola per la sua completa espressione. Quello che viene scatenato è la traiettoria di un sistema complesso di pensiero. Ripensare a quello che diceva Mishima: la musica come bestia feroce in gabbia.
La musica gira sempre attorno alle parole: ma più le affronta, più le fa esplodere.
La letteratura si avvicina alla musica solo come cattiva letteratura: Umberto Eco come patetico caso di stravinskismo letterario.
Solo la vera poesia è invece musica in agguato.
Ma la musica è poi quella cosa che noi siamo abituati a conoscere come musica?
C’è un giudizio di Heidegger sull’ultima sonata di Schubert molto particolare: «Questo noi non possiamo farlo con la filosofia.»: è come se la musica aprisse nuovi campi al pensiero, in un mondo che il pensiero non può fare. Certa musica di Schubert colpisce per il suo tono divinamente compatto (il primo tempo della nona sinfonia, l’ultima sonata per pianoforte). Si avrebbe allora nella musica la coesistenza del pensiero e del suo annullamento. Un pensiero che procede per strappi. E la musica di Schubert sarebbe prima di tutto pensiero geniale. Il naturale impulso nichilista della musica può avvicinarsi alla genialità. Un pensiero geniale potrebbe attualmente essere un pensiero autenticamente in grado di strappare da sé il principio del terzo escluso.

 

 

 

 

     Il necrologio di Donald Mitchell compare in A. Joseph, A. Mahler, M. Mahler & D. Mitchell, Mahler’s Smile: A Memoir of his Daughter Anna Mahler (1904-1988), in D. Mitchell & A. Nicholson [Edited by], The Mahler Companion, Oxford University Press, Oxford 2002, pp. 593-6.

     Nello stesso volume c’è anche il giudizio sul rondò della nona sinfonia sopra ricordato: S.E. Hefling, The Ninth Symphony, in D. Mitchell & A. Nicholson [Edited by], op. cit., pp. 483-4: «But Mahler’s compositional tour de force of negativity is the Rondo-Burleske. Originally dedicated “To my brothers in Apollo”, it is the most syntactically untraditional, contrapuntally complex, and riotously sardonic movement in all Mahler’s oeuvre – as La Grange comments, Mahler never ventured further into nihilism than here.»

     Il giudizio di Heidegger sulla sonata di Schubert è riportato in R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, Longanesi & C., Milano 1996, p. 402.
Le riflessioni di Mishima sono tratte da E. Ciccarella, L’angelo ferito. Vita e morte di Mishima, Liguori Editore, Napoli 2007, p. 105: «In realtà la distanza che lo scrittore prendeva dall’universo musicale era il frutto di un profondo terrore inconscio, che poi diventerà invece molto cosciente quando confesserà: “Provo un terrore inusuale per questa cosa informe chiamata suono”; o quando paragonerà la musica ad una bestia feroce imprigionata in una gabbia, un gabbia inaffidabile che poteva cedere da un momento all’altro.»

     Per quanto riguarda lo “stravinskismo”, vedere G. Gould, L’ala del turbine intelligente, Adelphi, Milano 2007, pp. 303-6.

Terra dove andare

Per Carl Schmitt (Il nomos della terra) la parola greca nomos comprende la prima misurazione della terra a seguito di una occupazione. C’è un collegamento che riguarda nomos e occupazione della terra. «L’anello di recinzione, la cinta formata da uomini, il Mannring, sono forme originarie della comunità di culto, giuridica e politica» (p. 65).
Il greco nomos può essere accostato al verbo islandese nema. Cleasby-Vigfusson (An Icelandic-English Dictionary, s.v. nema) riporta anche: «in a lawful sense, nema land, to take possession of a land as a settler». landnám è «the taking land, a law term» (ibid., s.v.). Il derivato landnámamaðr indica l’uomo (maðr) che ha preso (rad. nema) la terra (land), attuando in essa il proprio insediamento.
Un testo medioevale islandese si chiama Landnámabók: libro (bók) della presa della terra (landnáma), ed è un resoconto della presa della terra in Islanda. In questo testo si riportano diversi modi di prendere la terra. Ma il prendere la terra era allora un qualcosa legato a una scelta su cui l’individuo non esercitava scelta, fuorché la scelta di non esercitare scelta. Landnámabók: «Þá er Ingólfr sá Ísland, skaut hann fyrir borð öndugissúlum sínum til heilla; hann mælti svá fyrir, at hann skyldi þar byggja, er súlurnar kœmi á land.» (p. 42) [Quando Ingólfr vide l’Islanda, gettò fuori bordo i pilastri del suo seggio alto e disse che avrebbe costruito là dove i pilastri fossero arrivati a terra]. Scegliere la terra era dunque accettare un luogo verso il quale si era chiamati da una terra alla terra.
Una terra presa era una terra protetta da spiriti guardiani, che potevano accettare o respingere o chiamare coloro che sfioravano la terra. Un vento divino veniva così a proteggere la terra. Questo è l’incanto fragile che collega antica storiografia scandinava e antica storiografia giapponese.
Adesso si pensa alla terra solo come terra dove andare. Molti sono i modi di andare per la terra: andare per turismo, andare per sopravvivere, andare soltanto per abitare in un altro luogo della terra. Si vogliono difendere i diritti di coloro che vanno per la terra per sopravvivere. Si vuole accogliere in una terra che si sente come la propria. Dimenticando la cosa fondamentale: non è l’individuo a scegliere la terra dove abitare; ma la terra a chiamare il suo abitante.

Libri sfiorati:
     C. Schmitt Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1998.
     Cleasby, Vigfusson, Craigie An Icelandic-English Dictionary, Oxford University Press, Oxford 1986.
     Íslendingabók – Landnámabók, Íslenzk fornrit, Reykjavík 1986.