Lovecraft: Mitologia di Cthulhu

Indirettamente, le opere di H.P. Lovecraft possono servire a indicare quanto i pregiudizi guidino, ancora adesso, il modo di pensare, nascondendosi a noi proprio in quanto pregiudizi; così noi giudichiamo “pregiudizi” quanto in quell’opera cataloghiamo come esempi di razzismo e di intolleranza dovuti all’epoca nella quale quell’opera è stata scritta, senza accorgerci che, proprio in questo nostro modo di pensare, noi non facciamo altro che soggiacere ai pregiudizi della nostra epoca – e che tutto ciò che, per noi, è fondamentale per la vita degli umani, per un’altra epoca, anche prossima, potrebbe essere cosa da considerare appena con un accenno di sorriso, che è tutto quello a noi dovrebbe invece indicare un altro modo di scrivere, pensare, leggere. Che io sappia, Hegel e Nietzsche hanno avuto questa abilità di scrivere ciò che, in quello che si scrive, preme per vedere oltre ciò che si scrive.

Leslie S. Klinger (Prefazione a “Edizione annotata H.P. Lovecraft”, in H.P. Lovecraft, Edizione annotata, a cura di Massimo Scorsone, Mondadori 2014, pp. 19-84) fa notare la falsità della formula “Mitologia di Cthulhu” per indicare il tratto comune che collegherebbe alcuni racconti di Lovecraft nella formula comunemente attribuita a Lovecraft, ma in realtà, secondo quanto egli sostiene, da attribuire al solo August Derleth.

Anche se H.P. Lovecraft non ha pensato un sistema coerente di mitologia per la propria opera, o per una parte di essa, analogo a quello utilizzato da Tolkien per la propria, Lovecraft ha lavorato su principi costanti attraverso diversi racconti; così questo sistema comprende due stati diversi che hanno a che fare con la terra: 1) Gli strati più lontani occupati dai nativi d’America, che hanno impresso alla terra particolari vibrazioni, che la rendono tanto facilmente occupabile quanto difficilmente abitabile, a seconda di ciò che si pone a sostare sulla superficie, stando in contatto costante con quelle vibrazioni; 2) lo strato che rende tali vibrazioni avvertite con favore dal meticciato, che tendono a favorire il risveglio di ciò che giace nel profondo addormentato ma non mai morto, mentre viene avvertito come orrore da scampare, entro una terra maledetta, da parte della razza bianca, per quanto, razionalmente, sia poi visto come ciò che è destinato a ritornare. Il meticciato, secondo H.P. Lovecraft, riguarda la degenerazione di quella parte d’Europa che non è più l’Europa della razza bianca (comprendente gli ammassi spagnoli, italiani, francesi, greci, slavi, che hanno invaso l’America costituendola spazio ideale del melting pot); mentre la razza bianca riguarda il nucleo autentico d’Europa, che è l’Europa della razza bianca (riguardante i popoli tedeschi, scandinavi, olandesi, celti, che ha costruito l’America, che è allora l’America della razza bianca).

Maisha L. Wester (The Gothic and the Politics of Race, in Jerrold E. Hogle (ed.), The Cambridge Companion to the Modern Gothic, Cambridge University Press 2014, pp. 157-173) nota la componente dei toponimi indiani presente in molti racconti di Lovecraft come marchio in grado di segnare la terra in quanto terra maledetta, ma non procede oltre. Indipendentemente dalla questione legata a Lovecraft, Miguel Serrano ha indicato la direzione rispetto alla terra, cioè in cui la terra va pensata: «La terra è un essere vivo, animato; ogni zona ha il suo proprio magnetismo e le sue proprie vibrazioni, attraverso cui essa agisce sugli esseri che l’abitano, modificandoli, trasformandoli.» (Miguel Serrano, Il Cordone dorato. Hitlerismo esoterico, traduzione di Nicola Oliva, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2007, p. 85). Che la terra possa diventare protagonista di una storia è la situazione che H.P. Lovecraft ha esposto nel breve racconto La strada (pubblicato nel 1920), dove la terra pronuncia e infine esegue la condanna a morte nei confronti di un gruppo di meticci slavi, che, ad un certo punto, si sono trovati ad occupare il tratto di terra su cui sorge la strada protagonista del racconto, progettando un grande attentato terroristico. Il meticciato può occupare la terra; il meticciato non abita mai la terra; il meticcio occupa la terra in quanto occupante, sempre abusivo, sempre appena tollerato, mai bene accolto, così come una pietra occupa una porzione di terra; oppure il meticcio scorre la terra in quanto migrante, così come una frana scorre attraverso un tratto di terra, distruggendola anche solo parzialmente; questo perché il meticcio non abita mai la terra, perché il meticcio non è mai ciò che la terra chiama come suo abitante.

Il toponimo indiano è ciò che, in diversi racconti di H.P. Lovecraft, svela la terra tanto agli occhi di un osservatore esterno quanto agli occhi del lettore, rendendo il personaggio consapevole riguardo a ciò che quella terra occupa e obbligandolo a delle scelte, oppure a ciò che quella terra abita, cioè a ciò che è il meticciato oppure la razza bianca; nei racconti di H.P. Lovecraft la terra occupata dai nativi americani, di cui rimangono i toponimi, è la terra segnata dagli orrori che coinvolgono la Miskatonic Valley, entro cui sorge Arkham, sede di incursioni e attacchi diretti da parte di ciò che non si conosce, la valle del Pawtuxet che è al centro della vicenda del racconto Charles Dexter Ward, della foce del Manuxet, dove si svolge la vicenda del racconto La maschera di Innsmouth.

Compito dello scrittore, in quanto cellula del destino della razza, è indicare il cammino che porta a riunire quanto è terra della razza bianca d’Europa a quanto è razza bianca d’Europa – che è ciò che ha portato a costituire l’America come qualcosa di europeo, nel momento in cui l’Europa non è più la terra degli europei.

Il cosmo è gelido sguardo indifferente alla sorte umana dentro quello che ha scritto Lovecraft, (ma nulla a che vedere con quanto diceva, nei suoi vecchi mucchietti di parole, il vecchio Giacomo Leopardi, paroliere giocoso, saltimbanco gibboso, marchigiano pulcinella, già sghembo meticciato italiano), ma proprio per questo terreno del gioco del mondo, che attende il pensatore della razza bianca, ruolo che nei racconti di H.P. Lovecraft non compare mai, perché la scienza perde anche lì la propria credibilità, per quanto il racconto di Lovecraft si basi proprio su una insistita razionalità e Lovecraft basi i suoi racconti su personaggi, quando invece, scientificamente, appare come siano le teorie a creare i personaggi, basati così, questi, su nient’altro che un niente: così vediamo che Leopardi è un paroliere del meticciato; mentre Lovecraft è uno scrittore della razza bianca – perché il meticciato ha solo parolieri, e la razza ha lo scrittore in quanto detentore della parola, che si rende allora parola della poesia o parola della storia, cioè della saga, che porta alla lingua.

Michel Houellebecq ha notato la scomparsa del tema del razzismo nello sviluppo della mitologia di Cthulhu ad opera dei continuatori di quella mitologia: «Tra gli scrittori più direttamente legati all’orbita lovecraftiana, nessuno ha mai ripreso le fobie razziali e reazionarie del maestro. È anche vero, però, che questa strada è pericolosa e offre uno sbocco molto limitato. Non è solo una questione di censura e di impopolarità. Probabilmente gli scrittori del fantastico sentono che l’ostilità a ogni forma di libertà finisce per generare ostilità alla vita. Lovecraft lo sente quanto e meglio di loro, ma, essendo un estremista, non si ferma certo per così poco.» (Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita, Bompiani, Milano 2001, traduzione di Sergio Claudio Perroni, p. 65) – perché appunto non si tratta di «fobie razziali e reazionarie», tantomeno di ostilità alla vita, ma di restituzione di ciò che è della razza bianca alla razza bianca d’Europa.

A differenza del dio della scienza, perché di due dèi si tratta, quello dello scrittore gioca a dadi – perché lì egli avverte, lì, il campo del suo divertimento, si tratti di Europa o di America; ma perché la terra della razza bianca non deve essere terra per il nemico della razza bianca, che è la degenerazione della razza bianca; così noi vediamo adesso la terra solo come terra dove andare, terra da occupare con insediamenti dettati dal capriccio, oppure terra da trascorrere in quanto migranti, per andare in altre parti della terra, e non vediamo mai la terra come ciò cui spetta il diritto di scegliere il suo abitante, perché non abbiamo più la parola della saga che lancia i suoi há-sæti fuori dal bordo quando formula il suo pensiero, per attendere il momento di andarli a rintracciare, là dove noi siamo stati chiamati.

Realismo

Il realismo in letteratura è una teoria che sostiene l’esistenza di un fatto che una serie ordinata di proposizioni di senso compiuto viene chiamata a rendere conto, cioè testimonianza, relativamente a quanto accaduto; una tendenza non realistica della letteratura svincola il senso compiuto da un fatto e organizza un insieme di eventi possibili a partire dalle parole coinvolte nella frase, che sarà allora una frase lunga non collegata più ad un fatto – queste due tendenze della letteratura sono solo due mondi antitetici di vedere come le cose possono stare insieme: cose diverse stanno insieme se qualcosa di comune ne permette la vicinanza, vale a dire il passaggio dall’una all’altra; cose diverse stanno insieme in base ad autonome regole di accostamento, che non ha nulla a che vedere con un tratto comune che si pone come tratto di passaggio.

Fino a questo punto il realismo in letteratura ha somiglianza con il realismo nella filosofia della matematica, che sostiene l’assoluta esistenza nel mondo di ogni ente matematico. In Joyce il realismo ha avuto, in un primo tempo, l’aspetto di una epifania. L’epifania è allora ciò che manifesta una situazione bloccata, come accade in Dublinesi. Il realismo è qui un punto di partenza, che successivamente sembra nascondersi in modi sempre più complessi come sarà dato vedere in Ulisse e poi in Finnegans Wake – ma la nuova formazione della frase rimane contenuta soltanto in Finnegans Wake, che è ciò che indica il nuovo modo in cui le cose del mondo sono portate a stare insieme, con questa differenza fondamentale: il modo in cui le cose stanno insieme, che è il modo in cui la frase dice il modo in cui le cose del mondo possono essere fra loro collegate, può avvenire solo senza la presenza del luogo comune nel mondo che si pone come luogo di scambio fra una cosa e l’altra, e che è solo adesso ingombro del mondo vecchio del romanzo. Sembra essere il luogo comune ad essere giunto al suo termine – nel senso che lo stesso concetto di individuo potrebbe rivelarsi nient’altro che un errore.

