L’eco del romanzo popolare

È probabile che la carriera di romanziere di Umberto Eco abbia la sua origine negli studi sul romanzo popolare raggruppati infine nel volume Il superuomo di massa (I edizione parziale 1976, edizione definitiva 1978. Il nome della rosa è del 1980), che infatti ha come sottotitolo: Retorica e ideologia nel romanzo popolare. I romanzi di Eco ricostruiscono molto del romanzo d’appendice, si presentano appunto come l’eco del romanzo popolare in base alle caratteristiche esposte in quegli studi: la trama è avvincente, il protagonista è un “superuomo”, il bene e il male sono sempre divisi in base a quello che per la società dell’epoca in cui questi romanzi vengono scritti costituisce la demarcazione imprescindibile tra bene e male. Nel saggio Le lacrime del corsaro nero Eco distingue romanzo problematico e romanzo popolare soprattutto in base al rapporto che essi pongono nei confronti della divisione tra bene e male: nel romanzo problematico l’intera costruzione fa sì che tra bene e male sia possibile avvertire una leggera ambiguità, indipendentemente dalle posizioni dell’autore; nel romanzo popolare nessuna ambiguità è concessa: il bene è solo ciò che quella società ritiene essere bene, il male solo ciò che quella società ritiene essere male. «In una parola, il romanzo popolare tende alla pace, il romanzo problematico mette il lettore in guerra con se stesso. Questa la discriminante; tutto il resto può essere (e spesso è) in comune).» (U. Eco, Il superuomo di massa, Bompiani, Milano 2005, p. 13). Nei romanzi di Eco non compare mai la minima ambiguità. L’accettazione della differenza tra bene e male, con il suo congegno di date, il suo richiamo a fatti e romanzi, segna la ricaduta in un progetto che si potrebbe definire di stampo patetico-politico: il bene è solo il buonismo che l’ideologia di una ormai blanda sinistra indica come bene, il male ciò che l’ideologia di una altrettanto blanda destra indica come bene. I romanzi del cattolico Tolkien, con il loro grande successo popolare, erano di gran lunga più proiettati verso il romanzo problematico di quanto non risultino essere i dottissimi romanzi dell’illuminista Eco. Essi infatti si limitano a confermare una situazione acquisita, non insinuano il minimo dubbio. Non solo: confermano che aderendo alla più pacchiana ideologia dominante si può ottenere il successo, fare un sacco di soldi e ottenere la fama di grande uomo di cultura indipendente.
La grande truffa del romanzo popolare è all’opera nella sua interezza.

Biografia

Sulla biografia, in senso teorico e pratico, c’è ancora molto da affrontare. Smantellare innanzitutto l’idea del curriculum, cioè del riconoscimento di una o più mete raggiunte in un dato arco di tempo, che pure è la traccia che maggiormente la insidia, può essere un utile punto di partenza.
Si può scrivere la biografia di Agatha Christie: a vent’anni ha scritto questo, a trenta quest’altro, a x anni ha cessato di vivere. La biografia diventa così una estensione del curriculum. Questo va bene solo per la letteratura di massa. Nel caso di un grande scrittore l’approccio è diverso È solo per pigrizia intellettuale se non lo si è notato finora? Un grande scrittore compone quello che una data confluenza di temi e libri porta a dover essere finalmente composto. Compone quello che non si può più fare a meno di comporre. L’autore si determina così non in base a una continuità di carriera, quanto in base a discontinuità e scomposizioni di temi. Che io sappia, attualmente, questo metodo è stato applicato in modo soddisfacente solo da Hugh Kenner in L’età di Pound.
Un grande artista ha una profonda diffidenza verso tutto ciò in cui si può dare a riconoscere l’uomo. Egli, infatti, mira a una serena non umanità. In fondo, può dipendere dal fatto di vedere sempre la propria opera come già completa e compiuta (ed egli stesso come cosa in un canto). Ogni artista è; da sempre, e non ha bisogno di un apprendistato o di un divenire. Quindi una biografia dovrebbe partire proprio da questo?

L’opera futura

Una incognita grava sulla possibilità di un’opera futura. Soprattutto c’è da chiedersi: “ci sarà ancora l’opera?”
Nietzsche era consapevole che una parte del suo pensiero doveva essere comunicato solo oralmente: riguardava una parte che non poteva essere letta, ma che doveva vivere nelle persone che l’avevano udita dalla sua voce. «Insomma, per dire tutta la verità: in questo momento vado cercando persone che possano raccogliere la mia eredità; io porto dentro di me diverse cose che non si possono assolutamente leggere nei miei libri – e per queste sto cercando il terreno migliore e più fertile.» (F. Nietzsche, Epistolario, vol. IV. 1880-1884, Adelphi, Milano 2004. Lettera 249, a Lou von Salomée, pp. 199-200).
Una parte di un pensiero si determina così come rifiuto di un’opera, cioè della dell’opera scritta. Intesa in senso tradizionale. Il pensiero si oppone alla stesura scritta del pensiero. Esso deve essere movimento, e fare presa su persone in movimento.
Forse la letteratura, un giorno, avrà posto solo nel pensiero. Un pensiero allenato apposta per dare vita alla letteratura e a ogni forma di saggistica, o di filosofia. E non ci sarà più bisogno dell’opera scritta.

La mancanza di opera

L’ozio sulla spiaggia dell’animale marino, il piacere non affrettato del tempo di darsi al mare, sono sottili elementi che entrano in gioco in Aurora e nella Gaia scienza, come dimostrano le lettere di Nietzsche del periodo. E ne insinuano il testo. Nessuno storico della filosofia potrà mai stabilirne la concettualità, per quanto essi siano presenti. Ecce homo li richiama. L’opera si regola in un viluppo di stati d’animo attorno alla composizione di un testo che si dirama nella sua assoluta incomunicabilità. Ma l’opera così intesa apre alla mancanza di opera. Che è ancora tutta da determinare. La mancanza di opera in quanto culmine del processo creativo o ciò che essa avrebbe potuto diventare al di fuori del concetto stesso di opera – che è appunto ciò a cui si deve concretamente infine pervenire. Ma il risultato di questo compito non sarà meno una dissoluzione dell’opera quanto un riconoscimento dell’inutilità delle opere a noi note?

Autodistruzione

Rimbaud e Musorgskij.
Quello che sa un genio.
Sapere di appartenere a razze inferiori. Che cosa fare della propria opera? Musorgskij: affogarla nell’alcol. Rimbaud: fare soldi con il traffico degli schiavi. Lo spirito si manifesta dove vuole.
Solo la timidezza di un artista può pensare un dio. Ma solo un popolo può pensare dei con certezza di pensare il ritorno degli dei. L’ultimo dio chiama solo la timidezza all’arte di pensare dei.
L’arte di buttare via il proprio genio è la birra vomitata in faccia al meticciato. Sapevano, Rimbaud e Musorgskij, di essere meticci? Sapevano di essere geni di una razza degenerata, e di non avere diritto a comporre la propria opera? Altrimenti: perché l’autodistruzione? Il meticciato mongolide e il meticciato negro semitoide è ciò che chiama l’opera, ma l’opera alla quale essa viene chiamata è il riconoscimento della mancanza d’opera. Questo è ciò che solo un genio poteva pensare.