Una successione di eventi fra loro collegati determina una storia nella forma di una successione di momenti della giornata che possono essere isolati per costituire una storia: che sarà allora una storia della notte, oppure una storia del tempo libero; oppure questa successione di eventi determina la storia in quanto racconto che un gruppo pensa di poter determinare a proprio beneficio, che si determina allora come la storia solo in quanto storiografia, che è allora la storia che solo un meticciato può arrogare come proprio atto d’orgoglio di fondazione, per quanto miserabile, esso poi sia nei fatti – che è ciò che collega l’Eneide al romanzo La storia di Elsa Morante, cioè il canto dell’era del meticciato. Questo ci porta al meticciato dello sprawl di William Gibson (il cyberspazio intravisto da William Gibson è il viaggio psichedelico in uno spazio che perfettamente si adegua all’attuale obiettivo dell’occidente multiculturale e multietnico che ha come obiettivo la consegna dell’Occidente al nemico di razza), ma che lucidamente pone l’uomo di fronte al costrutto postumano – il quale rimanda a quanto si vede nelle pecore elettriche di Philip K. Dick, perché quando William Gibson, in Neuromante, usa questo nuovo modo di impostare i personaggi, solo per i personaggi secondari e mai per quelli principali, ricade nella situazione di esseri umani che devono affrontare aggregati macchinici, mentre in assoluto manca il superamento integrale del concetto di “umano”, che è per l’appunto la pietra d’inciampo sopra la quale si era formato Philip K. Dick, essendo il dilemma uomo/robot, fondamentale, ad esempio, nelle Pecore elettriche, che non implica mai lo sguardo oltre l’umano, quanto semmai un riguardo nostalgico verso l’umano – che è quello che non deve più esserci, almeno pensando una nuova forma narrativa intenta a mostrare il modo in cui tante cose stanno insieme – questo perché l’uomo, come già è stato detto, ma attende ancora di essere pensato, è qualcosa che deve essere superato. Il tempo riservato all’intrattenimento è ciò che caratterizza la nostra epoca e il romanzo è comunque parte di questa divisione della giornata, perché noi non possiamo pensare la nostra epoca senza il romanzo.

Paul Auster, Baumgartner

 

La questione del personaggio Baumgartner, protagonista del romanzo Baumgartner dello scrittore Paul Auster, si pone a partire dalla domanda: “come parlarne?”. Si può rispondere al presente, cioè richiamando il tempo presente: Baumgartner è quello che, in questo momento, il personaggio che è Baumgartner fa, che è quello che vediamo / possiamo dedurre dalla prima riga del romanzo. Le considerazioni su quello che il personaggio Baumgartner fa, sono le considerazioni su quello che il romanzo Baumgartner è come truffa del romanzo, volendo impostare il discorso sulla letteratura. Il romanzo Baumgartner si può considerare come variazione della messa in gioco del personaggio nei romanzi di Paul Auster e di “Paul Auster” come personaggio che entra in scena nei romanzi di PA a fianco di altri personaggi interamente da lui creati.

Baumgartner come romanzo si determina secondo una struttura articolata in cinque capitoli che si svolgono secondo un andamento a zig-zag:

  • Capitolo 1: i piccoli incidenti che capitano in una giornata qualunque al qualunque protagonista che ha nome Baumgartner.

    • Capitolo 2: la telefonata dall’aldilà indirizzata al personaggio Baumgartner alla fine del capitolo.

  • Capitolo 3: la Svolta che coinvolge il personaggio Baumgartner.

    • Capitolo 4: indietro nel tempo, nei rami della razza – del personaggio Baumgartner.

  • Capitolo 5: l’attesa, da parte del personaggio Baumgartner, dell’ospite che deve arrivare.

Il capitolo 2 e il capitolo 4 si presentano come rilancio della storia nell’improbabile (la telefonata dall’aldilà, le speculazioni di Baumgartner sul suo nuovo possibile matrimonio); il punto di svolta è rappresentato dal capitolo 3, che rappresenta il centro di una asimmetrica dispari architettura e rappresenta il punto di svolta, così come i capitoli 4 e 5 rappresentano la liquidazione del materiale portato alla memoria da parte del protagonista, mentre i capitoli 1 e 2 tengono insieme la costruzione del semplice personaggio Baumgartner, cioè la sua definizione.

I primi due capitoli si riferiscono ad avvenimenti del tempo presente; gli ultimi due capitoli comprendono un richiamo ad avvenimenti del tempo passato e un richiamo ad avvenimenti che si rivolgono a quanto potrebbe svolgersi nel tempo futuro, ed usano il presente solo per “ingannare il tempo comune”; il capitolo 3 funziona così come punto di svolta tra i due blocchi.

Il romanzo Baumgartner si compone come collegamento fra quello che il romanzo Baumgartner può dire del personaggio Baumgartner e l’inclusione di materiale eterogeneo, scritto prevalentemente da un altro personaggio (la moglie di Baumgartner) e poi dallo stesso Baumgartner – in quanto finzione di personaggio. È tutto materiale a cui Baumgartner accede solo in quanto materiale a cui ha adesso accesso. Questo comporta la messa in gioco, anche in questo romanzo, del personaggio “(Paul) Auster”, che nei romanzi di Paul Auster entra spesso in gioco, tra gli altri diversi personaggi del romanzo.

In questo romanzo questo conduce in un primo tempo alla sindrome dell’arto mancante (considerata nel capitolo 2 di quel romanzo), vale a dire ciò che conduce dagli incidenti come conseguenza della vicinanza alla teoria dell’altro come arto mancante – e quindi alla Svolta che è mostrata nel capitolo 3 del romanzo. La questione riguarda la funzione dell’altro. Il romanzo contemporaneo è di tipo piattamente minimalista, a differenza del romanzo precedente, che era di tipo serioso & massimalista per quanto riguardava le relazioni tra i vari individui di una stessa famiglia. Così l’individuo risulta atomizzato – mentre il romanzo meno che mai si avventura nella composizione subatomica, che è ciò che invece costituisce la Nuova Composizione Letteraria, basata sulla misurazione quantistica per quanto riguarda la determinazione dei personaggi. Il romanzo antecedente al modernismo poneva una griglia di vicinanza/lontananza tra i personaggi, mentre il romanzo postmoderno non pone griglia alcuna, affidandosi alla vicinanza tra tutti gli individui tratti in gioco – atomizzati – che è ciò che costituisce la società moderna.

Sindrome dell’arto mancante = sindrome di Calandrino. La questione di prendere la terra: ormai non è questione di prendere la terra, quanto di rilasciare la terra da una presa malandrina. Il meticciato è ciò che ruba terra. Qualunque presa della terra sarebbe stata allora tutto, fuorché rilascio della terra; questo perché, nell’epoca in cui non vi era più presa della terra, cioè nell’epoca in cui la presa della terra poteva solo essere articolo di pensiero, la terra non è stata presa. “La fine” è la storia con cui ha a che fare ciò che è rimasto, che determina chi è rimasto.

Per questa ragione il personaggio Baumgartner si definisce, nel primo capitolo del romanzo Baumgartner, come albero i cui rami vanno a sbattere contro altri alberi in una foresta diventata aliena per diversi motivi in quel tratto di terra a una classe di personaggi che il romanzo Baumgartner non considera, ma per i quali il personaggio Baumgartner si trova ad essere in vicinanza, e che, nell’ultimo capitolo, va a sbattere contro un albero con la sua automobile, quando un cervo, individuo animale autoctono in quel luogo considerato dal romanzo Baumgartner, gli sbarra sull’istante la solida sua stretta strada. Fra i due estremi si pone la Svolta, che è ciò che porta il personaggio Baumgartner a riflettere sulla propria origine allogena rispetto a quel luogo – perché da una struttura che considerava la possibilità di sopravvivenza di un albero isolato si passa allora al giardino che contiene l’albero. La prima metà del nome è ciò che definisce la funzione del personaggio; il totale delle due metà è ciò che definisce il romanzo, che corrisponde al caso del cognome fatto protagonista; mentre nel romanzo il punto di svolta è un capitolo redatto al presente, nel nome il punto di svolta è un punto irrazionale che separa solo due sole sorgenti differenziate.

L’albero non è l’albero che si trova nella proprietà del narratore, ma è l’albero che il narratore raggiunge facilmente allontanandosi da casa.

Questo romanzo parte da piccoli incidenti del caso che coinvolgono tante cose e persone a partire dal personaggio Baumgartner, ma il romanzo Baumgartner non è l’epica del rapporto tra le cose e le persone, bensì la relazione di ciò che lega un simpatico individuo colto a caso e coinvolto a forza in questa relazione, tra tante cose e persone qui, per caso, di nome Baumgartner – per questo si può dire che il romanzo è, per costituzione sua propria, proprio niente più che una truffa bella e buona.

Il romanzo Baumgartner ribalta la messa in scena del personaggio “Paul Auster”, presente in altri romanzi di Paul Auster, presentandola come messa in scena di una famiglia di nome “Auster”, che il protagonista Baumgartner, a un certo punto, nel corso del romanzo, si trova a dover chiamare, come famiglia dalla quale egli proviene dal lato materno (e che non impone al personaggio “Paul Auster” una entrata in scena – perché la questione che chiama in causa non è tanto il nome proprio dell’autore, quanto l’autore in quanto nome comune).

L’arte del racconto nasce dall’inciampo di luoghi comuni diffusi, come mostra il Decameron del meticcio italiano Boccaccio, forse il libro più brutto mai impastato a forza tutto insieme con la volontà malefica di trarre fuori un libro qualunque sia, un libraccio, un libro nero della razza, che è l’antirazza; l’arte del racconto è poco più che un’arte del pettegolezzo impastato a forza tutto insieme – ma l’arte del racconto è ciò che è – a questo punto – perché Boccaccio, che era un meticcio (un meticcio italiano, se proprio vogliamo precisare), a un certo punto è entrato nel gioco: e potremmo dire che cosa sarebbe, adesso, l’arte della narrazione se non fosse stata inquinata dal meticciato?

Ciò che il romanzo Baumgartner chiama è l’inutilità della letteratura, ma ogni romanzo ben riuscito deve chiamare l’inutilità della letteratura, che è ciò che chiama la forma “romanzo” in quanto ciò che la mette in dubbio.

Il problema è la frattura nell’arte del racconto, che determina la profondità dell’arte del romanzo. Heidegger, che ha riconosciuto in Hölderlin la possibilità massima della poesia pensante, non ha mai riconosciuto la possibilità di una prosa pensante, che è ciò che pure costituisce Hyperion di Hölderlin, così come non ha mai considerato i saggi scritti da Hölderlin, per quanto la letteratura debba collocarsi come qualcosa che coinvolge la Dichterberuf – in qualunque caso – e quindi la parola che nella poesia ha la sua massima esaltazione, ma che chiama la lingua come tesoro della razza, per cui anche la prosa come parte del tesoro della razza. Per questo ci troviamo, una volta di più, ad avere a che fare con i meticci, che sono ciò che impesta il mondo.

La storia di Baumgartner, che è la storia di Baumgartner, può essere raccontata a partire dalla sindrome dell’arto mancante, che porta alla ricerca dell’altro come sostituzione della mancanza, che è la costituzione della mancanza, cioè dell’arte venuto a mancare, per poi passare alla ricerca che porta all’inabissamento nella propria linea familiare, per poi rispondere a una nuova insperata chiamata dell’altro, che porta a sbattere contro l’albero, per non andare a sbattere contro il cervo.

Ciò su cui il romanzo Baumgartner ruota intorno è la messa in scena dell’inutilità della letteratura; ciò su cui il romanzo ruota attorno è ciò che il romanzo chiama: ogni romanzo ben riuscito chiama l’inutilità della letteratura – il congegno, la storia bene organizzata è ciò che, salvando l’inutilità della letteratura, insieme svela la storia come congegno inutile, se si considera il personaggio Paul Auster, che è sempre andato a caccia di storie (come nel caso di Auggie Wren a proposito della possibilità di un racconto di Natale come lavoro proposto a caso allo scrittore Paul Auster). Così la letteratura si determina come congegno e la storia come rispetto della storia in quanto congegno: ogni testo della letteratura è infatti un gioco, che è il gioco delle perle di vetro, vale a dire il giochetto di una storia più che ben congegnata.

Consideriamo Auggie Wren: lo scrittore è a caccia di una storia, cioè di una gabbia per singole parole delimitate allora bene (in questo caso relative a un “racconto di Natale”), che deve portare a un effetto preciso, perché non crede nella lingua come tesoro della razza, che è ciò che costituisce la verità delle parole, che è ciò che lo attraversa lungo tutta la vita; ma quando un informatore gli offre una storia “come lui la voleva”, non può che porsi, alla fine, la domanda sulla verità di questa storia in quanto storia realmente accaduta: la storia esiste come storia o è ciò che viene confezionata come “storia” da parte di colui il cui obiettivo era solo raccontare una storia a colui che, non solo chiedeva una storia, ma chiedeva anche che venisse soddisfatto il suo preciso concetto di “storia”, cioè di racconto, in questo caso di “racconto di Natale”? Quindi l’informatore ha inventato parte del racconto che trasmette come pura verità. Lo scrittore pone la domanda sulla veridicità, ma non pone la domanda sulla razza che ha posto la questione sulla veridicità, che è la questione sulla razza, che è invece ciò che proprio la sua scomparsa deve portare in scena.

I giovani che si incrociano adesso nelle città del sud dell’Europa (limite che è ciò che non ha a che fare con la razza bianca) rispondono sempre più al modello latino americano, che non ha nulla a che vedere con la razza bianca. Ma questo dipende dal fatto che si è lasciata vivere l’Italia, cioè che si è dato spazio al meticciato (= che si è permesso al meticciato di vivere), che per sua natura è il nemico della razza bianca. L’uomo non sarà mai padrone del mondo finché non avrà accettato il gioco del mondo, che consiste, di volta, nell’assumersi la decisione relativa a chi spetti il diritto di vivere e a chi spetti il diritto di scomparire. L’uomo non sarà mai padrone del mondo finché non avrà deciso a chi spetti il diritto di vivere e a chi di scomparire. Questo è ciò che è chiamata la razza, per cui l’andare nella terra è solo l’inciampo.

Le strategie del racconto determinano ciò che, nel racconto, è di volta in volta stato reso possibile. Il congegno è ciò che, nella letteratura, non deve più porsi come ciò che deve essere per mantenere quel tipo raggiunto di congegno del racconto.

Consideriamo il caso di un’arte del romanzo tesa alla più estrema forma sintetica: Lovecraft, il Commonplace Book; Orrore, da una parte; Caso, dall’altra. È possibile collegare Lovecraft e Paul Auster? forse tramite Il taccuino rosso di Paul Auster, che è una specie di Commonplace Book di Lovecraft; ma è una possibilità comune pensare la svolta di un’arte narrativa verso l’aforisma, dopo la svolta vecchia massimalista; a separare è la documentazione, che coinvolge entrambi gli scrittori, – ma ora si può dire che Kafka aveva visto giusto. Nel germe della letteratura c’è il nucleo; al nucleo dell’individuo c’è la razza. Quindi nessuna evoluzione.

Il discorso su Lovecraft come autore deve essere impostato come tipologia di tre diversi sistemi di composizione del testo (escludendo l’epistolario e la saggistica): prosa (i racconti per cui è generalmente conosciuto), poesie, appunti confluiti nel Commonplace Book; la prosa sviluppa a livello di congegno un nucleo basato sul puro orrore, a cui la razionalizzazione indica il percorso attraverso un sistema di passaggio da un momento all’altro; la poesia non ha bisogno di razionalizzazione: infatti esprime il momento del massimo orrore escludendo i vincoli narrativi; il Commonplace Book si presenta come quaderno di appunti, che richiama l’aforisma, ma la prossima forma che attende il romanzo sarà la forma del romanzo aforistico, nella quale siamo già implicati, e che butterà all’aria la forma del romanzo come noi la conosciamo. La Nuova Composizione Letteraria metterà la storia di un linguaggio, che – casualmente – crea personaggi, al posto di una storia di personaggi su cui è basata ancora oggi la narrazione, per cui possiamo seguire la storia di Baumgartner come storia della sindrome mancante che cerca la sua soluzione.

Il paroliere usa solo slogan. D’Annunzio è un esempio di uso degli slogan nel modo di parlare degli italiani, che non è una lingua. Ma ogni paroliere del meticciato italiano (impropriamente chiamato “poeta italiano”) usa le parole, che sono la sua forza, perché il poeta usa la lingua, non si piega mai all’umiltà delle parole, che è ciò che usa lo spettro contraffatto del poeta del meticciato, cioè il paroliere, perché il meticciato non ha mai un poeta perché non ha una lingua, ha solo un paroliere, così come il meticcio non ha un compositore nel campo della musica, ma ha un musichiere: Dante, Boccaccio, d’Annunzio sono stati i parolieri del meticciato (meticciato italiano, in questo caso), così come Vivaldi, Rossini, Verdi sono stati i musichieri del meticciato (meticciato italiano, in questo caso). Questo deve essere detto, in una volta, in segno di disprezzo verso il meticcio italiano Dante Alighieri e verso il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio, in una volta detto in più in segno di disprezzo verso queste due cose, e verso il meticciato italiano – che è un insieme di tante cose che non dovrebbero più essere lasciate essere, perché è ciò a cui dovrebbe essere tolta la vita: questo perché si deve riconoscere ciò che non ha diritto di vivere.

Paul Auster, Baumgartner, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi 2023.

 

Pierino. Un monumento

L’eroe nazionale d’Italia è, da sempre, stato Pierino: la sua nascita è nel campo di battaglia della barzelletta; trovato sotto un cavolo, l’etimologia della parola italiana “barzelletta” è incerta; cosa figlia di nascita incerta, Pierino presenta appieno il carattere nazionale della maledetta itala razza dalle molte sue vite deformi, che è in pieno ciò che costituisce una volta antirazza: ignoranza, estroversione, cosa comparsa per caso, possibilità di essere ciò che si sente consegnato all’ignoranza in quanto ciò che segue la vocazione dell’ignoranza, cose tutte che hanno il precedente illustre entro Calandrino del Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio. A chi è lasciato solo tra le parole, si oppone Pierino, che ha solo parole per fare il gioco suo delle tre carte per imbrogliare chi si trova a passare lì per caso. Questa è l’Italia. L’Italia non c’è mai stata, e l’eroe, in Italia, non c’è mai stato e mai può esserci. La differenza tra comprendere o no la musica consiste nel sapere che cosa verrà dopo – che è questione di tautologia, bene stabilita da Wittgenstein. L’Italia è il monticello di spazzatura che trasforma ciò che vi si posa in triste barzelletta, è per questo che io non racconto mai barzellette, perché odio il monticello di spazzatura, altrimenti da qualcuno nominato Italia, ove un becco di cicogna qualunque mi posò, destinazione fagotto da me non indicato – la narrazione è sempre un falso. “Barzelletta” è parola che lega ciò che è italiano alla sua origine? L’Italia è un piccolo tetro tutto sporco teatrucolo qualunque tratto appassito su senza palco, senza quinte, senza sipario, meno che mai adatto a chi voglia trarsi in mostra. Quando parliamo di favola, non dobbiamo dimenticare la maledetta Italia – ma sia chiaro che, ai cosiddetti “crimini di guerra nazisti in Italia” (bim bum a quel di Marzabotto, bim bum bam a quel di Sant’Anna di Stazzema), io ci cago sopra. Il monumento mai realizzato a Pierino quale eroe della maledetta Italia nella maledetta Italia si gemella con il monumento dei bulli nella via Pál a Budapest; il monumento non realizzato a Pierino si oppone a quello realizzato da Eugenio Baroni alla spedizione dei Mille maledetti spartiti in Genova Quarto dei Mille, che rappresenta la resurrezione dei martiri italiani (italiani = scarafaggi africani) che si raccolgono intorno alle ali di Garibaldi (italiani = scarafaggi africani), il monumento a Pierino (italiani = scarafaggi italiani) deve invece rappresentare la penetrazione nella terra da parte di ciò che non esiste, cioè la maledetta Italia una volta per sempre per tutte (italiani = scarafaggi africani): la penetrazione nella terra da parte del progettato monumento a Pierino è in realtà il buco nell’acqua nato morto, storto strozzato tutto al quale il monumento non realizzato a Pierino si oppone a quello realizzato da Eugenio Baroni alla spedizione dei Mille maledetti, mille volte italiani di merda, che rappresenta la resurrezione dei martiri italiani (italiani = scarafaggi africani) che si raccolgono intorno a don Garibaldi José (italiani = scarafaggi africani), il monumento a Pierino deve invece rappresentare la penetrazione nella terra da parte di ciò che non esiste (italiani = scarafaggi africani); là dove d’Annunzio, nella sua celebrazione a Quarto, parlava di un monumento-nave pronto a slanciarsi e salpare un’altra volta (n’âtra vòtta) dallo scoglio maledetto di Genova che poi diventerà “Quarto dei Mille”, liscio in mare violato da color viola a color d’oliva (Italiani bastardi). Ogni spostamento degli italiani nel mondo è un modo per impestare il mondo; l’Italia può solo impestare il mondo, infatti da qualche parte devo avere letto: “un bastardo può solo imbastardire”, ma, min kappa, non ricordo più dove. Gli italiani hanno impestato il mondo. Mosso una volta in movimento, il resto ti move buono incontro da sé. L’ignorante chiede solo ignoranza come posto suo proprio dove stare, che è solo ambiente, perché non ha mondo. Il monumento a Pierino è allora la rappresentazione della realizzazione di un piccolo buco nell’acqua. L’ignorante chiede solo ignoranza dove poter stare, le vibrazioni lasciate nella terra che avvelenano la terra sono l’occupazione della terra da parte di ciò che, per specie sua, non è mai chiamato ad abitare la terra (italiani = scarafaggi africani). È l’Italia la barzelletta che non deve più fare ridere, cioè avere loco ove scampare – questo perché noi abbiamo a che fare con la cosa fissa che è il meticcio italiano nel mondo e anche Žižek ha affidato il suo pensiero alla nuvoletta di una barzelletta.

Ci muoviamo tra bluff e considerazione dell’altro – ma la questione dell’altro la dice già lunga. È come ciò che nasce con il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio. Il bluff è maschera. D’Annunzio era un bluff; non c’era un poeta, ma c’era un meticcio, ben consapevole della questione del meticciato. Cioè della nuvola. Per comprendere d’Annunzio bisogna porsi dentro la questione del meticciato. Gli italiani sono solo meticciato, non meno dei cileni di Miguel Serrano. Ma gli italiani sono la verità del meticciato – quindi d’Annunzio, in quanto pupazzetto bluff, ha rappresentato la verità su quella cosa bluff che è il “popolo” italiano. Una razza ha un poeta, che indica il destino della razza nella lingua di quella razza, che è il tesoro della razza, a cui solo un poeta ha accesso; un meticciato non ha un poeta, ha soltanto dei parolieri, che vanno avanti facendo man bassa di parole. Per me il meticciato è una cosa viva, è per questo che parlo di far morire il meticciato. D’Annunzio è stato il grande paroliere del meticciato italiano, ben consapevole di essere questa pessima cosa – leggetelo in questo modo e d’Annunzio sarà chiaro.

Con le sue antenne attente di scarafaggio (tin-tin-tàn), il meticcio italiano Gabriele d’Annunzio ha l’umiltà di ciò che non si sente chiamato in nessun punto del mondo (per lui, niente mondo, bara ambiente). Il meticcio italiano è ciò che le parole non possono mai trascorrere, perché il meticciato è ciò che non ha lingua – laddove la lingua è, invece, il tesoro della razza – per il resto valgono le antenne di uno scarafaggio di cui ogni meticcio italiano viene fornito. Gli italiani, in quanto meticciato, sono quella cosa che nel mondo non deve mai essere data la possibilità di esistere. “Dante_Go_Home” è allora la parola da cesso che non ha bisogno d’esser chiesta, per cui ribadisco io: Dante, porco Dio, vattene via. Ma l’uomo non sarà mai padrone del mondo – perché di questo si tratta – finché non considererà a chi spetta il diritto il vivere nel mondo: dietro Dante c’è il meticciato semita (altrimenti detto islam); dietro quello che scrivo io, c’è la razza bianca. L’eroe chiocciola come eroe italiano che deve schiacciato, affinché non ritorni mai più il mito di Enea galuscio giunto giovane già d’Africa.

L’Italia è tutto quello che, ciò che è di razza bianca, dovrebbe odiare, prima di tutto: l’Italia è quella cosa verso cui, ciò che si ritiene di essere parte d’Italia, non deve avere memoria, al massimo appena un museo vicino al punto dove è avvenuta la fine di ciò che, malauguratamente, fino ad un certo punto, è stato, per un certo tempo, la maledetta Italia. L’Italia non deve essere ricordata con monumenti. Se c’è bisogno di un monumento, allora non si parla di maledetta Italia, ma di altro, come l’indagine degli antropologi alieni nelle parole di Jameson che cercano di capire la Terra in base al luogo dove erano capitati loro malgrado: Auschwitz lì per caso in quel caso del cazzo che ha comportato loro l’atterraggio. Infatti qui non si tratta di “mettersi in gioco”, affidamento facendo su l’Io, ma di impostare il nuovo gioco del mondo, che sarà fare del mondo il soggetto del gioco del mondo, dove non tutti, fra quelli che sono al mondo, devono avere l’aparte. Vediamo meglio: un monumento a Pierino (italiani = scarafaggi africani) potrebbe essere un misto del Manneken-Pis locato a Bruxelles con l’abito armatura di un artista di strada qualunque, che all’improvviso schizza turisti quando li ha intorno a lui tutti con piscio che è vivo solo in quanto più che vera Skräpkonst, cioè come ho creato io la parola – ma in segno di disprezzo verso il meticcio italiano. Questo è il meticcio italiano nel mondo.

La possibilità di un eroe nazionale dovrebbe segnalare non solo la possibilità di ciò che deve essere continuato, ma anche di ciò che deve essere fermato, cioè abbattuto (non so in quale altro modo dirvelo). Solo così l’eroe ha la sua completa funzione nella comunità che rappresenta. Avere soppresso degli italiani nel corso di una guerra è una cosa deve essere piuttosto elogiata, piuttosto che condannata (porco Dio, con gioia dico io! In culo a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema).

Pierino non ha loculo porco suo, così come l’Italia non ha spazio porco posticcio suo nel mondo porco che, in quanto meticciato, quello ha contribuito a creare, ma l’Italia è quella vecchia porca mille volte camuffata cosa che può essere indicata, vecchio mucchietto di pietre porche che la macina della cosiddetta “letteratura italiana” può in un batter d’occhio trasformarti in vecchi mucchietti ammanniti di parole (Oplà, noi campiamo!), così come un vecchio dito pesto posto presto sopra mappa può indicare ciò che c’è, non essendoci però stato mai; così come Pierino è ciò che è sempre stato non essendoci mai stato mai (Italiani = scarafaggi africani).

Pierino è l’eroe porco trasversale, che da Calandrino del pessimo Decameron del meticcio italiano Giovanni Boccaccio (scarafaggio africano), porta ai pessimi film con Alvaro Vitali e del finocchietto Pasolini (bastardo di italiano), attraverso quello spazio che non c’è – la pessima Italia di tutti gli scarafaggi africani buttati nel gioco della fama (Italiani = scarafaggi africani), infatti, non può riconoscersi in una letteratura nazionale, perché comunque l’Italia è quella cosa che non esiste, ma che pure esiste come massa che non dovrebbe esistere, carcassa gonfia giunta a scoppiare che, in time-laps, sembra tornare a respirare come viva: Lovecraft ha presentato questo stato della terra come il contrattempo della terra occupata dai nativi americani o dai coloni europei non di razza bianca (il meticciato italiano, il meticciato spagnolo, il meticciato greco, il meticciato slavo), cioè dal meticciato che ha da sempre infestato l’Europa e poi ha infestato l’America; la terra così occupata è la terra infestata dalle vibrazioni che hanno il buio di mille soli chiusi bui sprigionati nello sgabuzzino buio, prima che il bagliore di mille soli sorti insieme la chiamasse al lampo d’annullamento, bomba, per cui l’Italia ha la particolarità della Miskatonic Valley di attirare il grande male assoluto, ad Arkham, dove le larve dei primi maledetti occupanti di quelle zolle desolate (italiani = scarafaggi africani), tristemente galleggiano.

Ma quello che manca – porco Dio di un’Italia, mormoro io – è l’odio nei confronti di ciò che è italiano, cioè l’odio nei confronti del meticciato: l’Italia, questo rozzo spunzone della mal Africa, ha spuntato all’Europa molto di ciò che era vera Europa; l’Italia è quello sputo d’ambiente malamente tratto tra Africa ed Europa – non è Europa e non è Africa, ma è più Africa che Europa: se Pierino è l’Italia, allora l’Italia è Pierino che imita il Professore, come segna Lem con straccio suo di sagoma scritta nel bicorpo stretto nell’Eden di suo straccio di pianeta ben marsupiato in straccio di commento di Jameson. Per cui il monumento a Pierino nella maledetta Italia è il monumento a Pierino che imita il Professore, cioè il monumento al bicorpo indicato dal romanzo di Lem nel triste suo Eden suggerito.

Pierino è l’unico personaggio, italiano maledetto, che permette di collegare tutto ciò che è italiano per maledizione sua; contrattempo: Pierino non esiste come personaggio letterario, così come non esiste la maledetta Italia di cui io parlo sempre come nazione, ma appunto per questo il maledetto personaggio <Pierino> può rappresentare la maledetta cosa che si dice <Italia>, pur non esistendo, ma che tutti possono indicare su qualsiasi carta geografica sopra mettendoci appena piccolo loro duro ditino lungo rigido: cioè indicando l’Italia con lo spillo di un punto su una mappa, che è quello che la maledetta Italia è sempre stata ferma lì apposta, tra Africa ed Europa (a indicare quel ciocco di sputo che gli italiani sono sempre stati: Italiani = scarafaggi africani), così come non esiste la barzelletta, se non bavetta di ciò che non esiste (questa è la ragione per cui io non racconto mai barzellette), ma esiste la maledetta Italia – che mille dèi, sorti insieme nel cielo, stramaledicano la mille volte volte da me maledetta Italia creatura del buio assoluto.

Pierino è il cervellino minuscolo di un meticcio italiano di tipo antropologico suo, creato per giammai pensare di progredire, e mai è infatti progredito: stoppato lì, essere fatto fugacemente, Pierino è il cervellino che è soltanto venuto al mondo, non è mai stato da nessuna parte, non ha mai letto un libro, non ha mai pensato un pensiero, ha solo stoccato in sé piccole tante nozioni che snocciola veloce quando appena gli arriva il comando: il baccello che rivela gli invasati – Pierino è il punto fantasma che indica la maledetta Italia sulla mappa, per cui il monumento a Pierino dovrebbe essere il monumento idiota che non c’è, vale a dire il monumento che attira l’attenzione del turista o della persona che ritiene quel “monumento” punto interessante che merita il suo avvicinamento – che implica inglobamento assoluto, come il cambio di gravità in un buco nero, quindi un anti-monumento, che potrebbe anche essere il Monumento al Nulla – ma può mai essere pensato, dico io, un monumento di questo tipo? Pensiero d’Italia, pensiero di mafia, pensiero alla barzelletta?

Noi sappiamo di un mondo dove esiste il meticcio italiano e lo possiamo indicare sopra qualunque piccola mappa del cazzo che ci venga squadernata davanti a vanga. Porco Dio. Il più piccolo meticcio italiano del cazzo è per noi Pierino. Pierino è ciò che muove Pin sulle creste come folle partigiano che corre da qui il richiamo alla illusorietà di scienza sua del cazzo. Pierino/Pin (Partigiano del Pin) è ciò che deve essere abbattuto con un colpo preciso da un cecchino, lontano da lui chilometri (italiani = scarafaggi africani); l’eroe non è una illusione perché la scienza stessa è illusione: infatti noi possiamo parlare di Pin de la Carcassa (della maledetta Italia), anziché di Pin l’Eroe (della maledetta Italia del cazzo). Chiunque, in Italia, può conoscere un Pierino del cazzo del porco Dio d’Italia (dell’Italia del cazzo). Infatti l’Italia è solo un caso della Miskatonic Valley di Lovecraft, perché intorno all’eroe tutto diventa tragedia, e intorno all’antieroe tutto diventa romanzo – mentre intorno al dio che è imbecille tutto diventa ambiente del meticciato, del disgustoso meticcio italiano prima di tutto (Italiani = scarafaggi africani), cioè del nostro Pierino, che qui rivela, a quanto pare, (bastardo di italiano) la sua pretesa al monumento (italiano bastardo).

L’Italia non ha mai creduto nell’eroe del romanzo perché non ha mai creduto nella poesia, cioè nel gioco della parola attraverso la lingua che porta al gioco delle perle di vetro – che è il grande gioco. Perché una cosa come Musil non è stata possibile nella maledetta Italia del cazzo? Purtroppo l’Italia ha avuto qualche genio nella letteratura (porco Dio, dico io), ma questi non hanno mai capito cosa fare di quel talento giunto loro lungi tanto per caso da qualche parte – cioè senza terra dove allignare.

Questo perché l’Italia è solo meticciato. Essere meticciato è il modo peggiore di buttare via le cose solo per battere soldi in cassa. Un paese di meticci non ha eroi, perché non solo non è un paese, ma nemmeno ha abitanti reali, solo “esseri fatti fugacemente”, come li chiamava il mio amico Daniele Paolo Scherebba. Nessun italiano ha mai creduto nella poesia, così come non ha mai creduto nel romanzo. Considerate la tratta Hölderlin – Musil: il caso di Manganelli dimostra che, quando dentro la maledetta Italia si nasce dotati, meglio battere grano, chiudere cassa; mai pensare di tornare a completare ciò che si è lasciato non finito e infatti giustamente Eco ha ribadito da qui sempre la sua: “Io sono l’Eco, e voi non siete un cazzo” – ma questo è già di per sé la barzelletta del meticciato da cui tutto tratto ha l’iniziamento tanto storto suo (e che io non racconto, perché non racconto barzellette), perché se il meticcio italiano esiste solo così, come Eco, che è l’eco, è perché Eco è solo la triste eco del meticciato, che ha sempre impestato il mondo (italiani = scarafaggi africani), cioè l’eco di un’eco che doveva già essere spenta e gli scarafaggi italiani sono solo ciò che ha impestato il mondo con Dante e Boccaccio, che è solo arte degenerata, perché esiste l’arte degenerata solo perché esiste, e viene lasciata esistere, la razza degenerata, che è ciò che deve essere tolta dal mondo.

Ohibò!, un monumento a Pierino sarebbe il monumento all’Eco che si affievolisce sempre più in eco dell’Eco (italiani = scarafaggi italiani – che è quello che non si può più dire). L’Italia deve riconoscersi in un personaggio di barzelletta (e io non racconto mai barzellette). Solo in una barzelletta un italiano può pensare di essere eroe, che sarà in quella occasione il vero eroe: tutti sanno che gli italiani sono per natura vigliacchi, che hanno la flatulenza cauta che scatta nell’essere nella storia solo nel punto che scatta nel momento di una fughetta improvvisa, che giusto può comportare appena la storiella (= barzelletta) ma non può fare la storia di ciò che è italiano, così come non si può fare la storia della flatulenza (per quanto quel naso di mediocre meticcio africano che era Agostino avesse, a Roma, annusato il bel dio suo di flatulenza), questo perché l’Italia non è mai esistita, ma il problema che resta è ancora fare in modo che quel qualcosa, cautamente definito da qualche parte come il meticciato italiano, cautamente, non debba mai più esistere – dico da ora per sempre. Sei sicuro di quello che dici?

La barzelletta che Pierino non racconterebbe mai: Cosa disse, Dio, il grande Fornaio, quando creò il primo negro? Niente, lo tolse dal forno e lo mise da parte con un sospiro. Cosa disse, Dio, il grande Fornaio, quando creò il primo italiano? “Porco Dio, è il secondo che mi si brucia!”

Stefano Jossa, Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, Laterza 2015

Cormac McCarthy, Il passeggero. Stella Maris

Se, per periglio accettato di suo, forma-romanzo è ciò che s’apre a tutte le parole del mondo, la critica di un solo romanzo è allora tutto ciò che per due s’apre al pericolo di tutte le parole del mondo che compaiono. Così, forse, questa potrebbe essere la prima recensione creata con ausilio d’Intelligenza Artificiale.

Bobby e Alicia Western, gl’infausti protagonisti de gli ultimi romanzi due di Cormac McCarthy si rapportano tra loro nel mondo a diverso livello dimensionale, che implica due dimensioni diverse di stesura per la stessa sorgente de la narrazione, perché due sono i modi che comportano modi diversi di costituire sequenze di narrazione: il fratello è ciò che si tende a struttura tridimensionale; la sorella si presenta come colei che ha subito lo schiacciamento bidimensionale. Per cui Alicia comporta staticità e allucinazioni fisse; Bobby dinamismo, realismo e confronto con allucinazioni di sirocchia sua che lo portano infine alla mille volte fausta decisione di portare a morte lo sgorbio schifoso che ha infettato la mente sgombra de la sorella.

In mezzo c’è “la vicenda dell’aereo”, vicenda che non decolla perché storia che infesta il romanzo, in quanto basato su coso fermo posto pesto infitto giù tutto sotto, morto stecchito, sotto ammasso tanto d’acqua. Il capitolo che mostra la visita dell’aereo (Il passeggero, I/2) con le due file di carcasse percorse dal sommozzatore, è il punto di partenza di un meccanismo de la narrazione che si commuove restando fermo, come le carcasse che ferme stanno ai posti loro assegnati, mentre passa fra loro il sommozzatore. Infatti non c’è niente da fare: una carcassa rimane solo una carcassa, non importa di chi o che cosa – come sanno i meticci, si tratti di meticci messicani o di meticci italiani. Possono mai essere contate, le carcasse delle tante cose che infestano il mondo? ha, il numero, la stessa realtà che hanno le carcasse quando mente umana, una qualsiasi, vi dondola intorno passando e considerandole, in attimi separati di attenzione, una per una? Bobby Western avrà poi notizia del passeggero in più dai due inquietanti visitatori che sarà stato costretto a fare entrare in casa sua per un breve colloquio, ma dal fatto che le sue ricerche portano a stabilire che un passeggero è veramente sgusciato via, mettendosi in grado di sfuggire, perché così aveva studiato con calma di fare prima del tuffo del tutto nell’acqua che è costato la vita a tutti quanti erano su quell’aereo, passeggeri ed equipaggio (Il passeggero, cap. II/2). Determinando così il mistero su cui è basato il romanzo Il passeggero.

Se mai c’è tecnica finale di CMC, i dialoghi di I/2 (Il passeggero) mostrano adesso, tecnica questa, come tecnica de l’indugiare basata su la dispersione, possibile ne la formula del dialogo: non si va mai diritti al nocciolo, ma si indugia e si ripete la domanda e si torna a domandare, per avere conferma su ciò che non aveva mai costituito la domanda.

Esempio di dialogo basato su dispersione: «Che ore sono? chiese Oiler. | Le quattro e dodici. | Sputò e si asciugò il naso con il rovescio del polso. Si sporse oltre Western e chiuse le valvole delle bombole. Detesto le merde come questa, disse. | Cosa, i cadaveri? | Be’. Anche. Ma no. Le situazioni assurde. Che non riesci a decifrare. | Già. | Qua non ci sarà nessuno per un altro paio d’ore. Forse tre. Cosa vuoi fare?| Cosa voglio fare o cosa penso che dovremmo fare? | Non lo so. Tu come la vedi? | Boh. | Oiler si sfilò i guanti e aprì la sua borsa da sub e tirò fuori il thermos. Tolse la tazza di plastica dalla bottiglia e svitò il tappo e si riempì la tazza e ci soffiò sopra. L’operatore stava tirando su il cavo di sicurezza e il cesto. | Manco si riesce a vederlo quel fottuto aereo. E vuoi che l’abbia trovato un pescatore? Stronzate. | Non credi che le luci potrebbero essere rimaste accese per un po’? | No. Forse hai ragione. | Oiler si asciugò le mani in un telo che aveva nella borsa e tirò fuori l’accendino e le sigarette e ne aspirò una dal pacchetto e se l’accese e rimase a guardare l’acqua nera e sciabordante. Sono tutti lì seduti ai loro posti? Che cazzo mi significa?» (pp. 21-22). Vediamo la carcassa del complotto: la segnalazione dell’aereo in fondo a quel tratto di mare è stata fatta per scopo uno ben preciso, cioè inviare in quel tratto sommozzatori nel fondo del mare. I sommozzatori casuali sarebbero poi diventati i personaggi del romanzo costruito intorno al mistero dell’aereo in fondo al mare. Ma colui che registra i dialoghi dei due operatori del profondo, che rapporto con la costruzione del romanzo, e quindi che che cosa è?

Questo è un modo di impostare dialoghi che è riportare dialoghi impostati con bifida lingua. Due sono gli uomini posti in gioco: more uno, l’altro rimane in vita, che è ciò che richiama il fenomeno del maledetto giocare con gli omini. Cosa aggiunge, di più, in questi due ultimi romanzi, CMC il vecchio? Scrivere un romanzo è sempre fare il furbo, per uno scrittore di professione, o poco o tanto, ormai con quello che è l’arte di scrivere. Qui non si tratta soltanto di mostrare il mondo attraverso novella una opera-mondo, ma di mostrare il modo in cui un linguaggio semi formalizzato può parlare di tutte le cose del mondo a lo scopo di creare opera-mondo ora spacciata come opra nova e novella. Alicia e Bobby sono due tipi di linguaggi diversi applicati al mondo che prevede anche la comparsa dell’Opera-mondo. Il romanzo è costruito sul rapporto fra due tipi di linguaggi (richiamo al linguaggio formalizzato e scorribanda nel linguaggio non formalizzato), con suprema sapienza costruito a lo scopo di non progredire in nessun modo alcuno dei due visti possibili. Il passeggero è basato su la alternanza di sequenze dialogiche e sequenze narrative; Stella Maris comprende soltanto resoconti di dialoghi registrati al magnetofono, riguardanti saluti di benvenuto quando ci si incontra, (nel tempo stabilito che è l’inizio de l’incontro), discorsi quando si parla (sfruttando a pieno tempo a disposizione per parlare), formule di chiusura quando ci si lascia, ponendo fine a quel tempo infausto che è allora il tempo de l’incontro. Questa forma fissa applicata ad ogni capitolo, (Incontro, Dialogo, Saluti) dimostra quanto CMC fosse lontano dalla astrazione logico-narrativa su cui sarà basata la Nuova Composizione Letteraria – anche in queste estreme due ultime sue opere – indubbiamente superiori da quanto composto in precedenza.

La questione da affrontare è ciò che riguarda la storia dell’aereo sott’aqua (“aqua” è qui ciò che si è scelto di scrivere in latina modalità di parlare, perché è ciò che soffoca non richiamando ad alcun raddoppiamento, perché il raddoppiamento è il richiamo a la polifonia. Che è ciò che questo romanzo, in quanto dilogia piatta di forma, giammai comporta), da cui sembra che un passeggero sia qui misteriosamente scampato, portando via con sé scatola nera (black box) e valigetta di pilota. Il passeggero scomparso è la lettera “C” della parola “Acqua” (falsa parola, falsa cosa de la maledetta lingua italiana che non rimanda a cosa alcuna de la maledetta razza italiana, che è antirazza), che chiama tale parola a diventare la parola latina aqua”. La traduzione mostra qui il gioco futile su cui questo romanzo è stato in riffa e raffo messo insieme a sbiffo e sbaffo. Viene definito “questione da affrontare” perché è ciò che costituisce il racconto su cui si basa questa pretesa dilogia, ma questo pezzo del meccanismo rimanda a ciò che lo contiene. Faccio chiaro: la struttura frattale si vede solo al di sotto di un certo grado di ingrandimento, dopo il quale la struttura frattale stessa non può che disparire.

Il nichilismo nasconde la macchina del racconto, che è quello che ha sempre fatto Cormac McCarthy con ghigno di nichilismo figlio posto in pasto desnudo in vestito elegante e pure in sala di cinema. Adesso il nichilista mette a nudo la macchina celibe di racconto solo suo. È qui che interveniamo tutti noi quanti che siamo. La macchina del racconto è gestita dallo sgorbio focomelico, figlio della vergine del tempo amenorroico: il Talidomide Kid, nanerottolo focomelico e maldicente, avanzo io l’idea d’un Giovanni Boccaccio sonoramente decameronizzato e sbertucciato in fondo al cesso, una delle più infelici creature della letteratura, stronzo parente stretto degli ectoplasmi tossici di Burroughs, signori, questo sgorbio maledetto è il capocomico di una compagnia di guitti da baraccone – tossici puranco – di tante e tante meraviglie da straccetti di cinemetto maleodorante d’Itala frangia di periferia. Dio stramaledica l’Italia! La sua triste figura si può collegare anche a la Picciola gente di Murakami (almeno 1Q84, L’assassinio del commendatore, faccio presente, signori, e qui indico) – se non di Schreber. Forme alternative in forza di disprezzo verso tutto ciò che rappresenta Boccaccio maledetto di cui parlo e sovra tanto sputo: John Boccaccio, Johnny Bad-Mouth, Johnny Mattaccio. Il Talidomide Kid non è solo lo sgorbio schifoso, è – quello lì maledetto – l’archetipo de la degenerazione razziale, che finalmente si comincia a bene intravedere ne lo scintillio di stelle de la letteratura: è il meticcio latino, la carcassa schifosa in fondo al mare, il bastardo di italiano ma che sonoramente torna, guitto, a batter cassa di sangue per sangue, goccia per goccia, pronto ad abbracciare, come carcassa a lo posto suo fino ad allora mantenuto, il sommozzatore che lo deve trasportare su sovra la superficie del mare (Golfo del Messico). Gli spettacoli sono cominciati con l’inizio del ciclo mestruale di Alicia, e infatti il Kid maledetto (sgorbio schifoso, italiano bastardo, Boccaccio di merda – faccio presente che sto parlando di quello, del Kid) parla del grande spettacolo in suo onore, l’unico dei quali ci sia dato di sapere qualcosa: «Orbene sior presentator, noi si fa la danza mestruale per la signorina Ann qui presente.» (Il passeggero, chi parla?, p. 46). «Uno spettacolo di menestrelli in realtà all’inizio c’è stato. Quando io avevo dodici anni. L’hanno annunciato come lo show mestruale. In onore di. Una porcheria oltre ogni dire. Io perlopiù mi raggomitolavo nel letto e lavoravo su qualche problema matematico.» (Stella Maris, p. 84, è Alicia a parlare – che sia adesso Alicia a parlare, non può evitare di porre la domanda “chi parla?” a proposito de le due citazioni, che coprono entrambi li romanzi). Visto che ho citato Burroughs, amico mio, non posso che sottolineare Cronenberg (David) per il suo tradimento di Burroughs (William S.), così come non posso che prendere una volta di più a virtuali calci in culo quella spina nel fianco che rimane il finocchietto bastardo di italiano che era Pasolini (Pier Paolo, il meticcio italiano, che tutti voi pure conoscete, o bene o male, pur di troppo!) per il suo riportare il meticcio italiano e abborracciatore di storie Giovanni del Boccaccio, messere, alla sua vera natura di meticcio italiano, che è la falsa natura che solo cotanto spettacolo da colui messo in piedi può disvelare, questo perché il meticcio italiano è la cosa che, fra tutte, odio di più in tanto assoluto – e la prima cosa che, tra tutte le cose del mondo, deve essere tolta dal mondo una volta una per tutte, nel silenzioso rumore del mondo, perché lo ha messo a nudo, carcassa puteolente, senza però pensare di abusarne. Meticcio è ciò che non ha diritto di vivere.

La porcheria è ciò che il meticcio (il meticcio Dante A., il meticcio Boccaccio G., il meticcio Leopardi G.) ha fatto e postato nel mondo con maligna intenzione bagascia. La letteratura è il gioco del meticcio, che non ha nulla a che fare con il gioco del mondo, che invece è il Gioco rincorso come Gioco de le perle di vetro. La questione è appunto ciò che riguarda ciò che non trapassa mai – come vi sarete ormai resi conto, voi teste di legno.

Dico che quel nichilista d’accatto che, in fondo, era Cormac McCarthy ha sempre nascosto la macchina di racconto in sua opera sottilmente letteraria; adesso il nichilista che è Cormac McCarthy mette a nudo la macchina di suo racconto molto dal braccino tagliato corto. La macchina del racconto finale di cui si parla è gestita da lo sgorbio maledetto e focomelico, figlio della vergine del tempo amenorroico: Talidomide Kid qui nomato (bastardo, ecc.).

La meccanica quantistica si presenta in questo romanzo a teste di cazzo sue due come ciò che non chiama misurazione quantistica in quanto ciò che chiama il personaggio. Cormac McCarthy non scrive per farla finita con la letteratura, come nel caso di Joyce (Giacomo Joyce, dico), che impropriamente richiama, egli, ne la citazione da Jung & Freud, e come sarebbe tempo di rifare, ma… L’opera-mondo è qui meta di ciampincantesimo (intendo: “inciampo + incantesimo”). La misurazione quantistica in rapporto al personaggio: CMC tiene fissa dimensione sua di personaggio in quanto personaggio che è personaggio posto presto ratto in fuga, e fuga fugaccia fughetta fitta con la focaccia, di cui poi più si sa nulla.

La MiQ sembra non mostrare il passaggio di uno stesso oggetto attraverso sfondi diversi, che hanno il potere di annullarlo in quanto protagonista, ma registrare costellazioni di punti che comprendono presenza la de l’oggetto che, illusoriamente, lo si voleva presentare come oggetto di cui era necessario monitorare percorso lungo traiettoria una. Fermo restando a punto unico di soggetto, questo sembra tutto solo illusione. Perché mai? La mq può annullare l’illusorietà del protagonista, che è quello che invece in questi duoi romanzi non ha importanza alcuna. Questo perché CMC non pensa la mq in un rapporto con la tecnica della narrativa (ad esempio per quanto riguarda il punto delpersonaggio”), ma come dire che CMC non costruisce romanzo suo in base a caratteristiche di MiQ, bensì in base a nominazione di tecniche scientifiche che dicono che il vecchio modo di nominazione non tiene più? Ogni MiQ indica una successione discontinua di stati, in cui il soggetto è solo un punto in una costellazione rilevata in ciò che lo determina solo come punto tra altri punti.

Ma questo comporta non avere passato, perché se il tempo in cui un punto ha finito per comparire in una configurazione, è il tempo che solo può chiamare configurazioni in cui quel punto era attivo solo in quanto non doveva chiamare configurazione alcuna in cui quello stesso punto sarebbe stato morto di già, che mai riguarda ciò che riguarda il punto determinato come soggetto. Che è ciò che impedisce la formazione di un passato comune, in quanto comune a tutti i vari punti altri. Che è ciò su cui il romanzo basava il suo punto di forza per quanto riguarda il personaggio. CMC riduceva il personaggio a un avvicinamento a un punto zero. Per infine collegarsi, in questa dilogia, a quanto riguarda la MQ in rapporto alla filosofia e quindi alla nuova determinazione del personaggio – che però egli non presenta, in quanto Autore. Pensate alla dialettica dello spazio che diventa tempo, perché tutto parte da un punto, il punto che acquista autocoscienza e porta lo spazio a diventare tempo; il tempo ritorna qui adesso spazio. Questo non salva dal male fatto nel mondo, perché il punto di partenza è l’Incontro che non ha avuto risposta, cioè l’Incontro con la Sorella ritrovata – che avrebbe indicato il tempo nuovo.

Così non esiste passato, perché niente fa riferimento al punto fisso. Se il mondo morisse, nessuno rimpiangerebbe allora il mondo, che resterebbe senza tomba, ma si ricorderebbe il mondo solo come ciò che una volta era esistente in una data configurazione ma non più in quell’altra, pensando ormai solo ad andare avanti in una sola direzione, senza più mondo, come mostra il romanzo La strada. CMC sembra essere conscio di questa situazione senza scampo, per quanto sembri evitare di trarre tutte le conseguenze, che solo potevano derivare da una riflessione sulla mq applicata a la fragile zolla del romanzo.

Lo Sgorbio maledetto (e torno qui a dire del maledetto Kid, che era più schifoso degli schifosi) si determina in un batter di ciglia sue che è sbatter di pinne sue monche e maledette: lo Sgorbio succiasangue campa e scampa e ciarla allegro e arcigno pronto davanti ad Alicia, che lo considera determinandosi come ciò che scampo non campa mai (sgorbio succiasangue maledetto): lo Sgorbio ricompare a fianco di Bobby, che però lo fa scomparire, determinandosi egli, parlo di Bobby, a differenza de lo Sgorbio maledetto, nella passeggiata sulla spiaggia sotto la tempesta imminente, come ciò che ha solo terra dove andare. Avere terra dove andare è ciò che determina la possibilità de la tridimensionalità, signori, cioè di mettere insieme la possibilità di un racconto (anche in quella situazione), mentre avere solo loco uno dove capitare, come capita ad Alicia, è la consegna a lo schiacciamento bidimensionale quando ella si consegna chiedendo di entrare, creatura malconcia, in clinica Stella Maris nomata.

Se la grande letteratura è polifonica, e la paraletteratura bidimensionale e monodica, la questione non è stare a sentire il mostriciattolo schifoso (mi riferisco al bastardone Kid – secondo me di pura origine italiana, come mostra Commedia dell’Arte, signori, che quello, il mostriciattolo, tira fuori dalla sua lercia bisaccia), ma fare in modo di portare a morte il mostriciattolo schifoso, quello, quando il mostriciattolo sbatte, schifosa creatura che è sempre stata, pinne sue, che sono il suo modo di parlare, che è l’alingua del meticciato (mi sono sempre riferito allo schifoso Talidomide Kid). Lo sgorbio viene naturalmente fatto fuori (Kaputt) dalla passeggiata a cui Bobby lo invita, quando se lo trova fisso ospite davanti, ospite tra tutti, quello meno gradito, nella sua precaria baracca diroccata sulla riva di fronte al mare. Questo, a mio modo di vedere, è il punto più bello di ‘sta dilogia, voi che ne dite? Andiamo avanti. Lo sgorbio schifoso si presenta come ciò che non ha terra dove andare. Alicia non può farlo fuori in quanto creatura bidimensionalizzata, nel punto in cui la possiamo conoscere, cioè nel “suo” romanzo Stella Maris, ma Bobby lo può fare fuori in quanto creatura di un mondo ancora tridimensionale nel “suo” romanzo, cioè lo spazio che gli compete, che è lo spazio tridimensionale del romanzo Il passeggero poiché Bobby ha modo di vedere in anticipo quello che Alicia potrà solo vedere comparire dopo, essendo essi entangled.

Cormac McCarthy inchioda lo sgorbio maledetto (il focomelico schifoso, parlo del Kid, pulcinella italiano di razza di merda), ma dà libero campo al nichilismo che ha da sempre contraddistinto arte narrativa sua e che reggesi adesso, monca a malapena, su quel Bobby Western suo solamente. Il focomelico inchiodato è ciò che chiama Alicia, che non è in grado di trasportare lo Sgorbio maledetto a fare la passeggiata che può legittimamente toglierlo dal mondo (Il passeggero, 7/2) (passeggiata = polpetta avvelenata da dare alla creatura malefica, sto dicendo). Lo Sgorbio maledetto (intendo il maledetto Kid) campa dentro la mente di Alicia, lo Sgorbio maledetto (intendo il maledetto Kid) crepa fora de la mente di Bobby Western. Nessuna creatura maledetta, che non ha diritto di vivere, creperà per sua natura se non sarà invitata, pure con insistenza, a fare una passeggiata quando il tempo è più inclemente per invitare qualcuno a fare qualcosa come una passeggiata (= si troverà il modo di farle avere, in qualunque modo, la polpetta avvelenata in loco uno segregato, dove loco di “polpetta avvelenata” è di novo terra allora possibile). Questo è il pericolo, che pone in periglio anche colui che invita a la passeggiata. Per Alicia la matematica è ciò che alcuni geni matematici hanno finito per abbandonare – c’è un punto oltre il quale teoria e pratica hanno fra loro rapporto in tutto diverso – questo è quello che ha avvicinato CMC a novello tipo di romanzo uno, salvo rimbalzarlo ratto e subito a rotta distretta di collo.

Ricordare la barzelletta del focomelico maledetto, il Kid, che parla alla sua vittima, Alicia, sorella di colui che, giustamente, troverà il modo, per razza, di farlo fuori e secco: «Senti qua. Intermezzo comico. Okay? Se l’hai già sentita fermami. Topolino chiede il divorzio, il giudice guarda giù e gli dice: Se capisco bene il motivo del contendere è che lei avrebbe sorpreso sua moglie Minnie che ramazzava in ogni angolo della casa. È così? E Topolino dice: No, vostro onore, non è quello che ho detto. Io ho detto che l’ho beccata a scopare lì e là. | Il Kid camminò per la stanza pestando i piedi e tenendosi la pancia e sganasciandosi dal ridere. | Capisci sempre tutto storto. Cosa ridi? | Uah, boccheggiò lui. Cosa? | Capisci sempre tutto storto. È qui e qua. Non lì e là. | E cosa cambia? | L’ha beccata a scoparsi Qui e Qua. Ma figuriamoci se ci arrivi.» (Il passeggero, p. 13). Il focomelico Kid maledetto è l’uso de la lingua ridotta a barzelletta, gioco di parola, battuta di spirito, che è ciò che porta la lingua a farsi l’alingua, che è ciò che contiene il modo di parlare de gli italiani schifosi, il sacchetto maledetto da cui il Kid focomelico tira fuori i suoi trucchetti da saltimbanco da quattro soldi. (Leggete Daniel Paul Schreber e poi mi direte e darete ragione.)

I capitoli del Passeggero hanno stessa struttura effe-i-esse-esse-a: prima parte dedicata al Kid (in questa recensione definito giustamente lo Sgorbio maledetto che deve essere soppresso in piena legalità), seconda parte dedicata alla tridimensionalità della visione di Bobby, che mostra il progredire de l’omo ora posto in fuga piatta. Solo l’ultimo capitolo presenta la visione unica, che è la visione di Bobby Western, quando lo Sgorbio schifoso ha finito di campare sua vita di monco (perché è stato giustamente eliminato al termine della passeggiata, perché la vita del focomelico Kid era solo: uno vita due indegna tre di vivere) e la costituzione duale dei capitoli ha ceduto il passo ad una sola finale costituzione di capitolo. Questo è il grande spettacolo che il focobastardo e stramaledetto non è mai arrivato a concepire nel suo teatrino di guitti tratti in scena: l’esecuzione capitale del guitto, del foco maledetto, de lo storpio schifoso d’itala origine.

Perché la soppressione del Kid (lo sgorbio maledetto di origine italiana) non ha prodotto un tipo nuovo di racconto, dopo la forma tridimensionale del Passeggero? bensì la forma bidimensionale di Stella Maris? Perché la soppressione del Kid (sgorbio maledetto) non fa capo a un progetto di soppressione della razza di tutti i Kid, ma solo decisione di uno qualunque che campa ormai a malapena come un senzatetto.

Tutto questo indica una struttura che la dilogia di McCarthy non ha mai affrontato, cioè il rapporto tra la madre e la sorella (non nei confronti del protagonista, ma nei confronti di ciò che ha portato i due, fratello e sorella, di colpo, dentro il mondo entrambi legati). La Madre mette al mondo con un lampo verticale di creazione, che chiama il lampo con il quale il dio monoteista colpisce il suo fedele, e il lampo distruttivo che il padre creatore del bagliore dei mille soli sorti insieme nel cielo ha portato entro il mondo – come lampo di sua bomba atomica. Opposto a quella metafora del dio padre, la sorella dona l’arma metonimica al fratello che gli permette di scorrere il mondo. Questo rapporto avrebbe costituito il mondo di fronte al quale l’opera si sarebbe confermata come opera-mondo per davvero. Noi abbiamo una prima metà in cui agisce la parte maschile (tridimensionale) e una seconda metà in cui agisce la parte femminile (ma frutto di bidimensionalizzazione). Il protagonista si immerge nelle profondità marine, in quanto sommozzatore, per intravedere quello che coglie come qualcosa di cui è meglio non avere a che fare. Noi, in quanto lettori, non abbiamo l’interazione, che solo la quadridimensionalità potrebbe fornire. La quadridimensionalità era ciò che aveva nella mq ciò che era necessario per poter essere evocata autenticamente nell’ambito de la narrativa. Che però doveva confermarsi come Nuova Composizione Letteraria. Allora la narrativa sarebbe stata la cosa che avrebbe fornito il legame che lega madre e sorella in rapporto al Protagonista. Il legame incestuoso tra Bobby e Alicia si situa nella differænza tra la terra della madre, che è terra non accettata, e la terra della sorella, che è terra straniera, che adesso prende l’aspetto di progetto letterario. La sorella deve far rinascere nella nuova terra – che è ciò rimanda alla NCL. La madre rimanda alla nonna, mentre il padre si determina solo come colui che ha avuto a che fare con la messa al mondo del congegno della poco fausta bomba atomica. Bobby Western si determina, lungo la prima parte della dilogia, come colui che deve porsi in quanto personaggio posto in fuga. Il personaggio in fuga è la costante della narrativa postmoderna. Il nichilismo asconde la macchina del racconto quando il nichilista stesso mette a nudo la propria macchina di racconto – in quanto racconto gestito da lo sgorbio focomelico (lo schifoso disgustoso Kid = Vita Indegna di Vivere), figlio della vergine del tempo amenorroico.

Non solo Alicia è privata della sua lingua, ma anche lo Sgorbio maledetto è privato della sua lingua (boccaccesca, cioè l’alingua di Boccaccio). Noi non sappiamo quale possa essere la lingua di Alicia, poiché è la lingua che è stata interdetta dall’autorità che ha diritto a stabilire ciò che è lingua, ma sappiamo quale sia la lingua dello Sgorbio maledetto (mi riferisco al Kid meticcio), perché è la lingua che l’autorità ha permesso, per quanto la vediamo (nelle parole di Alicia) come una lingua che ha poco da dire, quasi come “lingua” bluff: la lingua dello Sgorbio maledetto è l’alingua del meticciato, che non è condannata al silenzio, perché è l’alingua del meticciato che ha impestato tutto il mondo, l’alingua del meticcio italiano John Boccaccio del Cazzo, la lingua del meticcio italiano che è l’alingua del meticcio italiano finocchietto e comunista Pier Paolo Pasolini, cioè l’alingua di qualunque meticcio del cazzo alla quale sia stata data facoltà di determinarsi come “la lingua” in grado di determinarsi in quanto lingua che deve poter dire la sua. Vale a dire qualunque lingua del meticciato, che è la cosa più contraddittoria che si possa immaginare, vale a dire l’alingua di qualunque meticcio che non sia stato invitato a fare una passeggiata (= a prendere la polpetta avvelenata). Alicia si determina così come ciò che è corpo singolo per accogliere: «Volevo essere venerata [dal fratello]. Volevo che entrasse in me come in una cattedrale.» (Stella Maris, p. 123). Mentre solo il meticcio è ciò che deve essere tolto dal mondo. Il meticcio è quella cosa a cui deve essere tolto, con ogni tipo di forza, il diritto di vivere, perché è quella cosa che impedisce la vita – non per quello che fa, ma per quello che è.

Il mare è il punto che divide fratello e sorella: la sorella nella doppia figura della Madonna Stella-del-Mare, che rimanda alla Grande Madre mediterranea e, in quanto Stella-del-Mare, nel suo lungo mantello che la copre dal piccolo capo circondato di tante stelline scintillanti giù fino ai piedi, che solo le mani tendono a scostare appena lungo i fianchi e il ventre, può essere vista come una stilizzazione della vagina, che non posa sul mare, bensì sovra tratto appena di terra o scoglio battuto dal mare, e che la terra segna, aiutando a uscire dalla superficie del mare quanti non vogliono più avere a che fare con il mare, mentre il fratello è colui che, per impegno suo lavorativo, ha scelto di immergersi nel profondo fondo giù del mare oscuro, dove nessuna luce di stella lo può mai raggiungere, accettando il fondo del mare come suo spazio di lavoro – Madonna-Cattedrale che accoglie il navigante a fine di suo percorso compiuto dalle profondità del mare del Messico avvolgendolo nell’azzurro del suo mantello-conversazione per farlo rinascere in Iperborea sua – bianca e lontana.

Il cognome Western indica ciò che riguarda l’Occidente, che è punto e svolta, ciò che punta a Nord, indipendentemente dal punto casuale di nascita. Conto e m’inciampo. Questa dilogia ultima, ambientata nello spazio tra terra e mare, limite vicino al meticcio messicano, porta a terra e mare tanto diversi, che dispongono ciò che deve essere restituito a ciò che rende l’Europa la terra de la razza bianca d’Europa, signori. Spesso mi soffermo a parlare degli italiani (= scarafaggi africani) come di ciò che mi ha sempre fatto schifo (è la naturale repulsione verso gli insetti = massa senza numero), perché ho a che fare con gli italiani (= scarafaggi italiani), antirazza (ciò che esiste solo come massa), ma questo non vuole dire che non consideri altri meticci, come tutte cose che mi hanno sempre fatto da sempre schifo. E che devono essere fatte scomparire dalla forma perfetta del mondo, una volta che si vedrà nel mondo come la forma perfetta che deve essere mantenuta.

Ho detto che la Madre richiama, qui, le veneri aurignaziane, cioè l’Africa; viceversa la sorella richiama la Rinascita nel Nord. Da qui il richiamo all’incesto – che però prende la forma di incesto chiamato dalla sorella, che esclude la madre. La Madre è colei che immette nella falsa terra; la Sorella è colei che, sola, nel tempo dell’Incontro, può donare la Terra, anche se Terra solo come terra dove andare per la sua posizione di schiacciamento, perché sta al fratello/marito creare la terra che sarà allora la Terra del Sacro, cioè la terra del Sacro Nord, che sarà l’autentica terra in quanto Terra del Sacro. È la terra a chiamare il suo abitante.

La bomba atomica è quel lampo di sguardo distolto da un mediocre dispositivo come può essere un semplice occhialino di protezione. La potenza di distruzione, allora raggiunta, doveva portare a distinguere ciò che ha diritto di vivere da ciò che non ha diritto di vivere. Questa, comunque, non è una recensione – lo vediamo dagli elementi posti in gioco, che determinano la terra del gioco come ciò che non è la terra entrata nel gioco, che può essere solo la Terra del Sacro, che mai è la terra in gioco. Dico che, a livello di esperimento mentale, non bisogna pensare di eliminare gli italiani per quello che fanno, ma per quello che sono.

Far sonare la parola in musica è arte che la razza bianca impara dal meticciato, secondo Gobineau: basta pensare al rapporto che si estende da Monteverdi (meticcio italiano), fino a quei tanti Lieder lontani di Schubert (compositore di razza bianca). Devo dire che mi ha stupito assai come in questa coppia di romanzi (da più parti nomata Dilogia) non si parli de la musica di Messiaen mastro Olivier. La musica di Messiaen è legata con il concetto di opera-mondo. Ogni opera di Messiaen è ricreazione della meraviglia completa del mondo. Questo si nota soprattutto nelle musiche basate sui canti degli uccelli, dove non è tanto il canto a essere considerato, quanto il complesso fisico che produce quel canto (la grandezza del cuore, il modo di respirare, ecc., nel corpicino degli uccelli), cioè la struttura meravigliosa determinata dalla meraviglia del mondo e che a sua volta determina la meraviglia di ogni singola parte del creato. Per cui ogni opera di Messiaen parte da questa riflessione sulla particolarità del creato che la musica coglie attraverso la sua strana struttura. Il fatto di essere slegato dalle correnti artistiche dell’epoca, porta Messiaen a ricreare il mondo, cioè a ripensare l’opera della creazione come cosa da affrontare nella sua totalità ogni volta daccapo.

Ogni romanzo stabilisce regole per tutte le parole del mondo, ma le prime parole di un romanzo definiscono lo stato della lingua in quanto suo funzionamento ancora operante in una comunità – ma il meticcio non giunge mai a la lingua, perché rimane fermo in su la soglia de la parola, che per lui è parola e stop, e che per Cormac McCarthy è visione di parola di scena a livello cine-ma-tografico.

La narrativa postmoderna vincola i suoi personaggi ad un pendolarismo simile a quello dimostrato dal personaggio di Bobby tra le cose infinite di mondo fratto boia suo, che vanno dalla disinvoltura dimostrata da quel personaggio nel ristorante del disgustoso meticcio mafioso italiano (è bello che, in un romanzo così modesto come questo, un personaggio tanto disgustoso sia un personaggio italiano con rapporti con la mafia – però bisogna precisare che l’Italia non ha impestato il mondo con mafia e ristoranti, dopo lo ripeterò, ma con Dante e Boccaccio e schifezze altre di istesso genere, perché se non si comprende questo, non si comprende quello che è razza degenerata, vale a dire razza che deve essere tolta dal mondo per il bene del mondoe la disinvoltura dimostrata nella baracca occupata come personaggio in fuga senza più casa, che è quello che porta alla fine il mostriciattolo focomelico, ad accettare, in una passeggiata, la polpetta avvelenata bella pronta per lui. Ma il bello dell’arte degenerata è che chiama la razza degenerata che è nel mondo a comparire per quello che è come niente fosse.

Le cose del mondo sono ciò che possono essere nominate come insieme di cose che adesso tengono l’aspetto di tanti mille e mille tanti puri ismi. I Ringraziamenti della traduttrice indicano le competenze specifiche richiamate in ciascun volume: ambiente fisico e matematico, nautica, motori e corse automobilistiche, immersione subacquea, aviazione, estrazioni petrolifere, materia legale, per quanto riguarda Il passeggero; mentre per Stella Maris gli ambienti riguardano quello fisico e matematico, il campo medico, la sfera filosofica – a cui si deve poi aggiungere le questioni tecniche legate alle armi per quanto riguarda il dialogo sull’attentato a Kennedy.

La madre porta sulla terra (tramite spostamento verticale), la sorella comporta lo spostamento orizzontale lungo la terra. È per questo che Bobby può scorrere la terra, mentre la sorella subisce solo schiacciamento bidimensionale. A sua volta la sorella è disposta a oltrepassare immediatamente il tabù dell’incesto, soggiacendo alla passione e finendo schiacciata, a differenza del fratello, che invece fa di tutto per rispettare quel tabù, pur sentendosi terribilmente attratto da lei e venendo sballottato tra i luoghi di tutto il mondo.

Mi infastidisce quando si sente dire che gli italiani hanno impestato il mondo con mafia e spaghetti: gli italiani hanno impestato il mondo con Dante, Boccaccio e schifezze de lo stesso tipo e poi con tutti gli altri italiani del mondo che hanno sempre impestato il mondo, cioè che sono sempre stati nel mondo, e che hanno portato mafia e spaghetti, ma anche Dante e Boccaccio; se questo non è chiaro è perché noi non riconosciamo più ciò che è arte degenerata perché non riconosciamo più ciò che è razza degenerata, e non chiamiamo più la razza bianca – e lì allora l’Italia vincerà sempre, perché mai si parlerà di passeggiata e polpetta avvelenata.

Ma stavamo parlando della mq. Noi non riconosciamo ciò che deve essere eliminato in quanto ciò che non ha diritto ad abitare il mondo diventato quadro. L’uomo non sarà mai padrone del mondo finché non avrà considerato ciò che ha diritto di vivere e ciò che non ha diritto di vivere. Ci vuole l’invito a “la passeggiata”, cioè la possibilità di fornire la “polpetta avvelenata” a ciò che non ha diritto di vivere. Come tutti i meticci, gli italiani non devono essere eliminati dal mondo per quello che fanno, ma per quello che sono. La rinascita della letteratura può avvenire ormai in due soli modi acchiappati stretti in un volo solo in qualcosa di negativo: incesto con la madre, incesto con la sorella. Così otteniam, noi, in puntura di fioretto, schemetto che sfiora spunta di fioretto – che richiama duplice tocco de la mq:

  1. Il romanzo del passeggero è ciò che conduce all’opera-mondo – mentre gli altri romanzi di CMC non conducono ad opera-mondo alcuna (semmai il contrario). CMC è sempre stato un alimentatore di narrativa in quanto stupidità che il cinema ha giustificato in quanto ciò che dà a vedere, portando l’arte di dire a presuntuosa arte di vedere.

  2. Questo comporta una macchina nascosta di racconto – che qui è la visita dentro l’aereo posto sott’acqua, con le due file composte di varie carcasse ferme al posto assegnato.

  3. Quest’aborto ottenuto di racconto ha la sua rappresentazione nello sgorbio decameronico del meticcio italiano (= scarafaggio africano) Boccaccio Giovanni, che qui si presenta con il puzzolente carcassume de’ suoi racconti messi in fila ne la vecchia carcassa puteolente del Decameron. La grande letteratura rende viva la piccola letteratura del mondo tutto. Lo sgorbio Talidomide Kid risveglia vita novella sua in creaturina velenosa (quella) che era Leopardi (Giacomin poverin), costruttore gobbetto di sì tanti appartati vecchi mucchietti di parole, impropriamente, da prezzolati compiacenti criticanti molti fessi, oltraggiosamente nomati “poesie”. Il meticcio è ciò che deve essere soppresso.

  4. CMC non è legato da cattiveria nei confronti de la letteratura, che solo è ciò che comporta la messa in discussione de la letteratura attraverso mezzi suoi di letteratura – e questo è falso suo lasciapassare per entrare in carcassa ferma d’aereo sotto acqua (Golfo di Messico). Vede ne la letteratura, il vecchio che è sempre stato, solo modo per campare vita sua grama. Che è quello che ha comportato truffe letterarie nomate a Dante (Aliporco), Boccaccio (vecchio Joe), Leopardi (idiota Little Jim), ecc. (tutti scarafaggi africani, se non sbagliio) CMC vuole solo dare forma nova a vetusta propria teoria sua di nichilismo uno & integrale, che è la teoria truffa giusta tagliata per taglia cervellino spicciol suo che è stato, ciò che è gran teoria truffa di meticciato razza maledetta, razza latina, bastardume italiano, antirazzaboccacciaccio pria di tutti, sostengo io.

  5. Il falso lasciapassare che egli usa è la mq, qui mai riconducibile alla misurazione quantistica, che è ciò che mette fine al protagonista come dato che passa da per tutto.

La letteratura è il gioco del meticcio, che nulla ha a che fare con il gioco del mondo, che anche è il Gioco de le perle vetrificate. Infatti è importante notare che lo sgorbio schifoso, voglio dire la cosa (squallida, dico quella) che conoscete come il focomelico Kid il bastardo (il maledetto, quello di cui ho sempre parlato, il bastardo italiano), è stato portato giustamente a crepare in base ad una passeggiata da parte de la persona che lo sgorbio schifoso infestava, che è come un trasporto coatto in carro bestiame – e ci voleva, ma questo è roba che già detta è stata, mi pare. Quindi disserrare qui si può. Pronti: si chiude e si smamma.

(Ho sempre cercato di raggiungere quell’arte morbida di trascrivere rudezza di paesaggio che è passaggio ne la metropoli, che è propria de’ maestri miei vuoi Sophie Kinsella, Jojo Moyes, e, perché no?, l’italiana Sveva Casati Modignani pure – ma sempre senza successo… per cui tanto vale piantarla qui. Anche senza essere riusciti, una volta di più, a fare, finalmente, piazza pulita. Conto: zero, uno, porco due…)

Cormac McCarthy, Il passeggero (2022), traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, Torino 2023

Stella Maris (2022), traduzione di Maurizia Balmelli, Einaudi, Torino 2023